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Autore: Adeia Di Elferas    28/02/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La moglie di Bernardino chiuse le imposte con un colpo secco e poi tornò dal marito, inveendo contro di lui: “E cosa pensi di fare coi nostri figli?! Li vuoi lasciare qui?”

L'uomo, che si stava infilando nelle tasche del giaccotto i pochi averi di valore che c'erano in quella casa, lanciò uno sguardo perso alla moglie, poi i suoi occhi gli caddero sul suo ventre, che nascondeva una vita ancora tanto fragile da non essere palese: “Non lo so... Prendiamo con noi anche loro... Scappiamo anche con loro...” farfugliò.

La donna, cercando di ignorare la confusione delle strade, le campane a martello e le grida delle guardie, che stavano facendo aprire a viva forza i portoni di tutti, tentò un'ultima volta di far ragionare il marito: “Come pensi di poter scavalcare le mura in cinque? Già sarebbe un'impresa se fossimo solo in due..!”

“Io devo andarmene! Ci sono dentro fino al collo! Hanno preso Gian Antonio! Prenderanno anche me! Cosa vuoi che importi se non ero al ponte con gli altri?!” fece Bernardino, mettendosi a spiare da dietro le imposte, in attesa di un momento favorevole per uscire: “Tu arrangiati, fai quello che ti pare!”

La donna, allora, trattenendo le lacrime di vergogna per la viltà del marito, gli disse: “Scappa, scappa. Io non fuggirò, anche se verrò uccisa.”

“Ma che uccisa e uccisa...” sbuffò l'uomo, andando alla porta: “Sei una donna e sei incinta e in più sei la sua cameriera personale, non ti farà nulla.”

Mentre Bernardino metteva una mano sulla maniglia e si preparava a tuffarsi fuori per inseguire la chimera della fuga, sua moglie sussurrò: “Tu non la conosci.”

L'uomo, per non essere trattenuto da una discussione proprio in quel momento così confuso e difficile, finse di non aver sentito e uscì di casa, richiudendosi la porta alle spalle e cominciando a correre.

 

Quattro soldati entrarono nella casa di Giorgio Gobbi sfondando la porta, in risposta alle resistenze dell'uomo, che si ostinava a non voler aprire.

Gettatolo gambe all'aria, gli uomini della Contessa passarono al setaccio ogni angolo di ogni stanza, rivoltando gli armadi e facendo a pezzi il mobilio, incuranti delle preghiere della moglie di Gobbi, che li implorava di lasciarli in pace.

“L'Auditore ha veduto vostro fratello tra i colpevoli – spiegò uno dei soldati, bloccando la donna con un braccio – e pensa che lo stiate nascondendo voi. E se fosse così, non sono certo che vi salverete dalla forca!”

Quando la moglie di Gobbi scoppiò a piangere, i soldati presero a cercare con maggior foga, interpretando quel cedimento come un'ammissione di colpa.

Don Domenico, rintanato nella cassapanca della sorella, stava pregando in silenzio, frenetico, sciorinando tutte le preghiere che sapeva e inventandone anche di nuove.

Quando sentì i passi pesanti e ferrosi degli uomini della Contessa, il prete di raggomitolò ancora di più, ma non riuscì a impedire ai suoi denti di battere tanto forte da potersi di certo sentire anche oltre lo spesso legno che lo nascondeva.

Prima che Don Domenico potesse rendersi conto di quello che stava accadendo, la luce di una torcia gli illuminò il volto rigato di lacrime e sudore e due soldati, scoperchiata la cassapanca, lo tirarono su di peso, afferrandolo sotto le ascelle.

“C'è un errore!” gridava il religioso, mentre veniva trascinato fuori casa sotto agli occhi sgomenti e pieni di terrore della sorella e del cognato: “Io non c'entro! Che state facendo?! Sono un uomo di Chiesa! C'è un errore!”

 

L'Auditore aveva fatto sì che il corpo di Gian Antonio Ghetti venisse recuperato e rimesso in sesto, per quanto possibile.

La brigata di soldati che aveva ricevuto l'ordine aveva trasportato il cadavere, la cui testa era stata rimessa frettolosamente assieme con bende e altre pezze, l'aveva portato in piazza e aveva assecondato le precise richieste dell'Auditore.

