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Autore: lady igraine    05/03/2017    0 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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À Demian


Capitolo settimo

Mi dispiace


La linea scura della grafite, seguendo il percorso della sua mano, si delineò precisa come una ferita netta sulla carta spessa da disegno.

Demian ne ascoltava il rumore, un grattare leggero, un minimo attrito della mina, piacevole, confortante. Riusciva a non pensare al dolore affilato che s’inerpicava su per le dita e rendeva i movimenti più lenti e scostanti. Nonostante il male non voleva aspettare, sentiva che, forse, quello era il momento giusto, forse sarebbe riuscito dove aveva fallito costantemente negli ultimi giorni.

La benda lo intralciava, ma tutto era sopportabile, aiutava a non concentrarsi su altro e Demian sapeva di non dover pensare, doveva guardare solo lei, vedere solo lei.

Incastrò tra i denti la matita che stava utilizzando per poter sfilare la 8B da dietro l’orecchio, poi iniziò a marcare con più decisione le zone d’ombra del volto morbido, la linea sbarazzina del naso. Ripose nuovamente la 8B tra l’orecchio e i capelli e passò ancora alla più rigida B, per sfumarle dolcemente e far risaltare un punto di luce.

Ogni gesto era vittima dell’abitudine, Demian si aggrappava all’istinto come un bambino al filo di un aquilone e cercava di assecondare il vento per tenerlo sollevato un poco, ancora un poco, il tempo di acciuffare l’immagine che non aveva definizione e si presentava come una strana, informe idea pronta a prendere struttura solo nel momento in cui la mina trovava la sua impressione sulla carta. Riusciva ad ignorare il disagio del dolore proprio perché quell’istinto, come la voce incantatrice di una sirena, era più forte di tutto e pretendeva, con una prepotenza inaccettabile, di essere ascoltato, di diventare ciò che era nato per essere.

Strinse la matita fra i denti e recuperò lo sfumino.

Un tocco leggero, una carezza soffice alla carta ingiallita, poi interruppe il movimento e si fermò ad osservare la figura che andava tratteggiandosi, a ricercarne i difetti, a frugare le imperfezioni che l’avrebbero resa più “lei”. Era sui difetti che lavorava, erano le mancanze i punti di riferimento a cui si aggrappava con forza per ricreare un viso, eppure quel volto levigato lasciava troppo poco spazio alle imperfezioni con le sue linee dolci e gli occhi a goccia da gitana.

 

Avrei dovuto usare il carboncino

 

Lo realizzò mordendosi la guancia e maledicendosi insieme, ché sarebbe stato più semplice, avrebbe potuto sbozzare l’immagine, usare un tratto più grezzo e impreciso, più spontaneo e meno ponderato, ma nella concitazione del momento si era semplicemente limitato ad afferrare il primo astuccio che aveva trovato, e le matite erano ciò che ne era uscito.

Ogni suo muscolo si oppose di fronte alla sorpresa di quello sguardo, inciso su un foglio eppure ammaliante del fascino che ammantava la controparte reale.

Arianna aveva degli occhi incantatori impossibili da afferrare, ed ebbe la sensazione che non ci sarebbe mai riuscito, che avrebbe potuto provarci ancora e ancora, eppure alla fine non sarebbe giunto ad altro che ad un mero tentativo di avere quell’anima tra le sue mani. Avrebbe potuto illudersi, di aver colto la sua profondità più oscura, ma si sarebbe solo ingannato.

La ragazza del disegno forse assomigliava ad Arianna, forse Demian poteva avere l’ardire di credere di essere riuscito ad imprimere la sua essenza più intima, ma sarebbe stato solo un inganno volto a nutrire il proprio ego.

Mancava ancora qualcosa.

Mancava una sfumatura selvaggia in quelle iridi torbide, sporcate d’innocenza, mancava la vena maliziosa intrisa di semplicità e purezza.

Con amarezza realizzò di essere ben lontano dallo stringerla.

