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Autore: CaptainKonny    28/02/2017    4 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10

 

BAU TEAM

JJ raggiunse i compagni ancora radunati nell’openspace, le loro espressioni erano visibilmente tese: Derek era appoggiato al bordo del tavolo, le braccia incrociate e il viso corrucciato (indubbiamente ancora adirato con Serena); Penelope, seduta al medesimo tavolo, sembrava non sapere che pesci pigliare mentre lo sguardo vagava spaurito sulle sue unghie smaltate; Spencer invece aveva un’espressione persa, un bambino sperduto in un bosco, le braccia incrociate all’altezza del petto come Derek, ma al contrario suo per crearsi una barriera contro tutti quegli attacchi che la sua emotività stava subendo nelle ultime ore; Emily, anch’ella in piedi, era semplicemente provata da tutta quella faccenda che continuava ad evolversi ma di cui mai si scorgeva la fine; David era l’unico che tentava di non lasciarsi coinvolgere dai propri pensieri e dalle proprie opinioni, senza Hotch era lui il pilastro della squadra. JJ si sentì quasi un’intrusa quando fece il suo ingresso, era entrata in quel bagno per capire e avere informazioni, magari anche per arrabbiarsi. Ma mai si sarebbe aspettata di venire travolta da una marea di ricordi, paure e decisioni. Serena era adirata con Hotch più di quanto tutti loro potessero essersi immaginati, ma al contempo aveva manifestato una forza d’animo nel volerlo salvare, nel volerlo ritrovare che le avevano gonfiato il cuore di commozione.Tutti loro avevano passato ogni singolo giorno della loro vita accanto a Hotch, risolvendo casi su casi, da quelli più semplici a quelli più raccapriccianti. In un qualche modo avevano pensato che questo potesse renderli più vicini a lui di quanto Serena potesse essere. Tutti, nessuno escluso, nella propria mente lo avevano pensato. Che stupidi! Si erano lasciati coinvolgere dalla paura e adesso questa li stava mettendo l’uno contro l’altro. Serena in quel bagno le aveva mostrato le sue debolezze ma le aveva anche dimostrato di saper reagire; la stessa convinzione, la stessa luce negli occhi che illuminava quelli di Hotch durante un caso particolarmente complicato. Loro l’avevano trattata come una testimone qualunque, ma lei non era una persona qualunque, lei era la figlia di Hotch, lei era l’unica persona con abbastanza determinazione per poter sostenere anche loro in quella ricerca; perché un figlio non si arrende mai. L’S.I. aveva fatto un errore di calcolo: Serena e Hotch erano deboli l’uno contro l’altra, me lei era anche l’unica in grado di mettergli i bastoni tra le ruote.

-Come sta?- fu Penelope a spezzare quel silenzio e il corso dei suoi pensieri. Gli occhi di tutti si puntarono su di lei. La bionda si costrinse a sorridere con fare rassicurante, come suo solito.

-E’ esplosa. Non c’è da stupirsi, questa situazione sta mettendo a dura prova i nervi di tutti.-

-Non scusarla JJ. Quello che ha detto…- Derek scosse la testa furioso –Non ha seguito le nostre indicazioni. Ha messo a repentaglio l’intera operazione. Ha permesso a McGrant di manipolarla. Non sono sicuro che possiamo ancora fidarci di lei.-

JJ si limitò ad annuire, facendo un respiro profondo per mantenere la calma. Quelle parole facevano male, ma come biasimarlo? Lui in fin dei conti non poteva sapere quello che le era stato detto.

-Non possiamo dare a lei tutta la colpa, l’S.I. ha dimostrato di saperci fare. Era calmo e sapeva cosa dire e in che momento.- intervenne David.

-Perdonami Rossi, ma non sono d’accordo. Quello è suo padre.- un silenzio agghiacciante si frappose fra tutti loro; non era il momento di mettersi a litigare tra loro. Ci pensò Spencer a riportare la discussione ad un livello normale.

-Garcia ha rintracciato la telefonata.- finalmente qualcosa di utile!

