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Autore: Warlock_Vampire    05/03/2017    1 recensioni
"Io, che ho conosciuto molto presto cosa fossero dolore e odio e che solo dopo molto tempo ho compreso l'amore; io, che ho imparato ad uccidere prima ancora di saper vivere; io, che ho vissuto per secoli nella profonda convinzione che ognuno può ottenere ciò che vuole, sempre e comunque, sacrificando tutto, se necessario; dopo così tanto ho davvero bisogno di mettere nero su bianco i fatti."
In queste memorie Katherine Pierce si racconta, dalla sua fragile umanità alla trasformazione in Vampiro, ripercorrendo tutte le tappe più significative della sua lunga esistenza.
AVVERTENZA: La lettura di questa storia è un contributo, una spin off, di The last challenge (il nostro crossover). Pertanto, consigliamo la lettura di The last challenge, anche se non è essenziale.
Inoltre, essendo la "nostra" Katherine, le vicende in cui è coinvolta sono frutto dell'immaginazione degli autori e nulla hanno a che vedere con la Katherine di The Vampire Diaries, pur ricalcandone l'aspetto e il carattere.
Precisato questo, buona lettura!
Genere: Azione, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Elijah, Katherine Pierce, Klaus, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Varna – Regno di Bulgaria, 1413
 
L’anno in cui avvenne la mia trasformazione era il 1413. A quel tempo vivevo in un villaggio bulgaro circondato dai boschi, poco lontano da Varna, una città sulle sponde del Mar Nero di proprietà di un ricco vassallo del re che si vedeva poco in giro.
Mio padre era morto quando avevo cinque anni, nel 1398, colpito da un turco durante la Battaglia di Nicopoli.
Nel 1413 avevo vent’anni e, bellezza a parte, ero piuttosto infelice. Mia madre si era risposata poco dopo la morte di mio padre con un veterano di guerra, ex ufficiale; aggiungerei caduto in disgrazia per qualificarlo, ma questa è solo una mia idea.
Era vecchio e grasso, i muscoli li aveva persi dopo la guerra, proprio come il buonsenso. È crudele, questa descrizione? Se l’aveste conosciuto direste di no.
Dico che aveva perso il buonsenso perché, se ancora lo avesse avuto, non avrebbe sposato mia madre. Per quanto potesse esserne innamorato, non era neppure lei nel fiore degli anni e, a dirla tutta, una madre vedova sul lastrico non è poi quel che si dice un buon partito. Per me era chiaro che lei lo desiderava solo per interesse.
Fatto sta che si sposarono. Da lui mia madre ebbe altri tre figli, tutti maschi, per la gioia di quel deficiente del mio patrigno. Ivan, Paolo e Fëdor. Dei tre non ho amato nessuno e non mi sento colpevole o pentita nel rivelarlo. Erano semplicemente le copie del loro ottuso padre e assai poco avevano ereditato dell’eleganza di mia madre, che era stata in gioventù una donna splendida e di gran classe, benché la vita fosse stata crudele con lei. Fëdor, il più piccolo, fu l’unico che piansi almeno un poco, quando morì.
 
Dunque, 1413. Ho detto prima che ero infelice in quei giorni e non mentivo. Mia madre era sempre troppo indaffarata per potersi curare anche di me che ero ormai una donna fatta, destinata ad un veloce matrimonio.
Il mio patrigno mi odiava senza riserve. E per un’epoca in cui la famiglia è la cosa più importante, qualcuno dovrà ammettere che avevo ragione di sentirmi infelice.
Io non ero sua figlia e per giunta, ero una donna. Due motivi futili, ma sufficienti per essere disprezzati.
Era un giorno freddo, nebbioso e umido, quello che svegliò il villaggio quel lontano 1413 che cambiò la mia vita per sempre. La quiete del mattino autunnale fu presto sostituita dalle urla dei turchi che arrivavano dal bosco, pronti a fare razzie. Uccisero uomini, vecchi e bambini, mentre le donne vennero fatte prigioniere, con l’intento di trasferirle il prima possibile a Varna, dove si tenevano giornalmente mercati in cui venivano vendute prostitute.
