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Autore: Adeia Di Elferas    23/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giacomo guardò con orrore il punto in cui il ferro aveva trapassato la sua carne e lo stupore fu tale che per qualche istante non sentì nemmeno il dolore, trovando solo la forza di dire: “Sono morto...”

Nel sentire quelle parole strozzate, da sotto al ponte uscirono subitamente un sacco di persone che il Barone non riconobbe, tanto la sua vista era annebbiata dall'improvvisa nausea che si accompagnava alla crescente sensazione di freddo e smarrimento.

Don Domenico da Bagnacavallo, guardandosi oltre la spalla, in direzione del corteo che stava a una certa distanza da loro, si accorse che il Feo era in procinto perdere l'equilibrio e fu certo che sarebbe caduto di sella da un momento all'altro.

Così, prendendo il comando della situazione, il prete afferrò le redini e trascinò cavallo e cavaliere verso la vicina chiesa di San Bernardino.

Nel giro di meno di un minuto, dal portale uscì Pavagliotta, che agguantò l'esangue Barone per il mantello e lo buttò in terra con un tonfo sordo.

Giacomo, pervaso da un insopportabile sapore metallico in bocca, sentì l'aria uscirgli dai polmoni tutta a un tempo, mentre impattava col suolo e il dolore pungente della prima ferita venne presto moltiplicato da altre decine e decine di colpi, troppi per essere contati e percepiti distintamente.

In quel momento, mentre una dolorosa ferita inferta con qualcosa di metallico, forse una spada o una falce, lo colpiva in piena faccia, riducendo il suo viso a una maschera di sangue, Giacomo capì che sarebbe morto e che nemmeno sua moglie sarebbe riuscita a salvarlo.

Il gruppo di cacciatori, ormai alla porta della città, avanzava senza essersi accorto di nulla, quando Caterina sentì dei rumori che la insospettirono.

Senza darsi pena di chiedere alla figlia di interrompere il suo basso canto, la Contessa si voltò, cercando con lo sguardo la fine della fila.

La donna fece in tempo a vedere Giacomo che veniva trascinato giù di sella a peso morto e, tra le note che uscivano dalla gola di Bianca, riuscì a sentire il suo flebile lamento, distinguendo chiaramente solo qualche parola: “Oh, Signore..! Oh, Madonna! Sono assassinato!”

E poi vide delle ombre farglisi attorno e cominciare a dimenarsi e nella luce incerta della sera riconobbe in modo netto il profilo affilato e letale di roncole e pugnali.

Non ebbe bisogno di conferme di nessun tipo per capire quello che stesse succedendo.

Per un istante infinito, Caterina si sentì impotente e persa.

Non riusciva a muoversi e nelle sue orecchie il canto della figlia ormai risuonava come un rumore assurdo, irreale, grottesco.

Mentre le sagome che avevano circondato Giacomo, così vicino eppure così irrimediabilmente lontano da lei, continuavano a muoversi convulsamente, colpendolo in ogni modo possibile, Caterina riuscì a ritrovare un barlume di lucidità.

Il suo primo pensiero fu semplice e concreto: il suo Giacomo era morto.

Non poteva essere altrimenti.

Così come aveva saputo fin dal primo istante che suo padre era morto, quando l'aveva visto cadere sotto i colpi dei suoi assassini davanti al portale della chiesa di Santo Stefano, così nel vedere Giacomo cadere in terra, attorniato da un manipolo di uomini armati, era sicura che per suo marito non ci fosse più alcuna speranza. Se anche avesse potuto raggiungerlo in un solo passo, sarebbe comunque arrivata tardi.

Dopodiché tentò di elaborare in una frazione di secondo il fatto che a ucciderlo erano stati molti uomini, apparentemente tutti d'accordo tra loro e organizzati. Doveva essere un colpo di Stato.

Poi, mentre valutava le possibilità a sua disposizione, tra cui dare immediata battaglia ai ribelli assieme agli uomini della scorta e ai suoi figli, il suo sguardo incrociò quello di Ottaviano.

Vi lesse terrore e colpa mescolate in egual misura e a quel punto comprese ciò che non aveva voluto accettare fino a quel momento: il pericolo era lì, accanto a lei. Non nascosto chissà dove, non celato nelle case di chissà quale sconosciuto rivale. Suo figlio era il seme del male che era cresciuto in casa sua per tutti quegli anni.