-Ottimo, anche se secondo Serena non avrebbe fatto molta differenza. Come ha detto l’S.I.: vuole che ci sia anche lei con lui.- disse JJ; Derek fece un sorrisetto ironico, quella telefonata proprio non riusciva a digerirla. Non era il tipo da fidarsi di chiunque, per lui la fiducia andava guadagnata e dopo quella telefonata quella ragazzina aveva perso tutti i punti che aveva accumulato.

-Senza di lei non può realizzare la sua fantasia, ecco perché ha detto quelle cose.- disse anche Emily, riuscendo a fare un collegamento fra le due cose.

-Ma nessuno di voi ha pensato agli effetti collaterali? E se invece l’S.I. fosse stato scatenato?-

-Che vuoi dire?- domandò Penelope terrorizzata.

-Che magari lui si è divertito, si è eccitato alle parole di Serena e adesso, per divertirsi un po’, magari sta tagliuzzando Hotch.- fu David a riportare la calma tra le parti.

-Non ne sono convinto. Ovviamente c’è sempre una probabilità  di sbagliare, ma alla luce dei fatti credo che Serena possa avere ragione. L’S.I. non ha fatto tanta fatica ad aspettarla per poi buttare tutto all’aria.-

-Allora, adesso cosa facciamo?- domandò Spencer. Rossi sospirò.

-Aspettiamo la prossima chiamata dell’S.I.-

 

***

“Non scappare dai miei sguardi

Non possono inseguirti, non voltarti dai

E forse capirai, quanto vali

Potrei darti il mondo”

 

La macchina scivolava sull’asfalto con fare tranquillo, le case con giardino si susseguivano familiari, conosceva quel posto molto bene. Il sole batteva senza pietà sui finestrini facendolo sudare; era una splendida giornata. Eppure c’era qualcosa di sbagliato: lui era stato rapito, lui non avrebbe dovuto trovarsi lì; quindi, come c’era arrivato?

-Aaron, stai bene?-

Un tuffo al cuore. Come uno sparo. La mano destra stringeva spasmodicamente il volante, la sinistra il cellulare all’orecchio; nemmeno si era accorto di quello che stava succedendo attorno a lui. Ma quella voce…quella voce che da così tanto tempo non sentiva, l’avrebbe riconosciuta ovunque. Era consapevole che non era reale, niente lo era: ne lei, ne la macchina, quella situazione, tantomeno lui. Sapeva che stava rivisitando mentalmente il passato, ma il brutto dei sogni è che non puoi scegliere, puoi solo viverli. Non era un ricordo piacevole, ma quella voce che da anni non chiamava più il suo nome…poterla risentire così nitida, fu come una sensazione di vuoto; Haley.

-Perfettamente.-

Si sentì rispondere in tono falsamente calmo; ricordava alla perfezione l’ansia di quel giorno. Aveva dovuto mantenere il controllo, malgrado la voce sorpresa e al contempo confusa di sua moglie.

-Ma…lui ha detto…- quell’attimo in cui capì che anche lei aveva afferrato la gravità della situazione, un brivido freddo gli era corso per tutto il corpo –Oh Aaron!-

-Può sentirci, vero?-

-Sì. Sapessi quanto mi dispiace.-

-Haley, non mostrati debole. Niente paura.-

-Va bene.- la sentì muoversi vicino al microfono, probabilmente mentre si passava una mano sugli occhi per farsi forza. Strinse il volante con più forza, non sarebbe dovuta andare così, lei aveva bisogno di lui, ma lui come sempre non c’era.

Sentì il rimorso rosicare nella sua coscienza attuale.

-Aaron Aaron Aaron. Il tuo matrimonio è fallito perché sei un bugiardo.- anche la voce di Foyet gli parve più nitida che mai, sebbene lo avesse ucciso con le proprie mani. Risentirlo gli provocò la stessa sensazione di allora, la prova di quanto il nemico fosse vicino e lui lontano.

-Non dargli retta, Haley!- i suoi vani tentativi di colmare quell’assenza, come se fosse stato veramente possibile. Ma ora come allora, era Foyet ad avere in mano la situazione.

