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Autore: Lost In Donbass    02/03/2017    1 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
Capitoli:
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CAPITOLO TERZO: INVADED
Dead all the pain that we shared
Dead all the glory we had
It’s over, It’s over but I always be
Lost in today in the past
Lost in the future we had
 
-No, no, scusami io … io non ti conosco.
Una scure. Un processo. L’ergastolo. La sedia elettrica. Il marchio di Caino. Un coro di voci che lo chiamava Giuda Iscariota. Vogliamo Barabba, soldato, vogliamo Barabba. Tom non riusciva a immaginarsi altre pene per il peccato che aveva appena commesso, davanti a Dio e davanti agli uomini, mentre era lì, livido, che si allontava impercettibilmente da lui, da Bill. Gli parve come se tutto quello che aveva vissuto in Oriente gli si stesse rovesciando addosso come un pentolone di olio bollente, una marea di sensazioni che lo travolgevano con la forza che solo gli oceani in tempesta potevano avere. Si sentiva soffocare, in quel momento, il ricordo ustionante della granata che esplodeva, il fumo che lo soffocava, il calore immenso che lo travolgeva, il sangue dei suoi compagni che schizzava dappertutto, bollente e ancora vivo. La guerra stava prepotentemente prendendo piede nella sua testa, non appena aveva rivisto in faccia il ragazzo dal quale aveva tentato di fuggire ma che, inesorabile come la Morte, lo aveva trovato, anche nel luogo più intimo che poteva esistere. Chiuse gli occhi, sentendo il calore bollente del deserto infuocargli la pelle bruciata, il metallo caldo di un fucile appena usato a scaldargli le mani sudate e callose, le esplosioni e gli ordini del comandante rimbombargli nelle orecchie, la sabbia infilarglisi nel naso e nella bocca, il fumo a ostruirgli le vie respiratorie tanto da farlo boccheggiare anche in quel momento, lontano dal conflitto, lontano dalla devastazione. Il solo aver visto quelle iridi nere come il cielo afghano nelle notti di luna piene, gli occhi che lo avevano tanto dannato, gli occhi che avevano firmato la sua condanna a morte, lo aveva ritrasportato nelle gelidi notti negli avamposti sulle colline brulle, in compagnia di qualche capra sperudta che ruminava i cardi che ferivano loro la pelle, le miriadi di stelle che punteggiavano il manto di velluto d’inchiostro che era la volta celeste, milioni di luci che li fissavano dall’alto delle loro altezze siderali e giudicavano, silenti, il destino cupo degli uomini che si sparavano tra di loro in mezzo alla sabbia e sotto la benedizione di una luna di latte che piangeva comete che si andavano a infrangere in pianeti dove vanno a morire gli astronauti. Aveva sognato quegli occhi fiammeggianti e meravigliosi, mentre era lì in mezzo ai suoi compagni, sdriaiato in scomode brande a guardare le stelle dalla finestra della caserma, a collegare le stelline bianche fino a creare il nome che lo aveva torturato. Se li era visti davanti ogni volta che faceva la ronda nel campo, quando aveva incrociato lo sguardo fiammeggiante dei due giovani ragazzini afghani che aveva trovato seduti tra le macerie di un piccolo villaggio, che lo avevano quasi fatto piangere, con i loro grossi occhi di tenebra che urlavano vendetta, smagriti, pieni di odio, di paura, di rivolta, abbracciati, che lo avevano guardato come si può guardare a un assassino seriale rimasto impunito per anni. Non li avrebbe dimenticati, i due ragazzi, come li avesse superati abbassando lo sguardo, sconfitto, come aveva chinato semplicemente il capo, lasciandoli stare, loro, i vincitori di una piccola battaglia, di come li avesse osservati di nascosto da lontano, guardando con rimorso, forse pentimento, i due ragazzi baciarsi piano, in mezzo al silenzio della morte, stretti uno all’altro per tenersi in piedi nella sabbia grigia che mulinava rasoterra, tra cartucce usate e la puzza di cadaveri e polvere da sparo a impestare l’aria, un solo bacio, un briciolo di passione adolescenziale, un giuramento di resistenza all’inferno che li aveva travolti e aveva strappato loro tutto quello che avevano, se non l’amore, quello no, che erano ancora insieme e interi, dopotutto, nel cimitero della loro casa, le mani intrecciate mentre sgattaiolavano via, silenziosi come gatti, veloci come ombre, un ultimo sguardo a Tom, che li fissava con il fantasma di una lacrima a brillargli tra le lunghe ciglia, un minimo gesto di saluto con le mani lunghe e olivastre, nessun sorriso, solo tanta depressione e una fuga, per mano, nel deserto, come i più pazzi degli amanti e i più sconsiderati dei sedicenni.
