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Autore: Lechatvert    25/02/2017    3 recensioni
Dieci anni prima di Rogue One, l'Alleanza Ribelle non esisteva. Però esistevano i ribelli.
Erano guidati dalla stessa speranza, dallo stesso fervore dei loro figli e, nelle notti più fredde, si sedevano stretti gli uni agli altri per ascoltare una storia.
E c'erano uomini, c'erano bambini, donne, vecchi. C'erano persino i morti, attorno ai fuochi di Fest, e tutti ascoltavano le storie di Tylan Halos e della sua squadriglia di viaggiatori.
A chi era coraggioso, servivano a prendere sonno.
A chi combatteva da tutta la vita, servivano a far passare la paura.
Genere: Angst, Guerra, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cassian Andor, K-2S0, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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saboteur



«E la fine?»
«La fine è una brutta faccenda».
«Ma è quella che tutti aspettano».
«Per questo è la più difficile. Evitala finché puoi, Cassian».
«Ma perché?»
«Perché dopo una storia ce n’è un’altra; morto un narratore, se ne fa subito uno nuovo. Non c’è mai fine, né pace. Anche dopo un eroe, ne viene sempre un altro».
«E allora quando finisce?»
«Cassian».
«Mariceli. Dimmi quando finisce».
«Va’ a dormire, dai».
«Avanti!»
«Con se stessi, Cassian. Finisce tutto con quello. Dopo se stessi, c’è solo il buio».








PARTE QUATTORDICESIMA – DOWNTOWN


Ci trovarono così. Un ragazzino con un blaster in mano e gli occhi gonfi di lacrime e una zoppa che teneva tra le braccia il cadavere di suo marito gridando talmente forte da coprire persino il rumore dei fucili che sparavano per farsi strada attraverso l’uscio bloccato.
Non ebbero il cuore di ucciderci.
Sei assaltatori e un ufficiale rimasero impietriti in un silenzio quasi religioso ad osservarci, incapaci di farsi avanti mentre Mariceli ripuliva il viso del Capitano Halos con le mani sporche dello stesso sangue che si ostinava a tossire, disegnando sulla sua pelle macchie scure che gli facevano da barba.
Non so dire per quanto tempo tutto rimase immobile. Io che guardavo il vuoto, i nostri nemici che osservavano la scena con addosso lo strazio della morte … l’unica a muoversi fu sempre e solo Mariceli. Piangeva, gridava, chiamava suo marito.
Lui non le rispondeva.
Ogni giorno ringrazio di non essere mai stato protagonista di un momento del genere. Ci sono state tante persone, nella mia vita, tante presenze, tante occasioni … ogni volta che si avvicinavano a essere anche solo vagamente quello che il Capitano Halos rappresentava per Mariceli, non sono mai riuscito ad andare avanti. Contrappongo continuamente me stesso a quelle grida, il bisogno di calore al sangue sul viso, la brezza dell’affetto allo sparo, alla morte.
Il giorno in cui compresi quanto forte può essere il legame tra due persone, fu anche quello in cui lo vidi spezzarsi, ed è qualcosa che non sono mai stato in grado di dimenticare. Certo non fu una lezione che Mariceli volle darmi, ma fu una di quelle che imparai con più dedizione.
Ne appresi un’altra altrettanto importante di lì a qualche minuto, ma non potevo ancora sapere a che cosa stavo andando incontro. Continuavo a chiedermi: “è così che muore un eroe?”, senza riuscire veramente a immaginarmi cosa ci sarebbe toccato ora che eravamo praticamente con le spalle al muro.
Feci la cosa che mi sembrò più giusta, e ricambiai un favore.
Lentamente, posando il mio blaster a terra con una naturalezza quasi disarmante, raggiunsi Mariceli e mi inginocchiai accanto a lei. Non dissi niente, ma scambiai con l’ufficiale imperiale un’occhiata eloquente che implorava del tempo. Quando la richiesta fu accordata da un cenno del capo, alzai le braccia e le usai per circondare le spalle di Mariceli.
«Va tutto bene» sussurrai, accarezzandole i capelli mentre la sentivo tremare contro la mia spalla. «Dobbiamo ancora andare su Kessel».
Quel giorno, ero pronto a morire con lei.
Per tutto il tempo tenni gli occhi ben aperti, deciso a guardare in faccia l’uomo che mi avrebbe sparato. Un ultimo, strozzato gesto di coraggio. Sentivo di aver fatto abbastanza; non avevo idea di cosa ancora mi aspettasse fuori da Wobani.