-Vuole che tu abbia paura.- doveva assolutamente proteggere Haley da lui, prendere tempo, arrivare da lei e salvarla.

-Le hai mai spiegato il perché di tutto questo? Le hai detto dell’accordo?- no, certo che non lo aveva fatto. Non avrebbe mai immaginato che sarebbero arrivati a questo punto. Solo il cielo sapeva quanto volte si era maledetto per non averlo fatto. E tutte le volte si domandava: e se l’avesse fato sarebbe cambiato qualcosa? Haley sarebbe ancora con lui? Ma non riusciva mai a trovare una risposta.

-Sta cercando di farti arrabbiare.- disse, e sapeva bene che ne avrebbe avuto tutti i buoni motivi, ma ora le serviva lucida, malgrado tutto lei si era sempre fidata di lui.

-Ne avrebbe motivo sta per m-o-r-i-r-e per colpa del tuo ego.- quelle parole facevano male più di qualunque minaccia. Conosceva il suo avversario e sapeva che non scherzava e la sua calma ne era un’ulteriore prova; e lui era ancora troppo lontano. La paura di non arrivare in tempo si faceva di minuti in minuto sempre più concreta, mozzandogli il respiro.

-Ignoralo Haley.- parlare gli serviva anche per allentare quella tensione. Era al corrente che tutta la sua squadra potesse sentirlo, eppure non si era mai sentito tanto umano come in quel momento.

-Sono sicuro che non vuoi che sappia questo dettaglio.- lo sentì sogghignare. Eccola la batosta. –Doveva solo smettere di cercarmi e lei non sarebbe in questo guaio.- lo sentì dire a sua moglie.

-Non reagire.- aveva paura, tanta. Sentiva che anche la voce adesso lo stava tradendo malgrado tutti i suoi sforzi. Haley era tra due fuochi, ma il suo, quello che l’avrebbe salvata, era quello più debole. Se ne rendeva conto; stava perdendo.

-Mi dici di che sta parlando?- la voce di sua moglie era ferma, ma non arrabbiata con lui. Si fidava di lui, voleva solo che le spiegasse, ma come fare? Non era un argomento facile e di certo il momento non era dei migliori. Messo alle strette Hotch dovette prendere una decisione per entrambi, mentre sentiva gli occhi inumidirglisi e il senso di colpa pressarlo. Già, perché tutto quello era opera sua.

-Dì a Jack che voglio che lavori al caso.- fu quello che la sua bocca disse. Da quanto tempo non pronunciava più quel nome? Gli mancavano così tanto. Entrambi se ne erano andati troppo presto.

Sapeva che Haley non avrebbe capito, nessuno a parte lui e i suoi figli. Glielo aveva insegnato nel caso fosse successo qualcosa di brutto, sperando sempre di non doverlo mai usare. Fino a quel momento.

-Come?- Haley era chiaramente confusa: erano in una situazione di pericolo e suo marito voleva giocare con suo figlio?

-Dì a Jack che voglio che lavori al caso!- insistette con maggior convinzione Aaron.

Foyet aveva intenzione di uccidere sua moglie e Aaron dubitava che avrebbe lasciato vivere i figli. Non poteva parlare liberamente, ma se c’era anche solo l’opportunità  di salvare entrambi o i bambini tanto valeva tentare. Non si sarebbe arreso, non così facilmente.

-Jack, hai sentito?- sentì dire con voce dolce al suo primogenito, probabilmente per non spaventarlo.

-Ciao papino.- delle lacrime solitarie gli sfuggirono dagli occhi all’udire la voce del figlio scomparso. Voleva svegliarsi, lo avrebbe tanto voluto. Ma qualcosa lo teneva fermamente ancorato a quel sedile.

-Ciao piccolo.-

-Questo Giorgio è una persona cattiva?- il suo piccolo ometto.

-Sì, è cattiva. Ma Jack, devi lavorare a questo caso con me. Mi hai capito? Devi lavorare a questo caso con me.- pregò intensamente, con tutta la forza che aveva in corpo, che capisse.

-Okay papino.- Aaron rilasciò un lungo, silenzioso, respiro di sollievo. Un passo era fatto. Jack e Serena sarebbero stati al sicuro almeno un altro po’.

