À Demian
Capitolo settimo
Mi dispiace
La linea scura
della grafite, seguendo il percorso della sua mano, si
delineò precisa come una
ferita netta sulla carta spessa da disegno.
Demian ne ascoltava
il rumore, un grattare leggero, un minimo attrito della mina,
piacevole,
confortante. Riusciva a non pensare al dolore affilato che
s’inerpicava su per
le dita e rendeva i movimenti più lenti e scostanti.
Nonostante il male non
voleva aspettare, sentiva che, forse, quello era il momento giusto,
forse
sarebbe riuscito dove aveva fallito costantemente negli ultimi giorni.
La benda lo intralciava,
ma tutto era sopportabile, aiutava a non concentrarsi su altro e Demian
sapeva
di non dover pensare, doveva guardare solo lei, vedere solo lei.
Incastrò tra i
denti la matita che stava utilizzando per poter sfilare la 8B da dietro
l’orecchio, poi iniziò a marcare con
più decisione le zone d’ombra del volto
morbido, la linea sbarazzina del naso. Ripose nuovamente la 8B tra
l’orecchio e
i capelli e passò ancora alla più rigida B, per
sfumarle dolcemente e far risaltare
un punto di luce.
Ogni gesto era
vittima dell’abitudine, Demian si aggrappava
all’istinto come un bambino al
filo di un aquilone e cercava di assecondare il vento per tenerlo
sollevato un
poco, ancora un poco, il tempo di acciuffare l’immagine che
non aveva
definizione e si presentava come una strana, informe idea pronta a
prendere
struttura solo nel momento in cui la mina trovava la sua impressione
sulla
carta. Riusciva ad ignorare il disagio del dolore proprio
perché quell’istinto,
come la voce incantatrice di una sirena, era più forte di
tutto e pretendeva,
con una prepotenza inaccettabile, di essere ascoltato, di diventare
ciò che era
nato per essere.
Strinse la matita
fra i denti e recuperò lo sfumino.
Un tocco leggero,
una carezza soffice alla carta ingiallita, poi interruppe il movimento
e si
fermò ad osservare la figura che andava tratteggiandosi, a
ricercarne i
difetti, a frugare le imperfezioni che l’avrebbero resa
più “lei”. Era sui
difetti che lavorava, erano le mancanze i punti di riferimento a cui si
aggrappava con forza per ricreare un viso, eppure quel volto levigato
lasciava
troppo poco spazio alle imperfezioni con le sue linee dolci e gli occhi
a
goccia da gitana.
Avrei dovuto usare il
carboncino
Lo realizzò
mordendosi la guancia e maledicendosi insieme, ché sarebbe
stato più semplice,
avrebbe potuto sbozzare l’immagine, usare un tratto
più grezzo e impreciso, più
spontaneo e meno ponderato, ma nella concitazione del momento si era
semplicemente limitato ad afferrare il primo astuccio che aveva
trovato, e le
matite erano ciò che ne era uscito.
Ogni suo muscolo si
oppose di fronte alla sorpresa di quello sguardo, inciso su un foglio
eppure
ammaliante del fascino che ammantava la controparte reale.
Arianna aveva degli
occhi incantatori impossibili da afferrare, ed ebbe la sensazione che
non ci
sarebbe mai riuscito, che avrebbe potuto provarci ancora e ancora,
eppure alla
fine non sarebbe giunto ad altro che ad un mero tentativo di avere
quell’anima
tra le sue mani. Avrebbe potuto illudersi, di aver colto la sua
profondità più
oscura, ma si sarebbe solo ingannato.
La ragazza del
disegno forse assomigliava ad Arianna, forse Demian poteva avere
l’ardire di
credere di essere riuscito ad imprimere la sua essenza più
intima, ma sarebbe
stato solo un inganno volto a nutrire il proprio ego.
Mancava ancora
qualcosa.
Mancava una
sfumatura selvaggia in quelle iridi torbide, sporcate
d’innocenza, mancava la
vena maliziosa intrisa di semplicità e purezza.
Con amarezza
realizzò di essere ben lontano dallo stringerla.
Arianna lo guardava
sfrontata e troppo candida persino da un ritratto ricco
d’ingenuità, segnato da
assenze che lo rendevano povero, solo un’immagine vuota.
Eppure, non riusciva a
smettere di ricalcare con la memoria il percorso tondo della mandibola,
l’irriverenza di quel nasino dalla punta appena sollevata
verso il cielo, gli
incisivi infantili leggermente divisi che davano al suo sorriso una
luce nitida
e pulita, chiara di aria tersa in una giornata di primavera. Non
riusciva a
smettere, e quel ricordo si sovrapponeva senza pietà al
disegno e lo sviliva
crudelmente.
Era stato
l’incontro più disarmante della sua vita, eppure
provava della gratitudine
verso quella sconosciuta, destabilizzante ragazzina. Grazie a lei, era
riuscito
a rendere più piccolo e distante il pensiero di maman, a
ridimensionarlo per
infilarlo a forza in qualche scomparto della sua mente a cui potesse
prestare
meno attenzione.