Per fortuna, l’Anima me ne diede un assaggio con un raffica di colpi che fece tremare le pareti e il pavimento.
“Andor Quattro a chiunque sia in ascolto” si palesò la cupa voce di Cunha, riprodotta a scatti dalla trasmittente nella tasca di Mariceli. “Ragazzi, non vi sento più. Datemi una mano a tirarvi fuori”.
All’improvviso, un allarme cominciò a risuonare attraverso gli altoparlanti. Wobani era ufficialmente sotto attacco e, assieme ai caccia della Squadriglia Anima, per noi arrivò anche la speranza.
Mariceli fu la prima ad accoglierla dentro di sé, ritrovando in fondo al baratro della morte un barlume a cui aggrapparsi con tutte le sue forze. Mentre mi abbracciava, fece scivolare la mano lungo il mio fianco, superando la mia coscia per arrivare a sfiorare il fucile che il cadavere di Dessh stringeva ancora tra le mani. «Ce la fai a prendere il blaster?» sussurrò, poi un’altra raffica di colpi fece tremare l’edificio.
Io annuii contro la sua pelle. «Quando vuoi».
Non dovemmo neanche guardarci in faccia per metterci d’accordo.
Approfittando di una scossa data dai colpi dei caccia, Mariceli scivolò a terra e recuperò lo stesso fucile che aveva ucciso suo marito. Sdraiata e tirandosi addosso Dessh per usarlo come scudo, sparò a raffica sopra le nostre teste.
L’intera stazione si spense nel buio dei neon distrutti, e io ne approfittai per recuperare il mio blaster e per ripararmi dietro a un tavolo.
Piovve vetro.
«Qui Andor Due. Andor Quattro, rispondi» sentii da lontano, e lo presi come un invito a darmi da fare. Mi misi comodo dietro la mia copertura e iniziai a sparare seguendo l’istinto. L’FRG insegnava molto bene ai suoi cecchini a sparare al buio; dopotutto, Fest è sempre stato un pianeta tutt’altro che soleggiato.
“Andor Quattro a rapporto”.
«Ti confermo la nostra posizione, ho abbassato gli scudi. Io e Andor Cinque saremo in posizione il prima possibile».
“Ricevuto, Andor Due. Ci vediamo là. Chiudo”.
Uccisi cinque uomini con molta più facilità di quanto, due giorni prima, non ne avessi ucciso uno soltanto. La disperazione gioca brutti scherzi all’istinto.
Alla penombra del computer ancora acceso, spiai Mariceli sparare all’ultimo assaltatore rimasto in piedi. All’ufficiale, invece, toccarono così tanti colpi di fucile che avvicinandomi a stento riuscii a comprendere di stare guardando un essere umano.
Mariceli non batté ciglio. Per l’ennesima volta guardò un uomo morire, dopodiché abbassò l’arma e si rimise a digitare sulla tastiera.
«Che fai?!» le gridai, sconcertato. Volevo soltanto andarmene.
«Vieni qui, svelto» mi sentii rispondere, invece, secco. «Sto cercando di bloccare le porte per isolare il ponte. Passami la scheda di Kappa».
Anche se titubante, obbedii. «Salvi l’algoritmo?» chiesi.
Mariceli annuì.
Investiti da una strana sensazione di onnipotenza (o di disperazione, ma a quel punto chi poteva essere in grado di distinguere dove finisse una e cominciasse l’altra?), ci bardammo a vicenda dentro i busti delle armature nemiche, sistemandoci spallaci e avambracci prima di affacciarci al corridoio. Mariceli con il suo fucile, io con il mio blaster. Rubammo anche le chiavi di accesso da ciò che restava dell’ufficiale nel caso ne avessimo bisogno più avanti.
Prima di lasciare la stazione, rivolgemmo l’ultimo saluto al Capitano Halos.
Mentre io restavo in disparte a fissare quel corpo che fino all’ultimo aveva combattuto, Mariceli gli si inginocchiò accanto, guardandolo come se insistere l’avrebbe riportato indietro. Si chinò su di lui e gli baciò piano la fronte, sussurrandogli parole che non fui in grado di cogliere. Lentamente gli prese le mani, se le portò al petto. Pregò persino, credo.