-Ora abbraccia la mamma per me.- lo sentì muoversi, il tessuto che sfregava contro il cellulare; avrebbe tanto voluto esserci anche lui in quell’abbraccio.

-Mamma, mi stringi troppo forte.-

-Scusami tesoro.- quanto era frustrante dover assistere per telefono a tutto quello; e non era ancora finita. Solo una partita era stata vinta, ma la battaglia era ancora aperta.

-Perché sei triste?- domandò Jack alla madre, con l’innocenza che solo un bambino di cinque anni può avere.

-Perché ti voglio un mondo di bene.- Aaron sentì la moglie singhiozzare prima di rispondere, era una donna forte lo sapeva e in quel momento era orgoglioso di come stava gestendo al meglio quella situazione.

-Mamma devo andare a lavorare al caso.-

-Certo.- sentì Jack allontanarsi da Haley.

-Serena, ti va di darmi un abbraccio anche tu prima di andare?- altro strofinamento di tessuti mentre sua figlia abbracciava la mamma. La sua silenziosa bimba.

-Andiamo Serena.- sentì brontolare Jack poco lontano. Aaron non era riuscito a salutare Serena e sperò ardentemente di poterla riabbracciare più tardi, quando tutto fosse finito.

-Sono così carini.- disse Foyet rompendo quel momento magico degli Hotchner.

-Sembra un piccolo agente federale.- Aaron sentì nuovamente Haley prendere dei profondi respiri, tentando di mantenere la calma come lui le aveva detto poco prima –Arrivo subito bambini.-

Il cuore di Aaron mancò un battito, pregò di non aver accelerato i tempi.

-Si è allontanato?- domandò ad Haley.

-Sì.- Haley si asciugò le lacrime.

-Tu sei forte Haley. Sei sempre stata più forte di me.- doveva dirglielo, perché non glielo aveva mai detto, perché era la verità, perché entrambi in quel momento avevano paura, perché ora più che mai entrambi sapevano di aver bisogno l’uno dell’altra. Aaron sentì qualcuno muoversi e capì subito che non si trattava di Haley.

-Arriverai presto vero?- Aaron calcò il piede sull’acceleratore.

-Non ti doveva succedere questo.- gli occhi sempre più pieni di lacrime, la voce gli tremava.

-A te neppure.- ed ecco la prova che si erano sempre amati, malgrado tutto.

-Mi dispiace per tutto.- Aaron non si curò più di chi lo stava a sentire, se la sua squadra o Foyet, doveva dirlo ad Haley, essere sicuro che capisse che comunque per lui la famiglia veniva sempre prima di tutto, sebbene non fosse sempre stato bravissimo a dimostrarlo. Doveva farle capire quanto l’amava, perché lui non aveva mai e poi mai smesso di amarla, nemmeno dopo che se ne era andata, nutrendo la speranza che prima o poi sarebbe tornata da lui. Ora invece stava per perderla per sempre.

-Promettimi che gli racconterai come ci siamo conosciuti.- iniziò Haley, riferendosi ai loro figli –E come mi facevi ridere.-

-Haley…- le lacrime adesso gli rigavano copiose le guance.

-Devono sapere che non sei sempre stato così serio, Aaron. Io…- la voce rotta dal piano -…voglio che credano nell’amore, perché…è l’amore la cosa più importante.- adesso nemmeno lei si tratteneva più –Ma questo devi dimostrarglielo. Promettimelo.-

-Te lo prometto.- l’attimo di silenzio durò un’eternità e le parole…fu uno sforzo disumano pronunciarle, il cuore pesante come un macigno. Aaron sentì Haley respirare affannosamente, velocemente, i secondi si facevano lunghi e inesorabili…

BANG…BANG…BANG

E i secondi continuarono lunghi e inesorabili, dolorosi e sanguinanti più che mai.

Hotch gettò con forza il cellulare lontano da sé, come se questo potesse bastare per tenere il dolore lontano da lui. Era un ricordo all’interno di un sogno, ma faceva male uguale, adesso come allora. Certe ferite non guariscono mai, smettono solo di sanguinare.