Quella consapevolezza, seguita dal dubbio bruciante che anche Cesare fosse in qualche modo complice, rese all'istante vano il desiderio di dar battaglia.

L'ultima sensazione che la prese, infine, la centrò in pieno, forte come la prepotenza del suo battito cardiaco: il primordiale desiderio di continuare a vivere nonostante tutto.

Mentre anche Bianca si accorgeva di qualcosa e voltava lo sguardo alle sue spalle, così come parte della scorta, Caterina saltò giù dal carretto ancora in movimento e buttò giù di sella uno dei soldati, incurante delle sue proteste.

Montò in groppa al cavallo e spronò l'animale con violenza, diretta senza indugio verso Porta Schiavonia.

Mosso da un istinto di conservazione che non sapeva nemmeno di avere in sé, Cesare diede di speroni alla sua bestia e seguì la madre a velocità sostenuta, riuscendo a fatica a starle dietro.

Nel giro di un soffio, anche Ottaviano si mise al loro inseguimento.

I congiurati, intanto, non si erano accorti della fuga della Contessa e dei due figli maschi, tantomeno del dissiparsi silenzioso e intimorito degli altri soldati della scorta, che si erano dileguati non appena avevano intuito quel che stava capitando.

Bianca, rimasta sola, si era arrabattata a prendere uno dei cavalli rimasti e, con il cuore che martellava nel petto, era entrata rapidamente in città come avevano fatto i fratelli.

Gian Antonio Ghetti assestò un altro calcio al viso ormai sfatto del Barone e i fratelli Bartolo e Agostino Marcobelli infilzarono per l'ultima volta il ventre squarciato del cadavere di Giacomo Feo, prima che Pavagliotta, pulendosi il mento da uno schizzo di sangue, annunciasse: “È morto.”

“Bene...” sussurrò Filippo Delle Selle, ancora col fiato corto per lo sforzo di uccidere un uomo.

“Aiutatemi...” fece Don Domenico, afferrando il corpo da un lato e facendo segno agli altri di dargli una mano.

Non senza fatica, i congiurati riuscirono a sollevare il cadavere, che ormai aveva quasi perso la forma di un essere umano, e lo buttarono in uno dei fossi che costeggiavano il Montone.

“Ora andiamo...” disse a quel punto Gian Antonio, lanciando un ultimo sguardo al corpo disfatto della sua vittima.

“Ma cosa avete fatto?!” la voce di Tomasoli colpì i timpani di Ghetti come un martello.

Alle parole, il giovane fece anche seguire un colpetto con l'elsa della spada che portava al fianco, che cozzò contro qualcosa di metallico. Sotto alla veste, Ghetti portava una cotta di maglia.

Spaventato da quell'improvvisa apparizione, Gian Antonio scansò di lato Tomasoli e, attorniato dai suoi compari, gonfiò il petto e lo guardò con aria di sfida, parlando quietamente, con una tranquillità che poco si addiceva a un assassino spietato quale aveva appena dimostrato di saper essere: “Quello che noi facciamo, lo facciamo per comando di madonna Caterina e del signor Ottaviano.”

Martinengo, che, vinta la paura, aveva seguito Tomasoli, spalancò le labbra, sconvolto da quella rivelazione.

Pavagliotta, allora, si fece avanti, mostrando il suo vestone scuro imbevuto di sangue e accanto a lui comparve anche Don Domenico, le cui mani impugnavano una roncola gocciolante di rosso per parte.

“Quello che dice Gian Antonio è vero. Il Conte e la Contessa hanno voluto così e noi, da bravi e fedeli sudditi, abbiamo eseguito i loro ordini.” confermò Pavagliotta.

“Infatti – confermò Filippo Delle Selle, notando le espressioni ancora incredule dei due soldati – è il Conte a volerlo. Lui e la Contessa.”

Poi, girandosi verso il resto degli assassini, Filippo alzò il pugnale verso il cielo e cominciò a inneggiare: “Ottaviano! Ottaviano! Caterina! Caterina!”

In breve tempo tutti gli uomini che lo seguivano gli fecero eco e Gian Antonio si rimise a capo del gruppo. Sotto gli occhi sbarrati e attoniti di Tomasoli e Martinengo, i congiurati si incamminarono a passo di marcia verso il cuore della città.