Gli occhi di Bill erano il pozzo di lava dove era annegato, la sua voce melodiosa il suono che aveva tentato di dimenticare tra gli spari e le esplosioni, ma era stato anche il primo a sovvenirgli quando avevano bombardato il campo. In mezzo al calore diabolico delle bombe, al fumo che lo aveva attanagliato come morse assassine, al sangue che sprizzava, alle urla dilanianti dei suoi commilitoni, aveva sentito Bill parlare, dire frasi senza senso, parole, un suono angelico in mezzo a tanto infernale disastro. Ricordava il terrore, i soldati che correvano impazziti, e ricordava il dolore lancinante alla testa, il suolo duro contro il quale sbatteva cadendo come una marionetta, i rumori fattisi così forti da farlo impazzire, e quella voce che lo cullava, l’improvviso gelo di quelle mani lunghe e pallide che aveva desiderato alla follia che gli accarezzavano il viso bruciato dal calore e dal sangue suo e non che lo ricopriva, gli occhi che si chiudevano e le labbra martoriate dal caldo che gemevano un nome, lo stralcio di un nome … quel “Bill” che aveva sussurrato tra gli spasmi nell’ospedale di campo dove lo avevano ricoverato in fin di vita, la granata incastrata in testa e corpo ustionato. Aveva aperto gli occhi, il solo in quel disastro, e non aveva fatto altro che mormorare il nome di quello che lo aveva mandato al fronte a morire, vedendo i suoi occhi di brace truccatissimi e il suo viso da bambola che un tempo era stato sicuro di amare galleggiargli davanti agli occhi offuscati dal dolore.
E ora, dopo la guerra, dopo l’orrore, lui era ritornato, lui, a cui aveva pensato in punto di morte, a cui aveva sacrificato ogni notte sul campo, a cui aveva rivolto una preghiera spezzata quando si era svegliato dal coma. Non voleva ammetterlo a se stesso, ma Bill era inquietantemente stato presente in ogni attimo, come un cancro di cui non riusciva a liberarsi. Lo vedeva ogni notte nelle stelle e nell’infinito cielo del deserto, i suoi giganteschi occhi che lo guardavano da sopra le stelle. Lo sentiva accanto a lui nelle azioni militare, la sua voce dolce che li ricordava che doveva tornare a casa per lui, che non avrebbe dovuto abbandonarlo. Percepiva le sue belle mani attorno alle sue in elicottero, che volevano farlo volare come un gabbiano nel Mar Baltico, lontano dal Rigestan una volta per tutte. Sentiva il suo corpo lungo e flessuoso contro il suo nella branda, le sue bellissime gambe da gazzella avvolte attorno al sua bacino, le braccia che lo stringevano, le sue labbra piene, col rossetto nero, che lo baciavano con delicatezza, il suo profumo che gli inondava le narici di vaniglia, essenze da donna, musica punk e zucchero filato dei lunapark. Il suo calore fittizio lo riscaldava di notte, la sua voce lo faceva dormire; a volte si svegliava in un bagno di sudore, vittima di sogni che avevano Bill, l’Iblis, come protagonista indiscusso, e lo lasciavano sconvolto e soffocato, incubi che lo perseguitavano come una falce nera che tentava sempre di sgozzarlo ma dalla quale lui riusciva a fuggire.