Ciò che la ferì di più fu la fretta con cui dovette fare ogni cosa. Come si fa a dire addio al compagno di una vita in una manciata di secondi, consapevole di poter essere scoperti da un momento all’altro? Mariceli fu costretta ad abbandonare il cadavere di suo marito laddove lui stesso era morto, e non ebbe nemmeno la grazia di lasciarlo andare con il tempo di cui aveva bisogno.
Ma era proprio quello, il problema. Non avevamo tempo.
Distoglierla dalla sua veglia mi fece sentire un mostro.
«Mariceli» sussurrai, coprendomi il viso con il casco per impedirle di vedere quanto disperso fossi. «Dobbiamo andare».
Lei annuì e fece lo stesso. Invece che raccontarci cosa stavamo attraversando, decidemmo di nascondercelo a vicenda sotto il ferro duro di un’armatura. Credevamo che, non parlandone, alla fine sarebbe sparito.
Scendendo verso l’hangar, ci imbattemmo soltanto in un ridotto plotone di giovani cadetti. Eravamo pronti a fare fuoco e a vendere cara la pelle, ma non dovemmo accopparne che uno poiché tutti gli altri si facessero da parte in preda al panico. Passando loro accanto, incrociai gli occhi dell’unico che si tolse il casco per soccorrere il compagno caduto. Era persino più giovane di me.
Arrivammo alle porte dell’hangar con il cuore in gola. Mariceli a stento camminava, poggiandosi quando poteva alle pareti. Non smetteva di tossire e, se possibile, era diventata ancora più pallida di quanto già non fosse.
Formonitrile. Se il corpo non è in grado di espellerlo da solo, resta in circolo per ore, per giorni. La morte sopraggiunge improvvisamente e, nella maggior parte dei casi, senza possibilità di recupero. Ma di questo non avevo idea.
«Saranno tutti di là ad aspettarci» soffiò Mariceli, togliendosi il casco soltanto per scoccarmi un’occhiata così dannatamente seria che ancora oggi mi impartisce disciplina. Mi guardò con occhi scuri da animale notturno, due piccoli spettri tondi decisi a non perdersi nella paura.
Portai la canna del blaster al viso, battendola piano sulla superficie del casco. «Prendo la destra» le dissi, voltandomi.
«Io la sinistra».
Sentii la sua schiena contro la mia, un peso inaspettatamente caldo che in qualche maniera mi rassicurò.
Coraggiosi come soldati, aprimmo le porte.
Chi mai sarebbe sopravvissuto? Per tutto il tempo in cui sparai a raffica sulla fila di assaltatori che ci presentò dinanzi, non feci che immaginare i nostri corpi a terra. Gridavo per sfogare la rabbia di morire a sedici anni dopo averne vissuti dieci in solitudine, per la frustrazione di aver visto i miei compagni cadermi davanti, per la paura di avere davanti un futuro che era soltanto polvere. A quell’età, bisogna fare rumore per tutto.
Facemmo il possibile, poi ci riparammo dietro le ali di un grosso TIE.
«Ho il fucile surriscaldato» annunciò Mariceli, sospirando. «Coprimi le spalle; cambio l’accoppiatore».
«Lo sai fare?»
«Sì, se me lo hai insegnato bene».
Le diedi fiducia.
Mi arrampicai a metà ala, sporgendomi quello che mi bastava per avere una visuale sufficientemente buona da mostrarmi la nostra fine ormai imminente: eravamo circondati da una decina di assaltatori almeno, tutti quanti armati e ben decisi a conquistare terreno. Alla mia destra, oltre l’imbocco dell’hangar, sorgeva il sole più luminoso che avessi mai visto nascere.
Impiegai un istante a rendermi conto che non poteva essere l’alba e che quel cerchio luminoso che ci stava venendo incontro non era una stella. Affatto.
«Vai via! Via, via!» gridai, saltando a terra con gli occhi sgranati.
Mariceli mi guardò, allarmata, ma non le diedi il tempo di aprire bocca. La afferrai per la divisa che aveva addosso e la trascinai letteralmente a ridosso della parete, correndo a perdifiato con quel poco di forza che mi era rimasta in corpo.
Voltandomi, scoccai un’ultima occhiata al caccia che ci aveva fatto da riparo, uno dei TIE nuovi che Cunha e il Capitano Halos tanto detestavano. Ce n’era una fila intera.