Spogliato quel che restava di Gian Antonio Ghetti da tutti i vestiti, i soldati lo appesero a un ferro sotto uno degli archi del palazzo, esponendolo al pubblico ludibrio e alla pubblica diffamazione.

“Che due guardie lo controllino – disse cupo l'Auditore, indicando il corpo nudo e straziato dalle molte ferite che penzolava alla luce altalenante delle lanterne – che nessun parente o amico osi toglierlo da lì e portarlo in un luogo di raccoglimento. Questo cadavere sarà da monito a tutti i traditori!”

 

“Mia signora...” Cesare Feo chinò il capo davanti alla Contessa, che stava passando in rassegna le bocche da fuoco puntate contro la città.

Più il tempo passava, in quella sciagurata sera, più Caterina andava convincendosi che non si fosse trattato di un vero e proprio colpo di Stato, ma di un mero omicidio.

Se fosse stata un'azione prettamente politica, di certo qualcuno – anche solo pochi – si sarebbe presentato armato alla rocca e avrebbe provato ad avere ragione di lei. O, quanto meno, un gruppo organizzato avrebbe tentato di far sollevare il popolo contro di lei o contro il governo.

Invece non era successo nulla di tutto ciò.

Appena lei aveva confermato la sua estraneità all'assassinio di Giacomo, Forlì si era messa alle calcagna dei congiurati e nessuno aveva provato a ribellarsi, nemmeno gli assassini stessi, che avevano preferito darsi alla fuga, invece di combattere, come se davvero non si aspettassero di doversi difendere a omicidio compiuto.

“Che c'è?” chiese la Contessa, guardando il suo castellano e immaginandosi già qualche novità catastrofica, visto il suo sguardo truce.

Siccome l'uomo non parlava, Caterina chiese, con la voce che le moriva in gola: “Non riuscite a trovare mia figlia? È successo qualcosa a mio figlio Bernardino?”

Il castellano scosse il capo: “Non abbiamo recuperato nessuno dei due, per il momento. La città è in confusione – sospirò, mentre per un attimo le campane che suonavano a martello intensificavano il loro battere incessante – e non sarà semplice trovarli e trarli in salvo.”

La Contessa si rendeva conto che l'uomo aveva ragione, ma per un istante si trovò adirata anche con lui, che non riusciva nel compito che lei gli aveva assegnato.

“Non sono qui per questo, comunque...” riprese Cesare Feo, riacquistando un minimo di vitalità nel parlare: “Sono venuto a dirvi che le guardie hanno arrestato Don Domenico da Bagnacavallo.”

A sentire quel nome, la Contessa avvertì un brivido lungo la schiena.

Non poteva dire di conoscere quel prete, ma lo aveva sentito nominare spesso come un religioso molto poco avvezzo a seguire le regole di castità e povertà di Santa Madre Chiesa. In più suo figlio Cesare lo aveva citato un paio di volte come amico del Cardinale Raffaele Sansoni Riario, parlando dei suoi studi...

“Siamo sicuri che sia tra i colpevoli?” chiese Caterina, deglutendo a fatica.

“Sì.” rispose subito il castellano: “L'Auditore l'ha riconosciuto subito. Era al seguito di Gian Antonio Ghetti, era armato ed era anche sporco di sangue.”

“Lo stanno portando qui?” si informò la Contessa, respirando con difficoltà per la tensione.

“L'hanno portato qui adesso.” fece il Feo: “L'Auditore ha pensato che voleste farlo interrogare dagli aguzzini delle carceri della rocca.”

Caterina si passò piano la lingua sulle labbra, indecisa. Aveva paura. Di tutto, persino – anzi, soprattutto – di se stessa. Temeva di avere una reazione incontrollata, ma sentiva il bisogno di agire in prima persona.

Quello che era capitato era estremamente personale. Non era stato come quando le avevano ucciso il primo marito. Quella volta era andato più che bene l'operato di Babone. Questa volta sentiva di dover vendicare suo marito Giacomo in prima persona.

“Lo interrogo io.” dichiarò alla fine Caterina.