A volte si svegliava persino quasi eccitato, senza ricordare minimamente che ruolo avesse avuto il suo incubo nel sogno. Eppure, adesso era lì e non era un sogno, una visione fugace nella sabbia, un miraggio: no, era Bill in carne ed ossa, che piangeva e strepitava, appeso ai suoi pantaloni sfondanti, la bambina grassa che cinguettava qualche “mamma, mamma” preoccupato, stringendo il peluche. E Tom stava fingendo di non riconoscerlo, di ignorare il ragazzo stella che lo aveva salvato e dannato come nessuno mai. Tom era scappato in Afghanistan, per lui. Non era tornato per scappare di nuovo dalle sue grinfie smaltate.
Non sapeva se il suo sguardo fosse di puro orrore, mentre continuava a negare l’evidenza, una nausea terrificante che gli aveva attanagliato lo stomaco a vederlo strillare e piangere, appeso al bordo dei suoi jeans sformati, un’improvvisa voglia di scappare fuori dal Kalende May e prendere il primo treno per Berlino e poi un aereo per Kabul e sfuggire forse una volta per tutte a quei capelli neri con le ciocche bianche sparati in tutte le direzioni e a quel visino effeminato e truccato. Si guardò intorno, tutta la folla di amici che si era radunata attorno a loro, le voci di tutti che si confondevano nella testa confusa del rasta, quei vari “Ma è Bill?” “Dio Mio, non avrei mai pensato che fosse lui quella cantante bravissima!” “Ma chissene importa se è lui la cantante, Claudia, è impazzito del tutto!” “Qualcuno lo porti via!” che non avevano forma e dimensione, gli occhi accecati dalle luci che aveva disimparato a sopportare, una triviale mondanità che non sentiva più sua.
-Tom, ehi, Tom, ti senti bene?- si svegliò dalla trance autoindotta quando Georg lo afferrò per un braccio, scuotendolo nervosamente, la solita espressione preoccupata nei confronti del suo squinternato amico che gli rivolgeva sin da quando erano bambini. – Stai tranquillo, Bill non è pericoloso.
-Eh?- Tom si riscosse, passandosi una mano sul viso, guardando con orrore i suoi amici che avevano circondato Bill, in lacrime, disperato, vittima di quelle crisi isteriche che il rasta ricordava così bene e che la sua mente tentava di rifiutare categoricamente – Io … no, amico, non c’è problema. Lui …
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, cercando di distogliere lo sguardo colpevole dal corpicino anoressico di Bill e dalle sue lacrime, quella voce straziante che ormai aveva anche smesso di chiamarlo, di fronte alla sua ostentata quanto falsa perplessità, dibattendosi impotente tra le forti braccia di Gustav, che una delle sue vecchie amiche gli disse, con un sorriso dolce
-Non ti spaventare, Tom, tesoro, Bill è solo … un po’ strano. Qui a Loitsche lo sanno tutti. Non sapevamo nemmeno che fosse lui a cantare qui al locale.
Tom annuì, con aria persa, sentendo le vertigini coglierlo come nemmeno quando aveva ucciso il suo primo uomo. Certo, Bill poteva essere strano quanto volevano, ma nessuno poteva sapere quanto in quel momento fosse lucido e presente a sé stesso, molto di più di quanto non lo fosse lui. Alto tradimento, soldato Kaulitz. Solo la corte marziale avrebbe potuto punirlo per la sua infedeltà.
-Ehi, Bill, Bill stai calmo, non è successo niente, calmati.
Al rasta sembrava di guardare dietro a uno specchio le vicende che si svolgevano di fronte a lui, i suoi amici che cercavano di calmare il moro in preda agli spasmi dei singhiozzi, il locale che sembrava aver assunto una dimensione paradigmatica che non era sua, un insieme di elementi che lo aveva distaccato dal mondo reale, come in guerra, quando serviva dimenticare tutto quello che l’essere umano aveva fondato e isolarsi da tutto. Quella era un’altra guerra che Tom doveva combattere contro sé stesso e il suo passato che tentava di relegare agli sporchi demoni di un inverno mai vissuto e in una fine mai arrivata.
-Ragazzi, lo porto a casa sua, sta male, l’aver visto una persona nuova lo deve aver mandato fuori asse.