Assistetti impotente al massacro della mia famiglia da parte dei turchi. Il mio patrigno andò incontro agli ottomani credendo di possedere ancora l’antico vigore della Battaglia di Nicopoli, invece venne passato a fil di spada in meno di un attimo.
Mia madre aveva sbarrato alla bell’è meglio la capanna in cui vivevamo e costretto me e i miei fratellastri in un nascondiglio di fortuna, proprio dietro alla dispensa. Quando i turchi fecero irruzione, lei non ebbe che il tempo di urlare prima di subire la stessa sorte toccata al mio patrigno.
I nostri nemici sapevano che non poteva essere finita così, che altri abitavano quella casa. Giusto il tempo di perlustrarla, e arrivarono a noi. Fëdor piangeva senza ritegno, Paolo pregava e Ivan, il maggiore, stringeva nel pugno un piccolo pugnale, nell’illusione che quello potesse salvarlo dalla furia degli ottomani.
Uccisi i miei fratellastri, presero anche me e mi scortarono fino alla piazzola centrale, dove le altre ragazze del villaggio erano già state radunate e legate.
Nel caos generale capii soltanto che i turchi si sarebbero accampati lì per l’intera giornata e che solo il giorno seguente saremmo ripartiti alla volta di Varna.
A dispetto del profondo vuoto che provavo per l’aver perso mia madre e la mia vita come l’avevo conosciuta fin lì, la mia mente lavorava febbrile alla pianificazione di una via di fuga. Ci avrebbero tenute legate per tutto il restante giorno e nulla ci sarebbe stato dato da mangiare o da bere, di questo ero sicura. Passata la novità, i nostri aguzzini si sarebbero anche stancati di ronzarci intorno coi loro apprezzamenti sconci e avrebbero finito col lasciarci sole e mal custodite, credendoci deboli e troppo spaventate per tentare di scappare.
Attesi il calare della notte per agire. Per tutto il giorno avevo scavato una fossa nella terra con le mani, nascondendola con la gonna quando i turchi erano nei paraggi. La sorte fu dalla mia parte, perché nessuno si accorse della pietra che avevo estratto dal terreno e che usai quella notte per tagliare la corda con la quale eravamo state tutte legate.
Quando le mie compagne di sventure si furono assopite, stremate da quella giornata di terrore senza fine, affamate e infreddolite, ne approfittai per fuggire. I turchi si erano anch’essi assopiti attorno al fuoco che avevano acceso poco lontano da noi, in modo da stare caldi e al tempo stesso controllarci. Uno di loro montava la guardia, ma l’avevo tenuto d’occhio per tutta la sera: aveva bevuto così tanto che di certo dormiva anche lui.
Nel buio della notte, rischiarato appena dalla Luna piena, lo vidi muoversi un poco. Strisciai verso di lui e con la pietra che avevo usato per recidere la fune che mi teneva prigioniera, lo colpii alla testa. Non lo uccisi, questo lo so di sicuro, ma almeno lo tramortii, cosicché non potesse dare l’allarme della mia fuga ai suoi compagni.
Dopodiché scappai a gambe levate verso il bosco e continuai a correre, tra i rumori sinistri delle creature della notte, gli ululati lontani dei lupi e gli scricchiolii delle foglie secche che calpestavo nella mia corsa furibonda e senza meta.
Col passare del tempo la mia corsa rallentò e il mio incedere si fece meno preciso, meno attento alle asperità del sottobosco. Caddi a terra, inciampando in una radice che non ero stata in grado di saltare, complici l’oscurità, la fame e il freddo che mi penetrava le ossa come una lama di coltello. Ansimai, cercando di riprendere fiato, e strisciai fino ad un cespuglio rigoglioso, alla base di un abete particolarmente robusto.
Mi abbandonai contro il tronco dell’albero, seminascosta dal cespuglio, e lì mi addormentai, sperando di essermi allontanata sufficientemente dal villaggio.