Ed anche se
continuava ad inciamparci, nella consapevolezza di Jenevieve,
dell’ospedale,
del tempo e di Sarah, poi guardava il suo lavoro e Arianna, in un
qualche modo
a lui sconosciuto, riusciva a concorrere per intensità a
tutti i nodi di
pensieri che gli si dibatteva dentro, tutti stretti in
un’unica rete perché non
riuscissero a fuggire e nessuno prevalesse sull’altro.
Abbassò il braccio,
quella mano dolorante ancora sospesa, in dubbio se lasciare ancora un
altro
segno o fermarsi e basta, e accontentarsi di aver quasi sfiorato
un’idea, ché
forse già solo riuscire a percepirla, quell’idea,
era più che sufficiente, era
già troppo.
Era pretendere di
varcare un confine sacro, era credere di poter conoscere la
Fatalità.
E Dem proprio non
sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se sarebbe stato meglio restarsene a
casa o
incontrarla, se avrebbe o meno fatto meglio a chiedere a Julian qualche
consiglio, prepararsi qualche ipotetica domanda da farle per non
restare
completamente in silenzio o, più sensato, qualche risposta.
Si passò la mano
sano sul volto e si stropicciò gli occhi in un vano gesto di
esasperazione.
Stava sguazzando in
fisime allucinanti degne della più scalmanata teenager di
fronte a Jesse
McCartney ma ripetersi da solo, come un mantra, di darsi una calmata
non stava
portando alcun aiuto alla sua causa.
Il suono della
campanella lo riportò bruscamente alla realtà:
l’ora di Figura si era appena
conclusa, e lui aveva bellamente ignorato quello che avrebbe dovuto
essere il
soggetto imposto dal professore.
Il cavalletto di
legno nel centro dell’aula, così vuoto e inutile,
aveva un retrogusto di antico
e abbandono, e Demian lo guardò forse per la prima volta con
il labbro tra i
denti e le palpebre socchiuse. Alcuni esercizi di profondità
erano per lui
estremamente complessi e quasi inutili, motivo per cui tendeva ad
ignorarli: la
sua visione stereoscopica era ridotta e l’astigmatismo, per
quanto non
eccessivo, unito a questo difetto gli rendeva difficile riprodurre
fedelmente
il reale da una certa distanza. Invece, con il volto di Arianna era
stato
diverso, i dettagli si erano incisi a fuoco nella mente in maniera fin
troppo
nitida, poche volte gli era parso di aver percepito tanto chiaramente
qualcosa
o qualcuno al di fuori di Sarah e di maman.
I suoi compagni di
classe avevano raccattato le proprie cose e stavano rapidamente e
disordinatamente abbandonando l’aula per ritornare alla loro,
al secondo piano.
Demian li osservò, una macchia dai contorni un poco sfocati,
poi guardò ancora
Arianna, provò il noto senso di delusione e disillusione e
si decise a
raccogliere il suo materiale e a riporlo finalmente nello zaino.
«Sbaglio o questo non
è un cavalletto?»
Dem alzò pigramente
il viso ed incrociò gli occhi nocciola di Giulia ed il suo
sorriso intenerito
da mamma.
Non sono un cane, non
ho gli occhioni sberluccicosi, non
c’è nessun inutile motivo per cui tu mi debba
guardare così.
Fu tentato di
dirglielo, ma poi avrebbe dovuto dare importanza ad uno sguardo e non
gli
andava. Scrollò le spalle «Perspicace come
sempre» la pungolò con scarsa
convinzione, ed infatti Giulia non si offese, si chinò sopra
la sua spalla e
dedicò tutta la sua attenzione al ritratto.
La sua espressione
mutò rapidamente, da seria ad incantata.
«Wow» la sentì
soffiare piano, corrucciando la fronte senza più aggiungere
altro.
Quel silenzio lo
mise inaspettatamente a disagio, il non sapere se a colpirla era stata
la sua
tecnica o il soggetto di per sé, plausibilissimo dato che la
ragazza sul foglio
tutto era meno che comune.
«Ha degli occhi
incredibili, ma sembrano… finti. Come le immagini dei
cartelloni pubblicitari o
cose così. Non sono troppo irreali?»
Demian accennò un
sorriso, perché almeno Giulia gli aveva appena confermato
che non era un pazzo
fissato, che gli occhi di Arianna erano davvero particolari, fuori dal
comune.
E tuttavia, quel tratto finto che la compagna aveva colto era
probabilmente da
imputare alla vuotezza che proprio non gli riusciva di colmare con la
sua arte,
e questa verità era svilente.
«È davvero bella.
Forse, mhm, la spalla. Non è troppo ossuta?»
continuò a valutare ancora Giulia
fregandosi il mento tra pollice e indice. Aveva abbandonato
completamente la
veste della reticente, timida fanciulla per calarsi nei panni della
studentessa
di arte dall’atteggiamento critico, un riflesso naturale dopo
più di un anno di
lavaggio del cervello sull’importanza delle proporzioni e il
dramma degli occhi
a forma di “olive schiacciate”.