Credendo che stessero dicendo il vero, alla fine anche i due soldati che coraggiosamente erano tornati indietro per vedere che fosse capitato al Barone Feo si unirono alla marcia trionfale dei congiurati, gridando i nomi del Conte Riario e della Contessa sua madre.

 

Giunto nel cuore della città, seguendo a breve distanza la madre, che sembrava avere un cavallo dotato di ali per quanto correva, Ottaviano si rese conto che la Contessa era diretta alla rocca di Ravaldino e che, di certo, lì avrebbe organizzato la sua vendetta a partire già da quella sera.

Era stato uno sciocco, un superficiale, un arrogante a pensare che sarebbe stata così distrutta dal dolore da non riuscire a reagire.

Si era dimenticato che sua madre era la Tigre di Forlì, una donna incapace di farsi turbare dal lutto e dal dolore. Era come una fenice, che rinasceva dalla proprie ceneri ancora più forte e temibile.

Aveva sperato di spezzarle il cuore, di farla soffrire come mai in vita sua, di vederla prostrarsi davanti al corpo del suo amante fatto a pezzi, devastata dalle lacrime e dalle urla di dolore, e invece lei aveva lasciato il cadavere dell'uomo che diceva di amare ai suoi assassini ed era scappata, pensando solo a salvarsi la pelle.

Come aveva potuto pensare di poter ferire qualcuno capace di amare solo se stesso?

E come aveva potuto pensare di farle un simile affronto senza incorrere nella sua punizione? Una leonessa oltraggiata e prevaricata come lei avrebbe di certo fatto l'impensabile, pur di dimostrare al mondo che il suo terreno di caccia era ancora suo e di nessun altro, anche a costo di macchiarsi le mani con il sangue dei propri figli.

Costringendo il proprio animale ad affiancare quello di Cesare, Ottaviano gridò al fratello: “Non seguirla! Ci ucciderà!”

Il più giovane tirò subito le redini, facendo frenare bruscamente il suo cavallo e si mise a seguire senza esitazioni Ottaviano, che aveva imboccato, sotto gli occhi sgomenti dei pochi passanti, una via secondaria.

“Dove stiamo andando?” chiese Cesare, già pentito di tutto.

“Non possiamo andare alla rocca! Lei lo sa che siamo stati noi!” urlò Ottaviano, prendendo una curva a gran velocità.

L'aveva capito nel momento in cui sua madre aveva incrociato il suo sguardo quando si era accorta di quello che stava accadendo alla loro spalle, nei pressi del ponte dei Moratini.

Lei sapeva che era stato lui. Forse non l'aveva ancora metabolizzato e forse ci avrebbe messo un po' ad accettarlo, ma Ottaviano era cosciente di non aver scampo.

“Dove stiamo andando?!” domandò di nuovo Cesare, cominciando a piangere sommesso, sopraffatto dalla tensione e dalla paura.

Ottaviano si assicurò con un veloce sguardo che il fratello lo stesse ancora seguendo e, senza rispondere alle sue domande, lo condusse fino alla casa di Paolo Denti.

Il Conte scese di sella e perse subito la presa sulle briglia, così il suo cavallo partì da solo, nitrendo come un pazzo, ma il ragazzo non perse tempo a cercare di riprenderlo. Era proprio l'ultimo dei suoi problemi, quella sera.

Battendo sulla porta con ambo i pugni chiusi, Ottaviano riuscì a farsi aprire e, senza dare troppe spiegazioni, ordinò a Denti di far entrare lui e Cesare e aggiunse, guardando dritto nelle pupille del padrone di casa: “E che nessuno scopra che siamo qui, per Dio!”

 

Caterina arrivò a ponte levatoio di Ravaldino in un lampo. Aveva attraversato la città a velocità folle, rischiando di travolgere gli ultimi mercanti che ancora si affaccendavano per le vie.

Appiattita contro la schiena del cavallo, la Contessa aveva sentito il vento fresco della sera sferzarle il viso e aveva così imputato ostinatamente a quello le lacrime che le scendevano lungo le guance infuocate. I suoi occhi erano offuscati e la sua mente confusa. Le sue membra erano come annebbiate e lo stesso di poteva dire dei suoi sensi.