La caviglia infortunata pulsava dolorosamente e non ebbi nemmeno il coraggio di tastarla per valutare la gravità della situazione. Semplicemente, distesi la gamba davanti a me e poi dormii. La sorte era stata incredibilmente generosa con me quel giorno, nonostante tutto, e potevo solo sperare che mi assistesse ancora un altro po’.
 
Il mattino successivo fu un rumore di zoccoli a riportarmi alla realtà. Mi accucciai ancora di più sotto il cespuglio, nella speranza di non essere vista, ma il cavallo si arrestò proprio davanti a me e un uomo scese agilmente dalla sella. Erano i turchi venuti a riprendermi? D’istinto pensai che non fossero loro, ma qualcun altro.
Di lui non vedevo che gli stivaletti di ottima fattura, infangarsi tra le radici del sottobosco. Alzai la testa e incontrai gli occhi castani dello sconosciuto, studiarmi con curiosità.
«Salve» salutò, piuttosto sorpreso. Capii che non aveva idea di chi fossi e impercettibilmente tirai un sospiro di sollievo.
Era un bell’uomo, di al massimo trent’anni. Aveva un fisico atletico fasciato da un abito di bella foggia, i capelli castani raccolti in un codino alla base del capo. La mascella scolpita e le labbra carnose conferivano al suo volto un tratto duro e autoritario.
Si accucciò a terra e mi tese la mano, invitandomi ad alzarmi. In quel momento però il dolore alla caviglia era quasi insopportabile e la sentivo pulsare, gonfia e storta. Non dissi niente e non presi quella mano; tant’è che lui la ritrasse.
«Come vi chiamate?» domandò ancora, paziente.
«Katerina» dissi, infondendo sicurezza nel mio tono di voce.
«Che cosa ci fate qui in mezzo al bosco, Katerina?».
Non risposi.
«Non me lo volete dire? Forza, alzatevi da terra!» comandò, alzandosi a sua volta e rassettandosi gli abiti.
«Non posso» sibilai con rabbia. Lo sconosciuto tornò ad accucciarsi e mi chiese nuovamente per quale ragione fossi distesa nel bosco. Allora decisi di dirgli la verità: con molto più trasporto di quanto provassi in realtà, gli narrai il massacro della mia famiglia, la mia prigionia e la fuga nel bosco, fino a quando mi ero storta la caviglia inciampando in una radice.
«Mostratemi» ordinò subito, con la sua voce perentoria di uomo abituato a stare al comando.
Sollevai un lembo del vestito, incapace di non subire il suo atteggiamento autoritario, e fissammo insieme la caviglia gonfia e arrossata che mi doleva.
«Ehm… vediamo cosa possiamo fare per questo…» mormorava lo sconosciuto, parlando più a se stesso che a me. Sembrava titubante.
«Siete un dottore?» domandai, interrompendo i suoi bisbigli.
«Affatto» replicò asciutto, «ma vi voglio aiutare, Katerina».
Mi fissò intensamente negli occhi e usò la Compulsione su di me, benché in quel momento non lo sapessi. Mi ordinò di ubbidirgli, di non avere paura e di non scappare.
Si morse il polso e me lo porse perché bevessi le gocce di sangue che zampillavano dai due netti fori nella carne che si era procurato. Io ubbidii, come poco prima mi aveva ordinato e la mia caviglia, miracolosamente, guarì.
Mi alzai da terra, sporca di fango e trasandata per aver dormito tutta la notte nel bosco.
Mi offrì rifugio a casa sua e io, ancora una volta, lo assecondai.
Cavalcammo fino ad un massiccio podere, quasi un castello, circondato da un grande parco. Fu allora che capii che il mio salvatore era in realtà il vassallo di quelle terre.
Appena varcate le soglie della sua dimora, uno stuolo di servitori si fece avanti aspettando direttive e l’uomo non li fece attendere. Coordinò il lavoro di tutti e fu così che dopo meno di cinque minuti mi ritrovai in una stanza accogliente, con due servette pronte a farmi il bagno e a vestirmi per il pranzo.