Certo, pensò Tom, annuendo distrattamente nel marasma della gente che guardava Gustav, l’unico che secondo loro, poveri illusi, conosceva meglio Bill, prenderlo sotto braccio. Certo, se non fosse che lui forse era la persona meno nuova a Bill nell’intero paese. Guardò la sagoma imponenente del biondo amico uscire lentamente trascinandosi dietro la figura distrutta del moro e per un attimo pensò che al suo posto, a Berlino, in un’epoca che faticava ancora a definire solamente di due anni prima, ci sarebbe stato lui, magari con quell’aria beffarda che l’Afhganistan gli aveva cancellato, magari tenendogli una mano sul fondoschiena perfetto, magari accendendogli strafottente una sigaretta e sentire la sua stridula risata nell’orecchio come la peggiore delle bagascie. Ma quel Tom lì non esisteva più. Non esisteva il rasta gagliardo che ascoltava musica punkrock, che andava contro il sistema, che si sballava tutta la notte e non ne aveva mai abbastanza, che si portava a letto la Principessina Araba, come chiamavano Bill nel loro giro no global berlinese, che si ribellava e spingeva tutti ad andare contro il mondo, che aveva lo spirito da leader che tutti invidiavano, che se ne stava a lavorare in un’officina pensando al comunismo utopico di Marx ed Engels. E tutti si chiedevano dove fosse finito quel Tom, che aveva lasciato il posto a un militare che tentava di dimenticare e di tornare a seppellirsi nel deserto afghano. Che motivo c’era di cambiare, si erano chiesti tutti.
-Mamma! Mamma!
Tom sobbalzò, girandosi verso la bambina, che in tutto quel trambusto nessuno aveva calcolato, gli enormi occhi neri a mandorla che fissavano la porta sconvolti, qualche grossa lacrima terrorizzata a rigarle la guance rotonde, un’espressione di puro sconcerto dipinta sul viso tondo. Dio, povera piccoletta. Si abbassò accanto a lei, accarezzandole timidamente i capelli corvini e mormorò, un dolore indicibile che gli stringeva il cuore e gli attorcigliava lo stomaco
-Ehm, la mamma non sta tanto bene, Mackenzie. Ti porto da lei, va bene?
-Ma sei sicuro, Tom?- Georg lo guardò dubbioso – La portano le ragazze a casa, io non credo che tu …
-Seguo Gustav, Geo. Voglio portarla io da sua … ehm, da Bill.- rispose Tom, scuotendo la coda di dread biondicci – Stai tranquillo,  bello. Voglio solo respirare la vita normale, ok?
Nonostante lo sguardo incerto dell’amico, Tom concentrò le sue attenzioni sulla bambina che ballonzolava lentamente verso la porta, stringendo il dromedario di peluche come fosse un arma e la sollevò di peso, grato del fatto di aver sviluppato una forza non indifferente. Se la caricò in braccio come poteva, forse un po’ rudemente, tentando goffamente di non farle male, guardando quei grandi occhi già asciutti dalle lacrime fissarlo espressivi come due perle oceaniche, così simili agli occhi di Bill, ugualmente neri e ugualmente totalizzanti.
-Andiamo a casa, eh, piccina?- sussurrò, sentendo le manine paffute attaccarsi al colletto della felpa e un sorriso vago illuminarle la labbra.
-Che cos’ha la mamma, Tom?
Abbassò lo sguardo su di lei, guardando la pelle lattea che brillava alla triste luce dello spicchio di luna argentea incorniciata nel cielo mai davvero buio del tutto, sporcato dalle luci della città. Gli mancavano i selvaggi cieli sconfinati dell’Afghanistan dove potevi trovare tutte le lacrime piante incastonate nelle stelle.
-Niente, tesoro … solo una crisi isterica, ma si rimetterà subito.- tentò di rassicurarla, sorridendole il più teneramente possibile e avviandosi dietro la sagoma di Gustav che macinava rapidamente terreno tenendo a braccetto Bill.
-E’ malata, credo.- mormorò Mackenzie, appoggiando la testolina alla spalla del rasta e stringendo le dita grassottelle al collo della felpa sformata – E’ tanto triste, lo sai? Sta tanto male, la mamma.