Era un modo di
porsi comune, e se per primo si fosse trovato di fronte ad una simile
immagine
avrebbe avanzato la medesima osservazione. Il problema era che Arianna
era
veramente troppo magra, gli pareva quasi miracoloso che il suo apparato
muscolare così rarefatto riuscisse a tenerla in piedi,
sembrava avesse solo
pelle sulle ossa.
Bravo, mi sembra
giusto, ragiona anche tu come se stessi
guardando un modellino in scala invece di una persona.
«Lo so. Ma volevo
restare fedele all’originale»
«Oh» si lasciò
sfuggire la compagna, con una vaga inclinazione di delusione che
però scomparve
subito «Hai più sentito Barbi? Abitiamo vicini, ma
è da una settimana che non
viene a scuola e non lo vedo»
Il rapido cambio di
argomento lo spiazzò un istante, non gli era chiaro
perché Giulia avesse
interrotto la sua analisi, ma forse doveva essere stato un brutto colpo
all’autostima sapere che Arianna esisteva davvero, eccome, e
non sapeva cosa
significasse la parola silenzio tra l’altro. Ci mise quel
momento più del
dovuto, per registrare la nuova domanda.
«Perché avrei
dovuto?» aveva risposto d’istinto, senza
riflettere, senza nemmeno associare un
volto a quel nome. Poi però, in pochi secondi
ripescò i ricordi della settimana
precedente, del ragazzino rachitico e di quel favore che avrebbe dovuto
fargli.
Che avrebbe dovuto,
ma che aveva scordato.
Lo aveva scordato
perché aveva incrociato Arianna.
«Beh, mi ha detto
che lo hai aiutato, che non sei così male» gli
stava spiegando Giulia nel
mentre, il volto decorato da quel suo sorriso fiacco e timido.
Riuscì a farlo
vergognare e mentre deglutiva la saliva gli rimase come un pesante
groppo in
gola.
Non lo ho aiutato, mi
sono dimenticato di lui.
Ho visto quella
sconosciuta e ho visto Elena e sono
scappato.
Non solo non si era
presentato all’incontro, soprattutto si era fatto travolgere
dalla propria
egoistica vena creativa e aveva spento il cellulare, per cui si era
reso
impossibile da rintracciare e magari Frankenstein si era anche
presentato
all’appuntamento, ma se anche Alex l’avesse
incontrato al suo posto, non aveva
avuto comunque modo di contattarlo per poterlo avvisare.
Sperò di non aver
messo Barbi in guai, se possibile, ancora più grandi.
«Tu hai il suo
numero, giusto?»
«S-sì, ci
conosciamo da quando siamo piccoli»
Demian accese il
cellulare per farselo dettare e questo iniziò a vibrare
inoltrandogli tutti i
messaggi ignorati nell’ultima settimana di eremitaggio.
Bastava solo il
pensiero di doverli leggere tutti a fargli desiderare di spegnere di
nuovo quel
dannato apparecchio e magari di sparire per altri sette giorni. Se
avesse osato
però, quasi sicuramente si sarebbe ritrovato fuori casa
vigili, carabinieri,
pompieri e quant’altro.
Meglio non giocare
troppo con l’apprensione della zia
Con un sospiro
rassegnato ignorò la cartellina lampeggiante dei
“messaggi ricevuti”, si limitò
a salvare subito il numero di Barbi in rubrica e a inviargli un
messaggio per
sapere dove fosse, come stesse e di chiamarlo immediatamente se
Frankenstein
gli aveva creato qualunque problema.
Per quanto lo
ritenesse assurdo e cercasse di convincersi che non era
così, si sentiva
responsabile di quel ragazzino, sapeva di aver peggiorato in qualche
modo la
sua situazione intromettendosi e si sentì improvvisamente in
colpa, quasi a
tradimento.
Giulia lo stava
guardando, intimidita, e Demian realizzò che erano rimasti
solo loro, lo stava
aspettando. Si concentrò sul suo viso ordinario, piccolo,
gli occhi dal taglio
pigro e i capelli tirati indietro da una fascia fucsia che mostrava la
fronte
bassa e liscia e i tratti regolari del naso. Si era truccata in modo
leggero e
fine, rispetto alla volta precedente, il delicato tocco di perla dava
più luce
ai suoi occhi scuri.
Infilò il disegno
nella cartelletta, ripose tutto nello zaino e si alzò
abbozzando un sorriso
verso la piccola ragazza che gli arrivava poco sotto la spalla.
«Così stai meglio»,
commentò semplicemente, per rimediare forse inconsciamente
alla scortesia che
le aveva dimostrato. Non chiarì a cosa si riferisse e non ce
ne fu bisogno, Giulia
doveva aver capito, perché arrossì abbassando il
capo e mormorò un “grazie”
impacciato dalla vergogna.
Si avviarono insieme
verso la loro classe, Demian ad un tratto si rese conto della completa
mancanza
di disagio nell’avere Giulia accanto come fosse davanti ad
una rivelazione
dalla portata immensa: era una presenza discreta e tranquilla, serena
come la
placida superficie di uno stagno, un’acqua cheta
eccessivamente timida.