Dovevano detestarli davvero, quei caccia, poiché quando l’ala-Y recante i colori della Squadriglia Anima fece breccia sul ponte per andare a schiantarsi in fondo all’hangar, il suo pilota si assicurò di centrare tutti i TIE posteggiati, distruggendoli uno dopo l’altro con una minuzia che ebbe dell’iconico.
L’esplosione che ne seguì investì completamente la fila di assaltatori pronta a fare fuoco su di noi, ma non mancò di colpire anche me e Mariceli, sollevandoci da terra e buttandoci del tutto contro la parete alle nostre spalle.
Per qualche istante, feci fatica a distinguere le ombre degli oggetti davanti a me. Vidi fiamme e fumo finché Cunha non mi tirò su da terra con la stessa facilità con cui avrebbe raccolto un tozzo di pane, strappandomi il casco probabilmente per assicurarsi di non avermi spaccato la testa.
«Dannati ala-Y, bagnarole da mentecatti» lo sentii brontolare, guardandolo con aria smarrita mentre si occupava anche di Mariceli. «Tu!» le gridò, scuotendola. Lei fissava il vuoto con un rivolo di sangue che dall’attaccatura dei capelli le scendeva fino alla guancia. «Non avevi detto di aver abbassato gli scudi?»
Lei si ridestò appena. «Ci sono gli scudi alzati?» chiese, boccheggiante. «Hai attraversato degli scudi alzati?»
«E non è stato affatto divertente».
Notai in quel momento che la divisa di Cunha era praticamente sul punto di prendere fuoco, bruciacchiata dalla cinta in giù e con il fumo che si levava dalle spalle per via del calore accumulato durante l’accelerazione. Aveva un taglio che gli apriva letteralmente la guancia, lasciando un piccolo lembo di pelle a penzolargli fin quasi al mento. Eppure non batteva ciglio.
Sospirando, portò la mano sul casco, collegandosi alla trasmittente. «Anima Tre a gruppo, il mio caccia è a terra; io sto bene. Ho ritrovato l’Andor. Ora li carico sulla prima navetta che trovo e li riporto a casa. Ci rivediamo direttamente là, chiudo». Ci scoccò un’occhiata spenta, annuendo. «Tutti interi, pulcini?»
“Interi” era veramente un azzardo.
Scossi il capo. «Il Capitano Halos è …»
Mariceli sollevò di scatto il mento. «Tylan non ce l’ha fatta» tagliò corto, ridestandosi. «Ci ha salvato la vita».
Lentamente, Cunha si passò una mano sulla barba lasciata scoperta dal casco da pilota. «Capisco» sussurrò, senza distogliere lo sguardo. Sono piuttosto convinto che quel giorno gli si spezzò il cuore. «Bé, allora forza. Troviamo un passaggio e buttiamolo giù, questo posto di merda».
«C’è l’Andor» dissi io, convinto. «Lo abbiamo visto prima».
Cunha arricciò il naso. «L’Andor non va bene» rispose. «A stento ce l’ha fatta l’Ala-Y, a passare gli scudi. Un mercantile senza accelerazione? Sarebbe un suicidio».
Mariceli era silenziosa. Ricordo che le misi una mano sulla spalla perché ero preoccupato che l’esplosione l’avesse ferita più di quanto il suo corpo già debole potesse sopportare, ma non avevo capito niente. Aveva semplicemente iniziato a pensare a una via di fuga alternativa dal momento esatto in cui Cunha le aveva fatto notare che gli scudi non erano stati abbassati, e non parlò fino a che non riuscì a trovare una spiegazione sensata a quella sua mancanza. Non se ne capacitava, credo. Dopotutto, è qualcosa in cui abbiamo finito col somigliarci molto: non amiamo sbagliare.
«È uno scudo magnetico anti-evasione» annunciò, il corpo improvvisamente rigido come se si trovasse nel bel mezzo di una qualche rivelazione. «È per questo che sei riuscito a entrare, Terras. Perché serve a tenere la gente dentro».
Cunha alzò le spalle. «Lo sai togliere?»
«Ho le credenziali, posso farlo. Però …»
Mi ritrovai a digrignare i denti. «Non sono automatici» sussurrai. Non so neanche come facevo a saperlo; credo glielo lessi semplicemente negli occhi.
«Serve che qualcuno li tenga disattivati manualmente, sì».