Anche se aveva avuto la prontezza di scappare per mettersi in salvo, si rese conto nel momento stesso in cui passò il portone di Ravaldino, ordinando di sollevare il ponte, di non aver avuto la capacità di proteggere l'uomo che amava. Nè tanto meno i suoi figli. O meglio, sua figlia.

Mentre smontava di sella si vergognò per aver lasciato Bianca alla mercé degli assassini di Giacomo senza nemmeno esitare un istante.

Su Cesare e Ottaviano non sapeva che pensare e non voleva nemmeno ragionarci.

Aveva sentito confusamente le loro voci alle sue spalle, mentre attraversava Forlì, ma poi, a un certo punto, dovevano aver imboccato una strada diversa dalla sua, perché li aveva persi.

Mentre gridava ordini alle sentinelle, intimando a tutti di mettersi ai posti di combattimento e di cominciare a puntare i cannoni verso i bersagli sensibili della città, la Tigre si disse che era una gran fortuna, per i suoi due figli più grandi, aver deciso di non seguirla a Ravaldino. Se lo avessero fatto, li avrebbe sgozzati con le sue mani seduta stante, senza nemmeno il beneficio di un equo processo.

“Che cosa è successo?!” Cesare Feo, il castellano, praticamente volò giù dalle scale e andò incontro a Caterina, che continuava a intercalare ordini e bestemmie in egual misura.

“Siamo sotto attacco!” rispose la Contessa, andandogli incontro: “Sotto attacco!”

“Ma che cosa è successo?” chiese ancora l'uomo, prendendola per le braccia, quando vide le lacrime che le rigavano le gote e il tremito che la percorreva da capo a piedi.

“Giacomo è morto.” disse Caterina, senza più tutto l'ardore con cui aveva sbraitato fino a un secondo prima.

Sentire la propria voce ammettere una simile verità fu come ricevere un pugno tra le scapole. Il respiro le si spezzò e le gambe le cedettero. Per fortuna Cesare Feo fu abbastanza rapido da afferrarla tra le sue braccia, evitandole di rovinare in terra.

Ancora cosciente, ma attanagliata da un dolore che nulla aveva a che fare con la mera paura per la propria incolumità, la Contessa pregò il castellano di finire di preparare la difesa, di mettere al sicuro i suoi tre figli più piccoli, assicurandosi che stessero nell'ala più riparata della rocca, e di raggiungerla non appena avesse fatto tutto quello che gli era stato richiesto.

Cesare Feo annuì in modo marziale, ancora incredulo di fronte a quella notizia agghiacciante e lasciò la donna affinché potesse ritirarsi nelle viscere della rocca.

Sguainando la spada per dare più forza alle sue direttive, il castellano salì sui camminamenti e portò a termine il suo compito in modo rapido ed efficiente, ben deciso a non lasciare che il proprio sgomento prendesse il sopravvento.

Quando si trovò dietro alle merlature che davano verso la città, Cesare trattenne il fiato, lo sguardo catturato dai bagliori improvvisi che si erano riversati tra le vie di Forlì. Cercando di ignorare il cozzare delle armature e del ferro che riempiva l'aria a Ravaldino, in fermento per via di tutti i soldati che si stavano mettendo in azione, il castellano tese l'orecchio, nel tentativo di sentire che stesse gridando la folla.

Era una cantilena ritmica e ripetuta e all'uomo servirono parecchi minuti, prima di capire che quelle voci stavano inaspettatamente gridando: “Ottaviano! Caterina! Ottaviano! Caterina!”

 

“Popolo di Forlì! Fuori, fuori!” gridava Gian Antonio Ghetti, aizzando la folla che si stava stagliando numerosa ai bordi delle strade, fissando a tratti attonita, a tratti curiosa, le vesti zuppe di sangue dei congiurati: “Abbiamo ammazzato quel traditore di Giacomo Feo!”

“Fuori! Fuori!” faceva eco Filippo Delle Selle, agitando le mani verso quelli che guardavano dalle finestre senza osare unirsi al corteo che si stava formando.

Andrea Bernardi, che era ancora alla bottega quando era cominciato a calare il caos sulla città, ascoltava senza riuscire a capire le parole di Ghetti e degli altri.