-Basta! Basta! Per favore…- voleva svegliarsi, ma non gli fu permesso. Era come essere dietro al vetro di una sala interrogatori dove puoi vedere e sentire tutto e tutti, ma nessuno può vedere e sentire te.

Da quel momento le immagini presero a scorrere più velocemente, soffermandosi solo su determinati momenti: lui che teneva Haley tra le braccia dopo averla trovata senza vita sul pavimento della loro camera da letto in un lago di sangue, lui che osservava i suoi figli sani e salvi venire scortati fuori di casa dalla polizia, lui che seduto su una poltrona sistemava la cravatta a Jack per il funerale della madre (una delle poche volte in  cui il bambino aveva la stessa serietà del padre), lui e i suoi figli che partecipavano al funerale di Haley, lui che prendeva in braccio prima Jack e poi Serena per deporre una rosa bianca sulla bara di lucido legno nero.

Se nei sogni si potesse piangere, in quel momento lo avrebbe fatto. Quella era solo una piccola parte del suo passato che durante il giorno fingeva non esistesse, tirando avanti. Poi quella stessa parte veniva a riscuotere il suo debito durante la notte. Quelli erano i suoi mostri. Eppure era anche l’unico modo che aveva per ricordare sua moglie e suo figlio nitidamente, con il terrore costante di dimenticarli.

 

POV HOTCH

Aprii gli occhi con fatica, lieto di essermi finalmente destato. Le palpebre non mi erano mai sembrate così pesanti, gli occhi li sentivo gonfi e le guance tiravano. Non ci impiegai molto a capire che tutto era dovuto alle molteplici lacrime che avevo versato fino a non averne più, fino a crollare esausto. Ecco perché mi pareva di avere la testa avvolta nella bambagia, necessitavo ancora di un po’ di tempo per riacquistare il controllo di me. Presi un respiro profondo e scoprii che mi doleva il petto, ignoravo se per le percosse ricevute o il dolore emotivo. Probabilmente un po’ era anche dovuto al sogno appena avuto. Era da anni che non mi appariva così reale, così presente. Forse, tutto quello che stava succedendo, lo aveva riportato alla luce in tutta la sua crudeltà. Ricordavo le prima notti, quando mi svegliavo con gli occhi umidi di pianto, segno di una notte travagliata. Ma poi ero riuscito a passare oltre, a conviverci; fino a quel momento. Fu nel cercare di fare chiarezza che anche i ricordi recenti riaffiorarono nitidi come quei tre colpi di pistola.

” questo aveva risposto all’S.I., non una ma ben due volte.

“Mi sono sentita sola. Abbandonata. Come se non mi volesse più bene.” Quelle parole erano come un martello che batteva su un’incudine. Contrassi la mandibola e strinsi i pugni, non potevo arrendermi. Eppure ero sulla buona strada per il fallimento. Avevo fallito con Haley, con Jack e adesso era la mia stessa figlia a dirmelo. Ogni volta che la mia famiglia aveva avuto bisogno di me, io non ero presente, come in quell’occasione, non potevo essere di alcun aiuto.

Mi accorsi nel contrarre i muscoli delle braccia che non ero più legato alla sedia, tantomeno al letto. Era una piattaforma fatta a croce, le gambe e le braccai legate con delle robuste cinghie in cuoio, una anche attorno alla gola. Almeno ero in posizione eretta.

-Finalmente ci siamo svegliati! Allora amico, come andiamo?- l’uomo in nero entrò nel mio campo visivo in quella semioscurità; non avrei saputo dire se fosse appena arrivato o se fosse sempre stato lì, fatto stava che non me ne ero accorto. Le mie difese iniziavano a sgretolarsi e questo non era un buon segno.

-Io non sono tuo amico.- cercai di mantenere un tono distaccato, il segreto era sempre quello: non mostrarsi debole.