Tom strinse i denti, sentendo un’improvvisa fitta di dolore alla bocca dello stomaco. Ogni parola di quella grassa bambina era come una stilettata al cuore; si sentiva colpevole, un lurido giuda, un assassino, il peggiore dei bastardi perché se Bill stava male la colpa era solo sua, e della sua codardia che lo aveva fatto prima scappare e ora nascondersi come un coniglio dietro la sua presunta sanità mentale. Ma non lo sa la gente che se ti arruoli per scappare tanto in bolla non ci stai con la testa?
A volte si chiedeva ancora perché cercasse la guerra fino allo svenimento, come mai non avesse fatto come ogni ragazzo normale, perché non avesse rotto tutto con una partenza, un trasferimento, anche all’estero se voleva stare tranquillo, invece di buttarsi in una guerra non sua e in un ordine sociale che aveva sempre odiato. Tom aveva bisogno di combattere, questo lo sapeva. Era l’unico, la sera, in mezzo ai suoi commilitoni, a non lamentarsi delle fatiche giornaliere, come era l’unico che si sentiva pervaso da una strana euforia quando era ora di entrare nel vivo dello scontro. Se lo diceva da solo, “sadico”, “perverso”, “bestia” ma non riusciva a placare la sua sete di combattimento, non per uccidere, non per distruggere, ma solo per avere qualcuno contro cui lottare fino alla morte, così sfrontatamente coraggioso da sfiorare l’imprudenza, accecato dalla voglia di stare nella sabbia, le orecchie all’erta, il fucile imbracciato. Non gli importava di vincere o di morire, gli importava solo sfidare l’ignoto fino allo svenimento, alla ricerca di qualcuno che lo volesse mettere brutalmente alla prova. Non aveva la minima traccia di istinto di conservazione, si buttava nelle fauci del lupo senza pensare, bramando, anelando, alla rivolta e alla battaglia selvaggia. A stento sapeva per cosa stesse guerreggiando, e non gli importava, non quando questo gli permetteva di tenere a freno la sua smania di guerra e la sua insaziabile voglia di sentirsi libero. Solamente laggiù, nel deserto infuocato, poteva dirsi felice, alato, distaccato dalla mondanità che lo nauseava e che gli stringeva lo stomaco. Certo, gli mancava la Germania, i suoi amici, la sua vita di prima, esisteva ancora una parte di lui che voleva tornare a casa e calmare gli ormoni, rifarsi una vita normale, acquietarsi, mentre l’altra metà ruggiva per restare in Afghanistan a farsi crivellare di colpi e morire forse felice, forse finalmente libero, tra la sabbia grigia, in mezzo alle capre montane e alle notti d’infinito, senza tomba, fiori o ricordi. Non voleva onori militari o gloria immortale: voleva la guerra, e l’aveva avuta. Ma non ne aveva mai abbastanza.
-A volte le persone stanno male, Mackenzie, ma questo vuol dire che presto starà di nuovo bene e starà ancora meglio di prima.- le sorrise, accelerando il passo per tenere dietro a Gustav senza farsi notare troppo. – Ora portiamo te e la mamma a casa, così si riposa e domani starà bene, va bene?