Aveva sentito dire da alcuni forlivesi che la Contessa era stata vista correre a cavallo verso la sua rocca e che anche il Conte Ottaviano e il fratello Cesare avevano passato Forlì di corsa, ma la situazione era talmente surreale che il Novacula non riusciva a farsi un'idea di quello che fosse realmente successo.

La fiumana di gente raccolta dagli assassini del Governatore della città si mosse senza indugio verso la piazza, fino a fermarsi dinnanzi al palazzo dei Riario.

Anche se era noto a tutti che la famiglia dei Conti non vi viveva più da quando era stato ucciso Girolamo Riario, Ghetti aveva preferito recarsi lì che non a Ravaldino per sfruttare lo spazio della piazza, affinché tutto il popolo potesse assistere a quel momento glorioso.

L'Auditore ufficiale della Contessa, sentendo le grida della folla che si avvicinavano, era sceso fino al portone principale per vedere che accidenti stesse capitando.

Quando Gian Antonio lo vide, colse subito l'occasione e, tenendo indietro tutti gli altri con un gesto plateale del braccio, si fece spazio e si accostò al portavoce della Contessa. Questi, inorridendo davanti al sangue che imbrattava le mani e le vesti di Ghetti, fece istintivamente un passo indietro, facendo cenno alle due guardie che stavano accanto alla porta di tenersi pronte.

“Che è successo?” chiese l'Auditore, passando lo sguardo sugli altri uomini insanguinati che seguivano Ghetti.

“Per obbedire al comando avuto dalla Contessa e dal Conte Ottaviano suo figlio – spiegò Gian Antonio, con voce tonante – io e i miei compari abbiamo ucciso Giacomo Feo.”

A quelle parole, l'Auditore, che di fatto, in tempi di pace, sostituiva il bargello cittadino come garante della legge, strabuzzò gli occhi e chiese, incredulo: “Che cosa avete fatto?!”

Pur non essendo al corrente di tutto quello che capitava a Ravaldino, l'uomo aveva capito meglio di molti altri la natura del rapporto che intercorreva tra la Contessa e il Barone Feo e dunque sentir dire che il Governatore fosse stato ucciso per volere della Tigre gli parve assurdo.

Tuttavia, pensò, la Contessa aveva dato più di una volta prova di essere spietata. Che avesse davvero deciso di liberarsi a tal modo del suo amante, pur di riconquistare il favore popolare che il cavalier Feo le stava facendo perdere a ogni nuova tassa imposta?

Calmando il pubblico con gesti rassicuranti delle braccia, l'Auditore costrinse la sua testa a lavorare in fretta. Prima di tutto, si disse, doveva assicurarsi di quanta verità ci fosse nelle dichiarazioni di Ghetti.

Ordinando alle guardie di tenere a distanza i popolani, che iniziavano a farsi difficili da contenere, l'Auditore vide tra la folla un uomo che conosceva come l'affidabile figlio del notaio Aspini e lo chiamò a sé, dicendo: “Andate alla rocca! Riferite le parole di messe Gian Antonio Ghetti alla Contessa e chiedetele cosa devo fare!”

Il ragazzo, gli occhi pieni di orgoglio per essere stato scelto, ma anche di timore per l'importanza del compito, cominciò subito a correre verso Ravaldino.

Questo movimento improvviso agitò ancor di più il popolo e tra alcuni presenti iniziò a serpeggiare una certa inquietudine.

 

Mentre nel centro di Forlì ribolliva la confusione più nera, nei pressi del ponte dei Moratini alcuni contadini che stavano lasciando la città per tornare alle campagne avevano saputo dell'accaduto ed erano andati in cerca del corpo di Giacomo Feo.

Nessuno di loro poteva dire di conoscerlo di persona, ma tutti quanti ne conoscevano la fama e sapevano quanto la Contessa avesse tenuto quel giovane uomo in palmo di mano per anni.

Mossi a pietà, soprattutto per la giovane età del Barone e per il rispetto che provavano verso la loro signora, i contadini lo recuperarono dal fosso in cui era stato gettato.

Fecero molta fatica, trovandosi intenti nello spiacevole e arduo tentativo di non smembrare ancora di più il cadavere nello spostarlo.