-Peccato. Potremmo esserlo. Sono convinto che saremmo un’ottima coppia noi due.- disse con tono baldanzoso, prendendomi chiaramente in giro. Lo fulminai con lo sguardo. No, io non mi stavo divertendo per niente; anzi, quella storia era durata fin troppo a lungo. E lui cosa faceva? Rideva. Rideva di me. Ai suoi occhi dovevo sembrare ridicolo: legato come un salame, ferito sia fisicamente che mentalmente, e questo lui lo sapeva bene. Mi scrutò a lungo, cercando i segni che questa lunga permanenza con lui mi stava procurando. Se ero ancora in piedi lo dovevo alla mia resistenza fisica e la mia forza d’animo. Lo avevo promesso ad Haley, anche se nostra figlia mi odiava io dovevo salvarla.

-Finalmente inizi a comprendere, vero?- i suoi piccoli occhi neri luccicavano di perversione, godeva della sofferenza altrui. –Dopo tutta una lunga e brillante carriera, dopo tutto quello che hai dovuto passare, avresti potuto cambiare le cose. Ma non l’hai fatto.- il suo sorriso si tramutò in un’espressione dura. Contrassi i muscoli, preparandomi ad una mossa improvvisa; quell’individuo era davvero pericoloso. –E, adesso, la tua ultima nave ha levato l’ancora. Se ne è andata…lasciandoti affogare.- la cinghia attorno al collo mi parve stringersi con maggior forza; mi ero sporto in avanti come un lupo braccato dal cacciatore che tenta ancora di mordere. –Eh, se solo l’avessi afferrata in tempo.-

-Sei solo uno stupido se credi veramente a quello che ti è stato detto. Ti stanno prendendo in giro.- parlai di botto, se fossi riuscito a confonderlo potevo guadagnare ancora un po’ di tempo. Per cosa? Ancora non ne ero sicuro. Vidi i suo occhi tremolare d’incertezza, non preparato ad una mia reazione, non ad una simile. Forse sperava che sarei crollato non appena avessi risentito la voce di mia figlia. Serena. Le sue parole tornarono ad urlarmi nelle orecchie con forza, se avessi avuto le mani libere me le sarei coperte, anche se dubitavo sarebbe servito a qualcosa. No, non dovevo pensarci adesso! Dovevo rimanere concentrato sull’uomo davanti a me. Mai mostrare segni di debolezza davanti all’avversario. Come in risposta ai miei pensieri, tornò a sorridere giulivo.

-No, agente Hotchner. Questa volta sei tu a sbagliare. Anche se adesso ti risulta difficile crederlo, tua figlia non è qui per aiutarti.- portò il suo viso a poca distanza dal mio –E’ qui per ucciderti.-

Strinsi i denti con tanta forza che temetti di romperli. Poteva mai essere? E se avesse avuto ragione? Serena era arrabbiata con me, ma veramente avrebbe messo da parte tutti i nostri ricordi felici, il nostro legame, per uccidermi? Io avevo ucciso Foyet per proteggere i miei figli, ma anche per vendetta. Serena mi avrebbe ucciso per lo stesso motivo? Anche se ero suo padre? Mi stavo davvero solo illudendo?

-Nell’attesa di scoprire la verità, che ne dici di ammazzare un po’ il tempo?- venni riportato al presente da un poderoso pugno nello stomaco. Non riuscii a reprimere un gemito di dolore. Mi sarei piegato in due, se solo avessi potuto. A quel pugno se ne sommarono tanti da perderne il conto. Questa volta non mi limitai a sentire il sapore del sangue: la mia bocca, il mento, la camicia, avevo chiazze cremisi un po’ ovunque, qualche goccia era persino riuscita a raggiungere il pavimento. Ma quella fu la parte leggera, poi toccò al Taser. Urlai, nessuno a parte lui poteva sentirmi. Ad ogni scarica vedevo il volto di qualcuno: un membro della mia famiglia, della mia squadra. Ognuno di loro era un buon motivo per resistere. Ma solo il cielo poteva sapere quanto faceva male. Poi la voce divenne roca, sempre più bassa, iniziai a perdere contatto con la realtà, semplicemente subivo quella tortura gratuita. Finchè il buio non si richiuse sopra di me e non sentii più nulla.

509-Der-Reaper
  
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