Cesare Feo tentennò un istante, incerto su quello che la sua signora avrebbe potuto fare quella notte.

“Fate venire uno scrivano, che prenda nota della confessione.” disse la Contessa, non notando l'esitazione del castellano: “Lo farò parlare, dovessi metterci mille giorni.”

Cesare Feo non poté fare altro se non annuire e andare a cercare lo scribacchino di cui la sua signora aveva bisogno.

Caterina annusò l'aria della notte. Forse sapeva d'estate, ma lei sentiva solo il ferigno tanfo del sangue e della polvere da sparo dei cannoni.

Non era la prima volta che si prestava a condurre l'interrogatorio di qualcuno che aveva attentato alla sicurezza sua o della sua famiglia, ma stavolta si trattava di qualcuno che vi era riuscito e ciò rendeva tutto più difficile.

Mentre i soldati della rocca si affaccendavano accanto a lei per sistemare le armi e aggiustare il tiro dei cannoni, Caterina sollevò le mani davanti a sé e vide che tremavano ancora.

Non era un tremito impercettibile, ma una vera e propria scossa che di certo non sarebbe sfuggita al suo prigioniero.

Non voleva che la credesse debole. Doveva fargli paura, non pietà.

Camminando a passo di marcia, la Contessa entrò nelle viscere della rocca, fino a raggiungere la sua spelonca da strega.

Vagò per gli scaffali per molti minuti, chiedendosi quale pozione potesse fare al caso suo.

Aveva bisogno di qualcosa che la rendesse meno agitata, che in qualche modo la distaccasse dalla realtà quel tanto che bastava per permetterle di fare il suo dovere senza troppe remore.

In più, non di secondaria importanza, avrebbe voluto qualche intruglio che le permettesse di non pensare lucidamente alla morte di Giacomo. Più vi pensava, infatti, più le sembrava di impazzire e ciò non le avrebbe permesso di restare attiva ancora a lungo.

Non voleva più avere un momento di arresto come le era capitato sulle merlature. Non voleva che i suoi soldati la vedessero ancora in lacrime, accasciata a terra, senza forze.

Adocchiò il suo ritrovato per addormentare i feriti, ma si rese subito conto che non conoscendone ancora bene i dosaggi avrebbe potuto precipitare nel sonno, invece che calmarsi e basta.

Valutò gli effetti di alcuni composti molto delicati, ma temette che potessero darle allucinazioni, così alla fine optò per un composto a base di oppio. Non l'aveva mai provato su se stessa, ma a volte lo aveva somministrato a Girolamo e l'uomo ne aveva tratto beneficio, in un primo momento.

Prendendo con fatica un bicchiere, versò in modo impreciso un po' del liquido e lo mescolò con dell'acqua.

Respirò a fondo un paio di volte e poi lo trangugiò senza pensarci più.

Attese qualche minuto e poi, finalmente, l'oppio fece effetto.

Il tremore alle mani scomparve e uno strano senso di calma onnipotenza le scaldò il petto. Era ancora perfettamente cosciente, ma non si sentiva più stanca, né provava più la stretta allo stomaco che aveva cominciato a tormentarla.

Come aveva sperato, la sua mistura le aveva donato il beneficio del distacco dalla realtà che tanto desiderava.

 

Due colpi forti alla porta fecero drizzare i capelli in testa alla moglie di Bernardino Ghetti.

Sapeva che sarebbero arrivati. Se avevano preso Gian Antonio, era palese che sarebbero andati a cercare tutti i Ghetti della città.

Si chiese se suo marito avesse trovato il modo di scappare e, malgrado la delusione e il dolore che aveva provato nel vederlo scappare lasciandola indietro, si augurò che fosse in salvo.

“Vi apro!” gridò la donna, andando all'uscio, prima che i soldati sfondassero la porta.

La cameriera personale della Contessa si era ripromessa di essere forte e di accettare il proprio destino con buonagrazia, ma quando aprì e vide i suoi tre figli tra le mani delle guardie di Sua Signoria, si sentì mancare.

“Loro che c'entrano?” chiese, senza ottenere risposta.

“Dov'è vostro marito?” chiese uno dei soldati, che la conosceva.