Era difficile,
provare un desiderio di accanimento di fronte a qualcuno dalla
personalità
tanto buona da sembrare persino fin troppo manipolabile. Non se ne era
reso
conto, in quel primo incontro, eppure ora lo sentiva con una certezza
quasi
presuntuosa: Giulia era il tipo di persona disponibile al punto che per
affetto
si sarebbe perfino abbassata ad un livello secondo lui umiliante.
La sua discrezione
poi la rendeva piacevole, per nulla invadente.
«Era la tua
ragazza?» sussurrò lei, prendendosi le mani come
non sapesse che farne.
Eh, come non detto.
Demian la squadrò
dall’alto e si rimangiò tutti i bei pensieri
appena formulati.
«No»
La risposta secca e
brusca fece sussultare Giulia, che però si lasciò
sfuggire un sospiro dalla
sfumatura sollevata.
«Però deve piacerti
molto» insinuò, forse per tastare la sua reazione.
Dem ci rifletté un
momento, scavando in maniera superficiale le impressioni che lo avevano
colpito
alle spalle quando aveva parlato con Arianna, alla ricerca di una
definizione
che ponesse fine alla curiosità della compagna di classe.
La verità era che trovava
Arianna bella in modo imprevisto e per lui evidentemente fatale, ma se
ci
rifletteva, doveva trattarsi solo di questo, di un capriccio estetico
perché
questo era tutto ciò che aveva conosciuto di lei.
«È bella»
constatò,
ma non si sentì soddisfatto da quella conclusione, la
trovava riduttiva,
suonava inappropriata, non bastava a coprire ogni gradazione del suo
turbamento.
Accompagnò le
proprie parole con una smorfia di disappunto che fece ridacchiare
Giulia.
«Oh Demian, dovrai
superare questa cosa del non riuscire mai a parlare, lo sai? Ho
l’impressione
che dici sempre ciò che non pensi, solo perché
credi sia la cosa giusta da dire»
Erano giunti sulla
porta della loro classe e Giulia, prima di accomiatarsi, gli
dedicò un altro
sorriso colmo d’indulgenza e tenerezza «S-senti,
credo di aver capito che sei
un po’ un caso perso, ma io non riesco a vederti terribile.
Se…. Non lo so, se
avessi bisogno di una mano, anche con la tua bella, puoi sempre
chiedermi tutto
quello che vuoi. Un parere femminile magari ti è
d’aiuto»
Le sue guance
raggiunsero lo sgargiante colore della sua fascia per capelli fucsia,
lo
congedò con un goffo cenno della mano e si
precipitò dalle sue due amiche oche.
Demian invece
rimase immobile, a ponderare quelle parole e la purezza
dell’intenzione, una
disponibilità regalata con troppa ingenuità e che
pure, in sé, portava qualcosa
di quasi commovente.
Non gli dispiaceva,
Giulia, pensò che probabilmente, fuorviato dal suo malumore,
l’aveva giudicata male,
aveva reagito sulla difensiva e lei invece desiderava solo potergli
parlare.
Certo, il giorno del loro primo incontro non era stato un buon giorno,
questo
però doveva aver influito troppo sulla sua
capacità di giudizio perché ora
pensava che avrebbe potuto parlarci ancora, averci un rapporto civile.
Con uno sbuffo
sconfortato raggiunse il suo banco.
***
Demian aveva perso
la cognizione del tempo trascorso a tormentarsi la benda della mano
come fosse
il suo più acerrimo e fastidioso nemico, ma per quanto ogni
minuto era pesato
doveva essere passato come minimo un quarto d’ora.
Nonostante tutti i
tentennamenti da fanciulla innocente al primo appuntamento, alla fine
era sceso
a patti con se stesso e aveva deciso di presentarsi
all’incontro.
Certo, essere
arrivato con mezz’ora d’anticipo l’aveva
fatto sentire un cretino, ma mai
quanto il successivo appostamento davanti all’ingresso con
tanto di marcia
avanti-indietro come il peggiore degli avvoltoi. Le quattro erano
passate da
molto, eppure di Arianna non c’era la minima traccia e Dem
era scisso tra il
sospiro di sollievo che premeva in gola per uscire e la profonda
indignazione
per la buca appena ricevuta.
Si sentiva
umiliato, per tutta la mattinata si era tormentato inutilmente ed ora,
invece
di continuare a tenere quell’atteggiamento scanzonato da figo
che in realtà
celava più disagio che altro - appoggiato alla parete con il
cappuccio
sollevato, i capelli nascosti nella berretta nera e le cuffie nelle
orecchie-,
avrebbe voluto prenderlo a testate, il muro.
Giusto per punirsi
un poco per la propria semplicità infantile che
l’aveva portato davanti
all’ospedale ad aspettare qualcuno che non si sarebbe
presentato.
Le ultime ore di
scuola erano state infinite, aveva avuto la percezione distorta che il
tempo
non stesse assolutamente scorrendo. Anzi, pareva ostinato a restare il
doppio
del solito su ogni minuto, rendendogli l’attesa un inferno.