Trovarono un carretto abbandonato appena accanto a Porta Schiavonia e, sotto gli occhi di Caglianello, castellano della porta, che per tutto il tempo aveva assistito muto e sordo allo scempio prima e al moto d'umanità poi, tolsero la selvaggina che stava sul legno scuro e al suo posto posero il corpo senza vita del bel Giacomo Feo.

Muovendo il mezzo a viva forza di braccia, i contadini condussero l'improvvisato carro funebre fino alla chiesa di San Bernardino, che stava a pochi metri di distanza.

La trovarono deserta e spalancata. Allora portarono il feretro dentro e lo misero davanti all'altare, come se il carretto fosse stato una bara.

Le donne che seguivano i contadini che avevano fatto il lavoro di fatica, si affaccendarono attorno al cadavere, ripulendo, per quanto possibile, il fango e il sangue e coprendo gli squarci orribili delle carni con i pochi stracci che avevano a disposizione.

Attirato dai rumori, un membro della congregazione dei Battuti Neri, a cui la chiesa era dedicata, entrò in chiesa e, vedendo quel che stava accadendo, si fece il segno della croce e, senza chiedere chi fosse il morto, assicurò ai contadini che avrebbe provveduto di persona a sistemarlo e a finire di ripulirlo.

Rassicurati dal tono deciso del Battuto Nero, i contadini uscirono dalla chiesa dopo una genuflessione rapida e incrociarono sulla porta Andrea Cobelli.

L'uomo, che si era accorto tardi della ressa che correva in piazza, aveva preferito portarsi subito sul luogo dell'omicidio, lasciando a storiografi da quattro soldi come il Novacula la noiosa trascrizione dei fatti che tutti quanti avrebbero ricordato. Lui voleva andare alla fonte diretta del dramma.

Tenendo le mani al petto, fingendosi disperato, Cobelli camminò fino al corpo del Barone e sussurrò affranto al Battuto Nero che, prima di mettersi all'opera per ricomporre il cadavere, ne stava controllando lo stato: “Questo è Giacomo Feo, il Vicesignore delle terre di Sua Signoria...”

Il religioso alzò lo sguardo verso lo storiografo e per un istante parve vacillare dinnanzi a quella rivelazione, ma poi le sue mani ossute proseguirono il suo lavoro, senza fretta, ma con grande precisione.

Cobelli si piazzò accanto a lui, osservandone i movimenti e cercando di imprimersi nella mente tutto quello che vedeva, al fine di riportare ogni dettaglio fedelmente nei suoi taccuini.

Il viso del Feo, fino a poche ore prima di una bellezza innegabile, era ora più simile a una melagrana spaccata che non a un volto umano. Sui brandelli di pelle di potevano indovinare i colpi rabbiosi inflitti con randelli e roncole e nulla si era salvato dell'antico splendore che ne aveva fatto il favorito della Contessa.

La gola era tagliata quasi per intero, tanto che la testa restava attaccata al corpo solo grazie alla spina dorsale.

La coscia sinistra era aperta da tre ferite, di cui una tanto profonda da lasciar intravedere nettamente il femore spezzato.

“Mai a Forlì vi fu un uomo più temuto di costui – sospirò Cobelli, come se stesse facendo le prove per un epitaffio – ogni uomo al suo passaggio doveva stare attento.”

Il Battuto Nero lo guardò interrogativo, mentre le sue dita indagavano le ferite al ventre, così ampie da aver lasciato fuoriuscire gli intestini.

“Era il favorito dalla Contessa. Chi mai avrebbe osato alzare anche solo un dito su di lui? Aveva ventiquattro anni, se non erro – proseguì Cobelli, pensoso – e la sua bellezza e la sua arroganza, oltre all'ossessione che Sua Signoria provava per lui, alla fine l'hanno condannato.”

Il Battuto Nero non sollevò più gli occhi dal suo lavoro e così Cobelli rimase in silenzio, a riflettere su quello che sarebbe accaduto in città dopo quella notte.

Vedendo che il religioso era d'indole puntigliosa e taciturna, lo storiografo si stancò di guardarlo trafficare con il corpo dilaniato del giovane Feo e si decise a tornare in città.

In fondo, aveva visto quel che c'era da vedere. Poteva dedicarsi anche alla cronaca di massa, dato che alla fine i suoi lettori avrebbero apprezzato più il resoconto dei tafferugli, che non quello di una veglia funebre.

 
   
 
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