La guardò, tentando di sembrare il più convincente possibile, quando si rese conto di una cosa. Una piccolezza, certo. Però il viso di quella bambina innaturalmente malinconica gli ricordava così tanto il suo di viso. Gli pareva quasi di specchiarsi dentro quegli occhi così simili a quelli di Bill, eppure quel sorriso, quelle fossette, quel naso a patatina, quel modo di piegare la testa … sì, gli ricordava sé stesso, e non poteva farci niente. Era una sensazione strana, quella di rivedersi in una bambina di due anni col vestito rosa, eppure così assurdamente realistica da lasciargli l’animo inquieto, intento a svoltare per le stradine piccole e cupe di Loitsche, veleggiando come in un sogno dietro due ombre incerte. Sembravano due fantasmi, per chi li avesse visti. Un ragazzo rasta reduce di guerra e una bambina obesa che percorrevano furtivamente le viuzze di un piccolo paese della pianura a notte fonda, illuminati fugacemente dai vecchi lampioni intermittenti, bagnati dalla brina umida che scendeva insieme alla notte, incerti come vecchi fotogrammi di un film degli anni ’20 che nessuno ha mai visto, vaghi come le note di una vecchia canzone punk di un gruppo di teenager dimenticati nella periferia di una metropoli svedese, figure di fumo che si confondevano con le ombre dell’oscurità e coi fantamsi che percorrevano le strade appena calava il buio, alla ricerca delle loro case, timidi ma presenti come solo le anime dei morti in terra sconsacrata lo possono essere, luci fuggevoli di un paradiso in via d’estinzione, un legame fragile come uno sguardo ma profondo quanto quello che ci può essere tra … un padre e una figlia che non si conoscono? No, non era possibile. Un involontario brivido di incredulità e shock gli percorse la spina dorsale. Era assurdo tutto quello. Non aveva senso, era solo lui che stava impazzendo dopo che l’Iblis era tornato a prenderlo. Gliel’aveva detto, lo ricordava come fuoco nella mente, gli aveva detto di abortire, che già poi come aveva fatto a rimanere gravido Tom se lo sarebbe chiesto fino alla fine dei suoi giorni (“Ma non era forse un Iblis?” Gli ricordava la sua coscienza, subdola “Non è forse al di sopra di tutte le vostre stupide convenzioni umane?”). Comunque, era stato chiaro, quella cupa notte di marzo, con la tempesta che infuriava su Berlino e sui loro cuori. Abortisci, Bill. Me ne sbatto del resto.
 
Era notte fonda, pioveva a dirotto, come se Dio, sempre ammesso che esistesse, avesse voluto frustare Berlino come un padrone frusta lo schiavo inerme. Cadevano lampi, che illuminavano la Porta di Brandeburgo, e illuminavano anche quel piccolo appartamento. Illuminavano un rasta a torso nudo, appoggiato al muro, gli occhi fuori dalle orbite per lo sconcerto. Rimbombavano, le sue urla, insieme a quel vecchio disco dei Depeche Mode che non piaceva a nessuno al piano inferiore. C’era anche un ragazzo coi capelli corvini sparati, accucciato sul letto matrimoniale sfatto, che si teneva la pancia con le mani e singhiozzava.
-Abortisci, Bill. Non capisco un cazzo di questa faccenda, ma comunque abortisci. Non mi interessa come, basta che lo fai.
Ogni debole lamento che Bill provò a sputare tra le lacrime fu zittito dalla porta della camera da letto che sbatteva, rumorosa come uno sparo nel petto. Anche i suoi deboli singhiozzi, quegli sconclusionati “no, no bambino mio, questo no, questo mai” venne soffocati dall’infuriare del vento fuori dalla finestra. Berlino voleva il suo tributo di sangue, ma l’Iblis non era pronto a versarlo.
 
-Senti, Mackenzie, ma … la mamma è da sola? Non hai nessun altro?- chiese titubante, sospirando di sollievo quando vide Gustav e Bill fermarsi di fronte a una delle villette a schiera tutte perfettamente uguali.
-Sì. Aspetta qualcuno, credo, ma non lo so.- rispose la bambina, per poi agitare le braccia rotonde verso la villetta e strillare – Casa!
Tom deglutì rumorosamente, affrettandosi verso Gustav che lo guardava con tanto d’occhi, Bill appeso al braccio oramai distrutto dagli spasimi del pianto, in stato quasi catatonico.
-Tom! Ma che ci fai qui, perché hai portato tu la bambina? Sei appena tornato e …
-Va tutto bene, Gus.- il ragazzo zittì il biondo con un gesto della mano – Ho voluto portarla io a casa, vero piccoletta?
Mackenzie annuì compita, agitando il fido peluche Dhakira. Tom sorrise mestamente, cercando di tenere a freno la voglia di mettersi a urlare e piangere istericamente. Non perdere la calma, soldato Kaulitz. Solo le donnicciole lo fanno.
-Ho capito T., vuoi tornare a essere il vecchio coglione che conoscevamo.- Gustav sorrise, ma non era allegro. Si girò verso Bill, che gli cadeva come morto tra le braccia, spezzato come una bambola e sospirò a lungo, prima di estrarre un paio di chiavi da un grosso mazzo e aprire la porta della villetta, spiegando, quasi al nulla, come si spiegherebbe a un bambino a far di conto – Mia mamma ha continuato a controllare la casa di Simone e Bill dopo che se n’erano andati, aveva le chiavi e ora le ho prese io. Senza Simone, dobbiamo prenderci noi cura del piccolo Bill.