In quella
sospensione temporale in cui il suo cervello si era dato
all’apnea, solo l’ora
di Figura era stata di un qualche sollievo, mentre tutti gli altri
tentativi di
riempire uno spazio vuoto si erano rivelati fallimentari.
Quando si era reso
conto di aver riletto dieci volte la stessa pagina senza aver
assimilato
neanche una frase, aveva gettato la spugna e si era lasciato scivolare,
senza
più opporsi, in uno stato vegetativo deprimente.
D’altro canto, se “Notti
Bianche” non era stato una lettura sufficiente a risvegliare
i suoi sensi,
nulla sarebbe servito alla sua causa.
Con le spalle
contro il muro e gli occhi intrecciati ai sampietrini, Demian
provò una strana
sensazione, un’analogia tra se stesso e il libro che aveva
abbandonato sul
banco di scuola poche ore prima. Forse era in quel modo che si era
sentito
l’anonimo protagonista nell’aspettare pazientemente
ogni sera la comparsa di
Nasten’ka, forse era quello il sentimento disperato della
ricerca di un raggio
di sole a cui aggrapparsi quando si era in mezzo ad una tempesta, come
un
singulto affranto che strinava la gola per gridare aiuto, per
assicurarsi alla
vita.
Un brivido scivolò
con una scarica elettrica nei muscoli, percorrendo ogni terminazione
nervosa
per permettergli di percepire a fondo l’angoscia.
Ti stai facendo
suggestionare troppo.
Ti stai attaccando non
a lei, ma all’idea che ti sei
fatto di lei, al tuo inutile bisogno.
Eppure, quel
bisogno doveva necessariamente soddisfarlo, aveva la
necessità primaria di un
momento d’illusione, di una beatitudine fittizia che poi
sarebbe anche potuta
svanire, ma almeno gli avrebbe concesso il tempo di risollevarsi.
Doveva crederci,
che fosse possibile, doveva convincersi che Arianna fosse la
possibilità di una
distrazione felice, e paragonarla a Nasten’ka non gli portava
alcun conforto,
non conoscendo il finale del racconto.
Smise di
giocherellare con il bordo della garza quando la chitarra di
“Sometimes I Feel
Like Scremiang” venne sostituita da una pianola dalla
dolcezza nauseante.
Recuperò subito l’mp3 dalla tasca del giubbino e
stoppò “Reality”
immediatamente.
Julian gli aveva
portato quel piccolo aggeggio dall’America come regalo,
Demian alla fine lo
aveva aperto quel pomeriggio, per distrarsi, e aveva trovato un
biglietto del
cugino che sosteneva fosse più pratico del suo Lettore CD e
che aveva
provveduto lui stesso a riempirlo delle sue canzoni preferite.
Provò l’immenso
desiderio di strozzarlo: la colonna sonora de “Il tempo delle
Mele” decisamente
non era una delle sue canzoni preferite.
Si guardò
rapidamente intorno, quasi temendo di essere stato colto in flagrante
ad
ascoltare un brano tanto smielato e imbarazzante, ma si
tranquillizzò subito
costatando – con una certa amarezza, doveva ammetterlo
– che non c’era nessuno.
Proprio nessuno.
La sua, di
Nasten’ka, era persino peggiore della controparte cartacea,
non aspettava la
quarta notte per scaricarlo, evitava direttamente di presentarsi alla
prima.
Demian guardò la punta delle scarpe da ginnastica, si morse
il labbro e pensò
che, probabilmente, al posto di lei nemmeno lui si sarebbe fatto vivo.
Il cellullare
segnava già le quattro e venti, ma decise di provare
ugualmente a concederle il
beneficio del dubbio per un altro quarto d’ora,
ché forse era davvero solo in
ritardo, anche se questo avrebbe contraddetto l’affermazione
di Arianna
sull’odiare i ritardatari.
Credere che si
sarebbe presentata avrebbe lenito l’umiliazione che lo
tormentava.
Nel frattempo,
cambiò canzone e scrisse a Julian
Demian
Reality? Sto
seriamente pensando di pestarti, per questo.
9/10/2001
16:20
Poi si guardò
attorno ancora ma, non vedendola all’orizzonte si arrese,
decise di attenderla
nell’atrio dell’ospedale, al caldo.
Scivolò lentamente in una delle seggiole di
plastica blu legate insieme, e pensò che forse erano ancora
meglio quelle del
reparto di Oncologia, ché la finta pelle anallergica a
confronto era velluto.
Il cellulare vibrò,
il nome del cugino faceva capolino sullo schermo.
Jules
Ahahah non mentire,
tanto lo so che in realtà la stai ascoltando stringendo Lala
fra le tue
braccia! L’ho scelta con amore! XD
9/10/2001
16:24
Ecco dove vuole andare
a parare quell’idiota. E ti pareva
se non tirava in mezzo il cane.
Demian
Sei un cazzone e ti
prenderei a pugni… con tanto amore s’intende
9/10/2001
16:26
Jules
Non hai senso
dell’umorismo =)
9/10/2001
16:30
Sono quasi totalmente
sicuro che sia il tuo senso
dell’umorismo a fare schifo
Era passato il
tempo che aveva pattuito con se stesso, e di Arianna alla fine non
c’era
comunque traccia, perciò si rassegnò a tornarsene
a casa.