Alcuni anni dopo, quando mi trovavo nel Settore di Carvandir per un reclutamento, fui avvicinato da una ragazza che aveva gli stessi occhi di Mariceli. Piccoli, scuri, arrabbiati. In un certo senso soli. «Anche io volevo fare la ribelle» mi disse, la mano stretta attorno a un coltello da cucina mentre io la guardavo con il blaster pronto a sparare. «Ma non lo sopporto». «Che cosa?» le chiesi io. Lei fece spallucce. «Quel momento in cui capisci che qualcuno sta per morire».
E come biasimarla? È il momento peggiore della vita di ogni uomo e solitamente, per disgrazia o per benvolere della sorte, arriva per tutti nello stesso momento.
Ci si accorge assieme di stare per morire, ci si accorge assieme di quando è tempo di dare gli addii. Solo, non si è mai veramente pronti ad accettarlo.
Quel giorno, sul ponte venticinque del Centro di Detenzione di Wobani, per istanti interminabili sentii il vuoto scoppiarmi nel petto.
Lo sentii io, lo sentì Cunha, lo sentì soprattutto Mariceli. E, assieme al vuoto, tutti trovammo la stessa consapevolezza a bruciarci la carne: serviva qualcuno che tenesse disattivati gli scudi e quel qualcuno doveva essere lei. Perché Mariceli era zoppa, rotta, strappata, perché Cunha pilotava caccia con la furia di una tempesta e io avevo sedici anni, e le persone sono convinte che a sedici anni i ragazzini non debbano morire.
Lo sapevamo tutti, eppure tentai di ribellarmi.
«Lo faccio io» mi offrii, quasi incapace di respirare. «Di corsa. Sono veloce. Spiegami come si fa».
Mariceli mi guardò, silenziosa, e mi consegnò la scheda di memoria. «Conservala con le altre» mi ordinò. «Ricordati che c’è gente viva, lì sopra. E che ha bisogno di aiuto».
Non demorsi. «Dobbiamo andare su Kessel».
«Tu andrai su Kessel. Ti guarderò da qui».
Cunha si sporse a prenderla per una spalla. «Mariceli» le disse, obbligato dal momento che per vera volontà di rassicurarla in qualche modo. «Tuo marito ne sarebbe stato orgoglioso».
Lei rise appena. «Vorrai dire furibondo». Si tolse il fucile dalla spalla e glielo mise in mano con un sospiro rassegnato. «Rivedetele, queste armi. Si surriscaldano troppo facilmente».
Lui annuì con un cenno del capo. «Lo farò presente».
«Terras. Falli saltare in aria per me e per Tylan».
«Ci puoi contare».
«E salutami tuo fratello».
Fu la prima volta in cui vidi Cunha sorridere di cuore. «Sarà fatto».
In quel preciso istante, quando realizzai che anche il nostro pilota aveva accettato la realtà dei fatti con una semplicità spiazzante, entrai in piena fase di negazione. Guardandomi indietro, mi rendo conto che non fu facile per nessuno di noi. Cunha era determinato a portare l’Andor fuori di lì, in qualche modo, Mariceli a salvare il salvabile. Capii molti anni dopo quanta paura avesse in quel momento, quanto le tremassero la mani mentre mi stringeva. Sul momento, vedevo soltanto la mia disperazione.
Ero sul punto di mettermi a gridare, talmente pieno di frustrazione da sentirmi scoppiare, quando mi abbracciò.
«Andiamo, sii ragionevole» sussurrò, accarezzandomi i capelli come aveva fatto quella sera in cui avevo detto addio a mio padre. «Non arriverei comunque all’Andor in tempo, con questo piede».
A fatica, ingoiai un nodo di lacrime. «Non so cosa fare» confessai, stringendomi a lei nella speranza di non lasciarla andare.
«Cerca quelle persone, finisci di decifrare il messaggio. Ci sono giorni migliori che devono arrivare, in qualche modo li guarderemo assieme. Se adesso io resto qui, questo me lo devi» Aveva gli occhi che brillavano di fiducia.
Io annuii, e per un attimo ci illudemmo assieme. «Ci rivedremo» sussurrai. Forse lo stavo dicendo a me stesso.
«Passerò a trovarti. Ti ricordi quello che ti ha detto Tylan?»
Me lo ricordavo benissimo. Come dimenticarlo? Era il nostro segreto.
Sarebbe fargli un favore”.
Non so dove trovai la forza di risponderle. «Me lo ricordo».
«Ma certo. Sei un ragazzino sveglio, te l’ho già detto ».
L’ultima volta che la vidi in faccia fu con il bacio che mi posò sulla fronte.