Aprì piano la porta, facendo entrare dentro il moro con delicatezza, seguito da un Tom riluttante e svasato, la bambina sempre in braccio che guardava Bill con un misto di rassegnazione e tanta paura infantile.
-Scusalo, amico mio. Probabilmente il fatto che tu sia un viso nuovo per lui e per il fatto che stavi parlando con la piccoletta l’ha spaventato. Ha grossi scompensi psicologici, li ha sempre avuti, non averne a male.
Scompensi psicologici? Bill? Il ragazzo più brillante di tutta la capitale, che sapeva più cose di tutti gli onorevoli delle università e che prendeva sempre 30 e lode ad ogni esame, che parlava arabo come parlava tedesco? Oh no, quello non era il Bill che conosceva lui, di certo. Era … la versione sola di Bill, che aveva sempre anelato alla fama, alle telecamere e all’attenzione della massa più di quanto avrebbe dovuto. Era stata questa sua ossessione feroce per le luci della ribalta che l’aveva rovinato.
Mackenzie si fece mettere giù, e ballonzolò verso Bill, adagiato mollemente sul divano, saltando faticosamente tra le sue braccia
-Mamma! Mamma, stai bene? Ci hanno portati a casa, mamma!
Gustav e Tom si guardarono, arrossendo, immobili in quella casa buia, a guardare come i peggiori dei voyeur la scena lenta e nauseantemente claustrofobica di Bill, catatonico, morto nell’animo, accoccolato su se stesso guardare la bambina e per un orribile momento i due amici furono quasi certi che la spingesse via strillando. Ma Bill non lo fece, anzi, si limitò a stringerla come un pelouche e singhiozzare qualcosa di incomprensbile, una ninnananna forse, un’antica melodia araba dimenticata, accarezzando i capelli corvini di Mackenzie, sussurrandole qualche vaga parola in quella lingua lontana che sembrava un dialetto incantato parlata da lui. Non li guardava nemmeno, sembrava essersi scordato perfino che esistessero, chiuso nel suo guscio protetto fatto di pianto e ninnananne perdute.
Tom sarebbe rimasto a fissare quella scena per sempre, come una fotografia, un fotogramma di un film mai distribuito, in bianco e nero per il buio della casa e la luce della luna lattea, una madre con la sua bambina, il silenzio spezzato solo da una musica antica com’è antico il tempo, una bolla di infrangibile perfezione umana. Forse quella era la sua famiglia, in quella fotografia d’epoca. Forse avrebbe dovuto esserci lui, lì, a stringere il ragazzo che aveva amato tra le braccia e dire qualcosa alla bambina grassa. O forse no. Perché lui era un soldato, si portava dietro tutto il sangue, le urla, l’orrore di una dimensione sconosciuta e terrificante. Lui sarebbe stato il demone impastatore dell’eterno splendore di quel quadro incancellabile. Lui portava odio, violenza, lotta. A Bill e a Mackenzie servivano amore, dolcezza, pace.
Davvero, Tom sarebbe rimasto lì congelato a guardarli se Gustav non lo avesse preso delicatamente per un braccio e lo avesse sospinto fuori, nella notte fredda della Pianura Pannonica, chiudendosi la porta alle spalle. Due amici, un ricordo, la luna.
-Se la caverà, tranquillo. Lo fa, ogni tanto. Routine.- disse Gustav, passandosi una mano tra i corti capelli biondi – Vogliamo tornare dagli altri? Mi dispiace davvero che al tuo arrivo tu abbia dovuto …
-Raccontami di lui, Gus.- lo interruppe Tom, afferrandogli le mani, guardandolo negli occhi, come faceva il giovane Tom dei bei tempi andati, che sognava tanto e raccontava almeno il doppio, che voleva le leggende e le storie come fossero miele prelibato che colava dal favo – Ho tutto il tempo, amico mio. Raccontami di Bill.
  
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