Potrei sempre andare
da Jules a rendergli il pugno
promesso.
Fece per alzarsi
quando lo sguardo gli cadde sulla schiena di una donna seduta in
attesa,
proprio come lui, due file di sedie più avanti. I capelli
erano di un biondo
slavato, raccolti in un disordinato chignon, le spalle ricurve davano
l’impressione di un’eccessiva stanchezza e il
picchiettare impaziente del suo
piede destro, mentre si mangiava un’unghia, era un indice
sufficiente della sua
ansia. Demian aveva avuto la sensazione di conoscerla, ma ci mise
qualche
istante a realizzare che si trattava della medesima persona trafelata
che aveva
attirato la sua attenzione e quella di tutte le infermiere la settimana
passata, prima che Elena entrasse nel suo campo visivo e lo distraesse,
ovviamente.
La osservava e ne
provava tristezza e tenerezza insieme, doveva trattarsi di una madre,
una di
quelle vere, che senza i propri figli non sanno respirare, che sanno
amarli
come e più di loro stesse.
Demian era sempre
stato affascinato, da quel tipo di madre che sa fare la madre.
Avrebbe voluto
vedere quell’ansia, quell’apprensione, rivolta
anche lui, avrebbe voluto vedere
maman dedicargli quel tipo di amore, qualche volta. Ma maman era una
madre che
dava spazi, anche troppi, che concedeva errori anche quando erano
troppo grandi
e non si sarebbero dovuti compiere.
Lei non si rendeva
conto della portata della sua tolleranza, così eccessiva da
trasformarsi in
indifferenza.
«Pensavo non
saresti tornato oggi» la voce dolce di Marisa lo costrinse a
riscuotersi. Si accigliò
un attimo, non cogliendo a cosa si riferisse, poi si lasciò
sfuggire un’altra
smorfia, un piegarsi scontento di labbra che non avrebbe voluto
condividere ma che
era stato troppo istintivo per essere comandato.
Anche io
Però, non lo disse.
Abbassò gli occhi e
si sentì ancora bambino, davanti ad una donna che non era
mai riuscito a
guardare davvero in volto, per paura, perché lei in certi
momenti non era più
“Marisa”, mutava in qualcos’altro,
diventata il suono di ciò che non aveva la
forza di ascoltare.
«Come ti senti,
tesoro?»
Come in un
déjà-vu, come quando mi guardavi in silenzio e
non avevi nulla da dirmi. Come quando a malapena mi sfioravi, come se
con il
semplice tocco avessi potuto trascinarti nel mio abisso insieme a me, e
speravi
che quel tuo disagio io non lo vedessi.
Era una brava
donna, si era sempre presa responsabilità che non le
competevano, solo per
amicizia verso Jenevieve, per un senso del dovere che probabilmente era
stato
pesante quanto un macigno. Demian si arrabbiava a volte,
perché lei non aveva
fatto di più, ma poi si crogiolava nel calore della sua
infanzia e allora il viso
di Marisa tornava ad essere un’immagine gentile e
rassicurante, una signora che
l’aveva coccolato di dolci e viziato di cioccolate, che era
rimasta seduta
accanto a lui in silenzio ogni volta che maman aveva degli esami e lui
rimaneva
ad attendere da solo, senza aver nulla da fare e senza poter capire
davvero la
situazione.
Le voleva molto
bene e non desiderava biasimarla, né sfogare su di lei la
propria frustrazione.
«Sto bene. Dovevo
solo… assimilare la notizia» accennò un
sorriso debole velato di colpa. In
quella manciata di parole aveva raccolto tutta la sua ipocrisia,
ché in realtà
non aveva la minima intenzione di assimilarla, aveva deciso che
l’avrebbe
ignorata e basta.
Avrebbe ignorato
Jenevieve come se non fosse mai esistita, e forse sarebbe stato meglio
dopo,
forse sarebbe riuscito ad abituarsi prima a quando non fosse
più esistita
davvero. Arianna era parsa un buon compromesso: una bellezza che
riusciva a non
lasciarlo indifferente ed una personalità che riempiva bene
gli spazi. Sembrava
il lenitivo perfetto, ma era una possibilità sfumata in
partenza e dissolta con
la stessa rapidità con cui si era formata.
Questo rifiuto
senza possibilità di replica non si era limitato a ferire il
suo orgoglio, gli
aveva lasciato addosso anche un’inspiegata amarezza, la vaga
percezione di aver
appena perso qualcosa di bello senza una ragione.
Non riusciva a
capire perché, se la sua intenzione era quella fin dal
principio, Arianna gli
avesse chiesto di vedersi neanche fosse una questione fondamentale.
«Le hai parlato?»
A maman non ad
Arianna. Concentrati, Crétin!
«Non mi va»
In sottofondo, restava lo snervante ticchettare
del piede
della signora bionda che ora iniziava a seccarlo.