Mangiammo in silenzio.
Quando lo sconosciuto ebbe finito la sua faraona, schioccò le dita e due camerieri si fecero avanti. Pensai che avrebbero portato via il suo piatto, invece fecero una cosa per me del tutto inaspettata. La Compulsione del Vampiro mi impedì di urlare o di spaventarmi.
I camerieri arrotolarono le maniche della loro veste fino al gomito, poi presero due coltelli e praticarono del tagli netti nella carne del polso, lasciando gocciolare il sangue in due coppe dorate vicine allo sconosciuto.
Io, dall’altra parte del tavolo, fissavo la scena a bocca aperta e l’uomo fissava me, quasi pensieroso o forse dispiaciuto per qualcosa che non sapevo indovinare.
«Basta così» mormorò poi, con un gesto della mano e i due camerieri si ritirarono.
Bevve dalle coppe a piccoli sorsi, assaporando il sangue dei due poveri uomini. Io lo fissavo ipnotizzata e iniziavo a chiedermi che cosa fosse. Avevo sentito parlare dei Vampiri, ma solo come leggende o piccole storielle tramandate dalla gente per spaventare i bambini; non avevo mai creduto che fossero vere.
«Che faccia avete, Katerina…» osservò l’uomo sorridendomi senza gioia.
«Chi siete?» domandai di rimando.
«Il vassallo di queste terre, chi sennò?».
«Non è questo che intendo».
«Il mio nome è lungo, ufficioso e inutile. Chiamatemi soltanto Nikolaj» continuò, come se non mi avesse sentito.
«Forse allora sarebbe meglio chiedervi che cosa siete».
«Mi sembrate intelligente, Katerina. Sicuramente avrete capito che sono un Vampiro».
«Voi vi nutrite di sangue umano e il vostro sangue cura le persone» osservai.
«Sì, esatto» sospirò Nikolaj senza guardarmi.
«Perché mi avete curata invece che nutrirvi di me?».
«Perché i vostri occhi sono meravigliosi, mia cara Katerina. La vostra bellezza mi ha stregato e vi ho voluta aiutare, in quel momento».
Mi sentii d’un tratto svuotata, indifesa e terribilmente esposta al pericolo. Tentavo velocemente di riflettere sul da farsi, ma la verità è che avevo già, in cuor mio, un desiderio.
 
Quella notte rimasi a lungo a guardare fuori dalla finestra la calma del parco immerso nell’oscurità e le fronde lontane dei boschi oscillare ai soffi di vento; poi presi una candela e uscii dalla camera, girovagando senza meta per il castello.
Capitai in una grande sala, spettralmente illuminata da portefinestre che davano su una terrazza spaziosa. Immaginai per un momento sontuosi ricevimenti e feste in grande stile, tutte cose di cui non sapevo nulla ma che mi affascinavano.
La ricchezza fa proprio questo: affascina; il lusso ammalia e tutto passa da irrilevante a fondamentale, da futile a indispensabile.
Uscii sulla terrazza e spensi la candela. La notte era chiara e la luna piena illuminava d’argento il bosco e si rifletteva sulla parete di pietra del maniero di Nikolaj. Un vento fresco mi scompigliava i capelli e chiusi gli occhi per un momento, beandomi di quella pace.
Ero tranquilla, ora. Di quella tranquillità che deriva dalla consapevolezza e dalla necessità di mantenere la mente sgombra e lucida per compiere il passo verso qualcosa di più grande di noi.
Avete capito bene; avevo un piano.
Come avevo previsto, Nikolaj mi raggiunse in terrazza.
«Non dormite, Katerina? Troppi pensieri per la testa?» domandò, amabile come lo era stato quel mattino.
Io gli davo le spalle e guardavo tre piani più in basso le fioriere poste all’entrata del castello, sporta dalla balaustra di pietra della terrazza.
«Penso alla mia vita» dissi.