Zoppicante, si avviò debolmente verso la stazione di comando dell’ingresso, una piccola piattaforma rialzata accessibile dall’hangar o dall’ingresso principale, in quel momento sbarrato completamente dai resti dell’ala-Y che Cunha ci aveva buttato addosso. Però lo sapevamo tutti che era questione di minuti prima che i padroni di casa trovassero il modo di accedere all’hangar. Da una parte o dall’altra, avrebbero trovato una parete da buttare giù a forza di detonazioni.
«Sta’ pronto» mi disse Cunha, tirandomi per una spalla mentre ci incamminavamo speditamente verso l’Andor. «Abbiamo mezzo minuto da quando abbassa lo scudo».
Voltarmi e seguirlo fu un gesto che mi gettò sulle spalle più fantasmi di una guerra intera.
A bordo, tutto era esattamente come l’avevo lasciato quando ero partito alla volta di quella parte di Fest che mi era allora sconosciuta. Per un solo secondo, fu come tornare al giorno in cui vi ero salito per la prima volta, alla fiancata bruciata, a Kappa che mi dava del ladro. Solo che stavolta facevo da secondo pilota.
“Andor Due ai restanti” ci chiamò la voce Mariceli, bassa e tremante attraverso le cuffie della plancia. “Preparate i motori, tra poco saremo pronti”.
Strinsi la scheda di Kappa come fosse luce nella disperazione della notte. In quel momento, decisi che, se quel dolore che mi bruciava nel petto fosse rimasto con me tutta la vita, allora l’avrei portato con la consapevolezza di esserne l’artefice.
«Aspetta» dissi, deglutendo a fatica. «Devo fare ancora una cosa. Apri il portellone».
Cunha mi scoccò la stessa occhiata che avrebbe scoccato ad un pazzo. «Tu sei sotto shock» considerò, senza neanche degnarsi di rispondermi. «Sta’ seduto buono e fermo».
Ostinato, balzai in piedi. «Apri quel maledetto portellone!» gridai, furioso.
“Andor Quattro e Cinque, pronti al decollo. Scudi abbassati in venti secondi”.
Cunha lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto. «Vedi di non farti del male» sussurrò.
Abbandonai la plancia e scesi di sotto asciugandomi le lacrime contro la manica della divisa. Non so dire quando avessi iniziato a piangere, non ne ho ricordo.
Il conto alla rovescia partì dagli altoparlanti del ponte, rimbombando in tutto l’hangar nella voce metallica di un uomo.
Tremante, mi inginocchiai a terra, strisciando piano sul portellone finché non raggiunsi una vista abbastanza chiara dello spazio sottostante. Ormai l’Andor doveva trovarsi a otto o nove dieci metri d’altezza. Davanti a me, Mariceli non era che una sagoma in lontananza.
Non troppo distante, comunque.
«È farle un favore» mi ripetei, ed è ciò che continuo a ripetermi ogni giorno, ogni notte, ogni volta che incrocio il mio stesso sguardo allo specchio.
… Dieci, nove …
Sotto di me, sentii chiaramente i motori dell’Andor prepararsi a partire alla massima potenza. Pregai con tutto me stesso di non venire scaraventato di sotto, poi mi costrinsi a prendere la mira.
Un favore.
Un favore. Anche se muoio, sarà stato un favore.
… Quattro, tre …
«È un favore».
Si era legata la sciarpa rossa del Capitano Halos in fronte, un punto colorato in mezzo al grigio dell’hangar. Un segnale, un invito, un bersaglio.
Scelse anche come morire.








note

L'irreparabile.
Alla fine, in un modo o nell'altro, doveva succedere.
Mi sento un po' in colpa perché, visto quello che è successo nel capitolo precedente, è veramente una sofferenza dietro l'altra, ma non c'era davvero niente da raccontare nel mezzo, quindi ... mi dispiace.
Più o meno, la storia è finita.
Ci saranno altri due capitoli, o meglio: un capitolo conclusivo, il prossimo, in cui ci sarnano sia nuove conoscenze che ritorni, e un epilogo, un modo diverso di vedere la storia, un cambio di prospettiva (insomma: uno sfizio che mi sono voluta togliere).
Non c'è molto altro da aggiungere; le morti dei personaggi mi lasciano sempre addosso un certo senso di vuoto e di mancanza che impiego sempre un po' a processare. Anche se questo non mi salva dal scriverle.

Barbagianni,
Lechatvert




   
 
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