«Posso chiederti cosa aspetta quella
donna? L’ho
riconosciuta, anche settimana scorsa era qui»
Non era veramente interessato né
curioso, semplicemente la
nevrotica sconosciuta gli era parsa il miglior pretesto per distogliere
l’attenzione da sé e da quell’argomento
spinoso che era più che deciso a non
toccare più. Marisa seguì il suo sguardo e si
soffermò a sua volta sua quella
figura fragile prima di liberare un sospiro.
«È una brutta storia. Sembra
che suo figlio sia stato preso
di mira da un gruppo di ragazzi, forse è un caso di bullismo
ma anche fosse, si
è rifiutato di parlare quindi c’è poco
da fare. Comunque l’hanno conciato per
le feste, povero ragazzo.»
Marisa inclinò il capo verso di lui e
gli regalò un sorriso
dolce e materno «Anche se ha la tua età,
è così mingherlino che, quando l’ho
visto, mi ha ricordato di quando eri bambino»
Demian deglutì a vuoto mentre
un’idea, che in realtà era solo
consapevolezza, si faceva strada dentro di lui.
«È straniero? Biondo, piccolo
di statura?»
Marisa aggrottò la fronte e
abbassò le palpebre in quella sua
espressione indagatrice troppo poco severa perché potesse
davvero avere effetto
«Lo conosci forse?»
«Puoi dirmi il reparto e la
camera?»
«Non mi hai
risposto»
«Nemmeno tu»
Demian cercò
d’imprimere nei propri occhi tutta l’urgenza che
stava provando, un nuovo nodo
allo stomaco alla sua infinita lista di sensi di colpa che sperava
davvero
l’infermiera potesse scorgere leggendo tra le righe.
La vide esitare,
portarsi alla fronte la mano segnata dal lavoro e
dall’età, sospirare e
arrendersi come faceva sempre, con una rassegnazione che sapeva sempre
di un
“almeno questo te lo devo” che Dem non sapeva
spiegarsi.
«Non voglio sapere
perché è così importante. Sai come
funziona, cerca di essere discreto»
Con il suo tatto
dovuto probabilmente ad una vita dedicata alla cura degli altri, Marisa
si
risparmiò qualunque domanda inopportuna,
l’esperienza le aveva insegnato tutto,
Demian lo percepiva ogni volta che l’infermiera arriva fin
quasi a toccare un
suo limite, limite che lo avrebbe spinto a ritrarsi, e si fermava da
sola.
Prima di avviarsi
al padiglione dove era stato ricoverato il ragazzo, per
un’ultima, amara volta,
si soffermò sull’orologio dell’atrio,
giusto per avere un’ulteriore conferma
che fossero le quattro e quaranta e che Arianna, evidentemente, non si
sarebbe
più presentata.
Maximilian Aderca
Era quello il suo
nome.
Non c’erano margini
di dubbio, dal vetro della porta Demian lo vide seduto nel suo lettino
bianco,
con la schiena irrigidita e il capo fasciato, e lo riconobbe.
Quello era davvero
il ragazzino che avevano picchiato lui e i suoi amici, e gli bastava
un’analisi
veloce per capire che lo avevano ridotto male. Bussò piano
prima di aprire la
porta, e Max volse il capo nella sua direzione con lentezza esasperante
ed una
smorfia che gridava quanto ogni movimento gli costasse dolore.
Demian vide la sua
espressione perplessa trasformarsi in terrore, gli occhi grandi per
quel viso
smunto dilatarsi, e gli sembrò quasi di tornare a quella
sera, davanti ad una
creatura così piccola e spaurita, un animaletto selvatico in
trappola.
«Tu sei quell’albino
di merda, sei uno di loro. Perché sei qui? Non ho detto un
cazzo a nessuno» il
tono era ostile, ma la voce soffiata, leggera, e le parole articolate
male a
causa del bendaggio che limitava i movimenti della bocca. Doveva
costargli
fatica anche parlare, con quel pugno la mandibola, se non
gliel’aveva rotta,
gliel’aveva almeno slogata.
Sollevò le mani in
un gesto di resa e abbozzò un tentativo di sorriso cordiale
«Volevo sapere come
stavi» mormorò, e si vergognò di se
stesso e della propria sfacciataggine. Non
sapeva nemmeno lui dove aveva trovato il coraggio di presentarsi ancora
davanti
a quel ragazzo, dove risiedeva la faccia tosta che gli aveva permesso,
proprio
a lui che era il colpevole di quella sua condizione penosa, di porgli
una
simile domanda.
Decise però di
andare fino in fondo, per una volta.
«E…» non
riuscì a
sostenere quegli occhi, di un azzurro completamente diverso dal suo,
vivo e
vivido, senza cedimenti, e per questo le parole gli morirono in gola.
il
silenzio colmo di attesa e quello sguardo, lo sguardo di qualcuno che
si
trovava di fronte ad un incubo incarnato che sperava potesse dileguarsi
presto,
erano demotivanti «E volevo chiederti scusa.
Veramente»
Si sentì
d’improvviso più leggero, privato di un peso che
non si era reso conto di star
portando fino a quel momento.