“Non c'è, è scappato.” ammise lei, tirando su con il naso.

I suoi tre figli erano senza parole, uno aveva un occhio gonfio e un altro il labbro spaccato, ma, a regola, non erano conciati male.

Se le guardie avevano avuto ordine di non ucciderli sul colpo, pensò la donna, forse aveva ragione Bernardino. Forse la Contessa avrebbe davvero mostrato pietà per lei e per la sua famiglia, in riguardo agli anni passati come sua fedelissima serva.

Mentre due soldati frugavano per casa in cerca di Bernardino, quello che sembrava a capo della spedizione prese la cameriera per un braccio e le disse: “E sia. Vostro marito è un codardo. Almeno voi e i vostri figli avete il coraggio di non provare a scappare. Andiamo a Ravaldino.”

 

Caterina raggiunse le segrete di Ravaldino scortata dallo scrivano che aveva richiesto e da due soldati, che portavano le torce.

Chiese la presenza anche dell'aguzzino e gli ordinò di portare i ferri del mestiere.

Si comportava come se stesse agendo in automatico e questo suo cambiamento venne notato dai suoi uomini, che però non osarono dire nulla.

Don Domenico era stato piazzato su una sedia nel centro dalla saletta delle torture. Era legato e il suo vestone da prete, insanguinato e strappato, sembrava la tunica di un martire, con quella fioca luce.

Caterina chiese di accendere più torce, e in breve la stanza fu quasi illuminata a giorno. Dopodiché si fece consegnare una spada da una delle guardie e cominciò a girare attorno al prete.

Il prigioniero la guardò, gli occhi velati di lacrime e il pomo d'Adamo che correva impazzito su e giù nella gola: “Mia signora! Madonna! Mia signora! Non potete credere che io, un uomo di Dio, un uomo di Santa Madre Chiesa..!”

“Taci!” gridò la Contessa, assestandogli subito un colpo sulle ginocchia con il piatto della spada.

L'uomo ululò di dolore, ma poi tacque, come gli era stato ordinato.

Cesare Feo, appena arrivato, si richiuse la porta alle spalle e restò un po' in disparte. Voleva assistere con i suoi occhi all'interrogatorio di uno degli assassini di suo nipote.

“Chi sono gli altri che hanno ucciso il Barone Feo assieme a te?” chiese la Contessa, con voce piatta, gli occhi puntati a una delle torce.

Don Domenico piagnucolò qualcosa, ma quando vide che la donna rialzava la spada per colpirlo di nuovo – e stavolta di taglio – parlò chiaramente: “Io non dirò nulla!”

La Contessa sospirò e poi si rivolse all'aguzzino: “Arroventate i ferri.”

Il carceriere annuì diligente e prese dalla sua sacca spuntoni e altri attrezzi e li pose sopra a una fiaccola accesa apposta per quell'uso.

Inorridendo dinnanzi a quella visione, il prete cominciò a pregare a bassa voce, chiudendo con forza gli occhi, come ad allontanare da sé l'immagine dei ferri che si arrossavano divenendo incandescenti.

“È inutile che preghi – lo canzonò la Contessa, facendosi passare un ferro dalla punta aguzza, tanto calda da sembrare bianca – non ti servirà a nulla.”

E così dicendo strappò con un unico e preciso gesto una delle maniche del vestone del prete e, con mano sorprendentemente ferma, premette l'attrezzo da tortura contro la pelle nuda della spalla.

Sconvolto dal grido disumano che uscì dalla gola di Don Domenico, il castellano Feo arricciò il naso, disturbato dal tanfo di carne bruciata, e cominciò a pregare nella sua mente.

Se quello era solo l'inizio dell'interrogatorio, gli ci sarebbe voluto uno stomaco forte per arrivare alla fine.

 

Tommaso Feo si svegliò di soprassalto, nel sentire bussare alla porta con un'insistenza decisamente inopportuna, per quell'ore di notte.

Tirandosi su a sedere sul letto, l'uomo disse: “Un momento!”

“È una cosa urgentissima, Governatore!” rispose una voce dall'altro lato della porta.

Anche Bianca, che era coricata accanto a Tommaso, si era svegliata di colpo per il rumore improvviso.