«Sembrate triste» osservò lui, facendo un passo verso di me. Mi voltai e lo scoprii più vicino di quanto avessi immaginato; così vicino che potei notare le screziature ambrate delle sue iridi. Nikolaj socchiuse le labbra e si fece ancora più vicino.
Io non mi ritirai.
Quando le nostre labbra si sfiorarono bisbigliai: «rendetemi come voi».
Come avevo immaginato, Nikolaj si ritrasse di scatto, guardandomi quasi col desiderio di aver capito male. Io non distolsi lo sguardo e mantenni i miei occhi fissi nei suoi, determinata.
«Diventare un Vampiro?, è questo che volete, Katerina?» domandò Nikolaj fissandomi con un’intensità tale che mi era difficile sostenere il suo sguardo.
«Sì» dissi, avvicinandomi a lui e prendendogli il volto tra le mani. Quasi non mi rendevo conto del potere che avevo su di lui. Mi guardò, ammaliato e combattuto, tra ciò che suggeriva la prudenza e il desiderio di accontentarmi, di avermi per sé.
Mi allontanai di nuovo, appoggiandomi alla balaustra di pietra, e dissi: «la mia vita finora non è stata che una delusione. E il mio futuro non sarà da meno. Nella migliore delle ipotesi finirò sposata a qualche sconosciuto, in un paio di anni sarò circondata di marmocchi, metà della quale morirà prima di diventare maggiorenne, e poi invecchierò e a mia volta morirò. L’umanità è debolezza, Nikolaj; ecco cosa penso da quando vi ho incontrato. L’ho sempre pensato, a dire il vero, ma voi siete la prova che esiste una via di fuga».
«Lasciate che ve lo dica, state sopravvalutando il mio essere» replicò Nikolaj serio, «l’immortalità potrà ora sembrarvi una benedizione ma guardatemi, Katerina: direste che ho quasi trecento anni? Dopo un po’ il non invecchiare mai, il non mutare, diventa una maledizione. E che dire della brama di sangue che vi consumerà e degli atroci delitti che marcheranno il vostro passaggio! La coscienza della vostra bestialità vi tormenterà per sempre, fino a ché arriverete ad odiare voi stessa. È questo che volete diventare?».
«Io vedo la vostra forza, il vostro fascino immortale e il mondo ai vostri piedi. Potreste decidere di andarvene adesso e nessuno ve lo impedirebbe. Quanto alla brama di sangue, la vedo come un semplice effetto collaterale delle incredibili doti di cui disponete».
Nikolaj mi fissò ancora a lungo, quasi addolorato.
«Farò di voi un Vampiro e una dama, Katerina. Vi istruirò come meritereste e vi insegnerò ad essere un buon Vampiro e voi, in cambio, promettetemi di essermi fedele e di restare con me» disse Nikolaj dopo un po’.
Valutai la sua proposta. Lui mi avrebbe ricoperta di ricchezze e mi avrebbe istruita, cosa a cui non avevo mai pensato prima. Nessuna donna di mia conoscenza sapeva leggere o scrivere.
Ma restare con lui? Davvero volevo passare il resto della mia vita –il ché non era cosa da poco- con lui? Come doveva essere profonda la sua infatuazione per me, per farmi una proposta simile, aveva superato la ragionevolezza.
Accettai, ovviamente.
«Quindi?» domandai, d’un tratto impaziente.
«Quindi cosa?» chiese Nikolaj, avvicinandosi a me con passo felpato, da predatore.
«Come avverrà la mia trasformazione?» chiarii, in un soffio.
Nikolaj sorrise, malizioso.
«Be’ occorre che moriate. Dovreste bere il mio sangue prima, ma l’avete già fatto stamane» spiegò con tranquillità.
Non mi lasciò il tempo di riflettere; mi diede una spinta e il mio corpo volò al di là della balaustra di pietra della terrazza, cozzando a terra e restando là, immobile.







Guest Starring per questo capitolo: Andrew Lees nei panni di Nikolaj Ivanov

  
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