Non si aspettava
nulla da Max, assolutamente nulla, ma essere lì in quella
stanza era
sufficiente, perché per una volta stava affrontando la
conseguenza di un suo
errore e, anche se non c’era alcun modo di rimediare, sapere
di non star
scappando con la coda fra le gambe lo faceva sentire meno vile.
Per una volta, non
si stava disprezzando, per una volta stava pensando che, magari,
c’era ancora
qualcosa di salvabile in lui.
«Dalle sei alle
otto settimane solo per la mandibola. Un mese e mezzo di gesso al
braccio,
frattura scomposta. Tre costole incrinate, trauma cranico. Non sto bene
stronzo»
sibilò Maximilian con ritrovato coraggio «Se pensi
che ti perdono non hai
capito un cazzo. Quando esco, lo giuro che ti troverò, a te
e a quei figli di
puttana dei tuoi amici, e vi faccio ingoiare i denti a calci in
faccia» la
rabbia e il rancore trasparirono con tale forza che Demian
deglutì a stento e
provò l’impulso di andarsene.
Non per la
minaccia, da quel corpicino spezzato non perveniva nemmeno volendo un
senso di
pericolo, e poi ne aveva ricevute così tante nella sua vita
che difficilmente
potevano riuscire a sfiorarlo, ma l’odio era
un’altra cosa.
L’odio, in una
forma così autentica e sentita, lo spaventava, non sapeva
come muoversi su un
terreno tanto ostile, né era sicuro di averne il diritto
solo per sentirsi un
poco meglio.
Avrei dovuto lasciarlo
andare. Non avrei mai dovuto
fermarlo.
È colpa
mia, se è conciato così.
J'ai
été stupide
«È equo. Mi sembra
giusto, non proverò nemmeno a fermarti, potrai restituirmi
tutto con gli
interessi. Ma tornerò a trovarti»
riuscì a sostenere quegli occhi limpidi di
acqua fresca e ad accennare un sorriso più sincero davanti
allo sconcerto di
Maximilian.
«Oltre che albino
sei pure scemo? Sparisci, io qui non ti ci voglio più
vedere» lo sconcerto
aveva fatto esitare il ragazzino, era suonato meno duro di quanto non
avrebbe
voluto, probabilmente, e a quell’esitazione Demian si
aggrappò con sollievo.
«Sono Demian
Lemaire, Scuola d’arte Fantoni, secondo anno corso C. Dillo
pure ai tuoi amici,
così sapranno dove trovarmi» gli diede le spalle a
alzò la mano in un gesto di
commiato «Ci vediamo, verrò presto»
Ignorò i numerosi e
coloriti improperi che Maximilian gli lanciò, neanche
fossero oggetti
contundenti pronti a ferirlo, e se ne andò a testa china.
Cosa ti aspettavi, che
ti perdonasse?
Pensavi davvero di
poterti redimere così facilmente?
Che bastasse
così poco?
In momenti di
lucidità come quello, quando riusciva a guardarsi
dall’esterno, come stesse
contemplando non se stesso ma la vita di qualcun altro, riusciva a
vedersi
nella sua interezza, e allora poteva distinguere con chiarezza il
circolo
vizioso nella quale era scivolato, a riconosceva razionalmente la falla
nel
sistema della sua vita. Il suo però era un impulso acquisito
dopo anni di
abitudine e svilimento personale, era una falla che non riusciva ad
aggiustare.
Si scavava la fossa
da solo, più si svalutava più era portato a
commettere gesti che lo portavano a
svalutarsi ulteriormente.
Il breve incontro
con Max lo aveva sfibrato, pensò a casa sua, a come si
sarebbe affogato nel
divano con Lalami stesa addosso e una birra in mano magari, a guardare
qualche
film sciocco che avrebbe potuto distrarlo, perché di questo
andava avanti, di
distrazioni. Ogni cosa che lo circondasse era una forma di distrazione
che gli
permetteva di continuare a trascinarsi, e supplizio il tempo che
trascorreva in
attesa dell’uno o dell’altro passatempo.
A guardarsi ora,
provava quasi pietà per se stesso.
Passò per l’atrio
del padiglione centrale solo per poter salutare Marisa, poi
uscì nuovamente
all’aperto, ad occhi chiusi, ad ispirare un’aria
fredda satura dell’aroma
dell’autunno, un ultimo barlume di calore crepitante
catturato dalla natura e
rilasciato dalla terra come un estremo spasmo di vita.
«Ehi ciao! Speravo
tanto che avresti aspettato»
Al suono di quella
voce trafelata, Demian spalancò gli occhi. Istintivamente si
portò una mano al
viso a proteggere le iridi chiare, investite dall’improvvisa
luce che aveva
trasformato il mondo in un informe macchia gialla e i contorni delle
sue dita
in infuocate linee rosse. La macchia si ritirò lentamente,
delineando un volto
estraneo eppure noto come avesse trascorso ogni giorno contemplandone
il
candore.
Una goccia di
sudore sulla fronte, il fiato ancora un poco pesante ed un sorriso che
mangiava
tutto il resto con il suo splendore soverchiante.
Avresti dovuto
saperlo, idiota.
Guardala, lei compare
solo quando non la aspetti.