“Cos'è successo?” domandò assonnata la giovane, coprendosi fino al mento con il lenzuolo.

Tommaso fece spallucce e si infilò in fretta le brache, tralasciando la blusa. In fondo era ancora estate, ed era nella sua camera da letto. Chiunque fosse alla porta gli avrebbe perdonato quell'informale accoglienza.

Quando aprì, si trovò di fronte un uomo vestito da viaggio, che protendeva verso di lui una lettera recante il sigillo della Contessa Sforza Riario.

“Per voi, da recapitare subito!” spiegò la staffetta: “Ho corso più che ho potuto!” aggiunse, come se ci tenesse a sottolineare il proprio impegno.

Tommaso fece un cenno con il capo, a mo' di ringraziamento e prese la missiva.

Ancora prima di rompere il sigillo, il Governatore di Imola avvertì un brivido lungo la schiena. Era come se sapesse che quella lettera conteneva terribili notizie.

Mentre Bianca, coperta dal lenzuolo che si era provvidenzialmente drappeggiata addosso come una tunica, lo raggiungeva alle spalle, cercando di puntellarsi sui piedi per leggere qualcosa oltre il suo braccio, Tommaso schiuse le labbra e sussurrò: “Mio Dio...”

I suoi occhi corsero sulle parole della Contessa – scritte da una mano diversa dalla sua – e poi si puntarono sulla staffetta: “È vero quello che è scritto qui?”

Il messaggero, che era partito da Forlì quando i primi tumulti stavano prendendo forma, annuì frenetico: “Sì, mio signore! La città è in balia della guerra civile! La Contessa è alla rocca di Ravaldino e l'Auditore ha fatto chiudere le porte!”

Tommaso lasciò la lettera a Bianca, che cominciò a leggere in fretta il messaggio, e afferrò il cinturone con la spada.

“Dove stai andando?” chiese la moglie, sconvolta tanto dalla nuova che voleva Giacomo morto per mano di assassini vicini a Caterina, quanto dalla reazione subitanea di Tommaso.

“Devo eseguire un ordine.” rispose l'uomo, apparentemente più rabbioso che non addolorato.

Bianca rilesse la parte in cui sua sorella ordinava a Tommaso di uccidere la moglie di Gian Antonio Ghetti e i suoi figli e si sentì mancare: “Che cosa c'entrano loro? Non erano nemmeno in città!”

La giovane provò a fermare il marito che, a dorso nudo e quasi con la schiuma alla bocca, stava già guadagnando il corridoio.

In uno slancio violento che non era nelle sue corde, Tommaso la scansò di lato, mandandola a sbattere contro il muro e gridò: “Tu avverti tua madre! E poi chiuditi in camera!”

Bianca, la cui coperta – suo unico vestito in quel momento – era caduta al suolo lasciandola completamente nuda, lo guardò andarsene, senza avere la forza di fare altro.

Il messaggero forlivese salutò con imbarazzo la moglie del Governatore, gli occhi al suolo e le guance in fiamme, e la donna restò sola, con la lettera in mano.

Bianca non si diede pena di raccogliere il lenzuolo e rientrò in camera da letto. Aveva ragione Tommaso, doveva avvertire sua madre.

Quello che era capitato era un disastro. Bianca era certa che quella volta Caterina non avrebbe avuto pietà per nessuno. E così sarebbe stato per Tommaso.

Premendosi una mano sugli occhi, la giovane cominciò a piangere sommessamente, immaginando i mesi di terrore e morte che sarebbero seguiti. Un omicidio tanto pesante non poteva portare ad altro.

I forlivesi che Caterina più apprezzava le avevano ucciso l'uomo che amava. Era sufficiente per lei per giustificare una vera e propria guerra civile.

La cosa che più la ferì fu la consapevolezza subitanea e ineluttabile del fatto che non solo Caterina si sarebbe tramutata in una belva selvatica, ma che anche Tommaso sarebbe diventato un mostro, perché, per quanto lo criticasse e ne fosse invidioso, amava suo fratello come la sua stessa carne e avrebbe punito i suoi assassini con la ferocia che aveva nascosto a buona parte del mondo fino a quel giorno.

 
   
 
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