Arianna lo guardava sfrontata e troppo candida persino da un ritratto ricco d’ingenuità, segnato da assenze che lo rendevano povero, solo un’immagine vuota. Eppure, non riusciva a smettere di ricalcare con la memoria il percorso tondo della mandibola, l’irriverenza di quel nasino dalla punta appena sollevata verso il cielo, gli incisivi infantili leggermente divisi che davano al suo sorriso una luce nitida e pulita, chiara di aria tersa in una giornata di primavera. Non riusciva a smettere, e quel ricordo si sovrapponeva senza pietà al disegno e lo sviliva crudelmente.

Era stato l’incontro più disarmante della sua vita, eppure provava della gratitudine verso quella sconosciuta, destabilizzante ragazzina. Grazie a lei, era riuscito a rendere più piccolo e distante il pensiero di maman, a ridimensionarlo per infilarlo a forza in qualche scomparto della sua mente a cui potesse prestare meno attenzione.

Ed anche se continuava ad inciamparci, nella consapevolezza di Jenevieve, dell’ospedale, del tempo e di Sarah, poi guardava il suo lavoro e Arianna, in un qualche modo a lui sconosciuto, riusciva a concorrere per intensità a tutti i nodi di pensieri che gli si dibatteva dentro, tutti stretti in un’unica rete perché non riuscissero a fuggire e nessuno prevalesse sull’altro.

Abbassò il braccio, quella mano dolorante ancora sospesa, in dubbio se lasciare ancora un altro segno o fermarsi e basta, e accontentarsi di aver quasi sfiorato un’idea, ché forse già solo riuscire a percepirla, quell’idea, era più che sufficiente, era già troppo.

Era pretendere di varcare un confine sacro, era credere di poter conoscere la Fatalità.

E Dem proprio non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se sarebbe stato meglio restarsene a casa o incontrarla, se avrebbe o meno fatto meglio a chiedere a Julian qualche consiglio, prepararsi qualche ipotetica domanda da farle per non restare completamente in silenzio o, più sensato, qualche risposta.

Si passò la mano sano sul volto e si stropicciò gli occhi in un vano gesto di esasperazione.

Stava sguazzando in fisime allucinanti degne della più scalmanata teenager di fronte a Jesse McCartney ma ripetersi da solo, come un mantra, di darsi una calmata non stava portando alcun aiuto alla sua causa.

Il suono della campanella lo riportò bruscamente alla realtà: l’ora di Figura si era appena conclusa, e lui aveva bellamente ignorato quello che avrebbe dovuto essere il soggetto imposto dal professore.

Il cavalletto di legno nel centro dell’aula, così vuoto e inutile, aveva un retrogusto di antico e abbandono, e Demian lo guardò forse per la prima volta con il labbro tra i denti e le palpebre socchiuse. Alcuni esercizi di profondità erano per lui estremamente complessi e quasi inutili, motivo per cui tendeva ad ignorarli: la sua visione stereoscopica era ridotta e l’astigmatismo, per quanto non eccessivo, unito a questo difetto gli rendeva difficile riprodurre fedelmente il reale da una certa distanza. Invece, con il volto di Arianna era stato diverso, i dettagli si erano incisi a fuoco nella mente in maniera fin troppo nitida, poche volte gli era parso di aver percepito tanto chiaramente qualcosa o qualcuno al di fuori di Sarah e di maman.

I suoi compagni di classe avevano raccattato le proprie cose e stavano rapidamente e disordinatamente abbandonando l’aula per ritornare alla loro, al secondo piano. Demian li osservò, una macchia dai contorni un poco sfocati, poi guardò ancora Arianna, provò il noto senso di delusione e disillusione e si decise a raccogliere il suo materiale e a riporlo finalmente nello zaino.

«Sbaglio o questo non è un cavalletto?»

Dem alzò pigramente il viso ed incrociò gli occhi nocciola di Giulia ed il suo sorriso intenerito da mamma.

 

Non sono un cane, non ho gli occhioni sberluccicosi, non c’è nessun inutile motivo per cui tu mi debba guardare così.

 

Fu tentato di dirglielo, ma poi avrebbe dovuto dare importanza ad uno sguardo e non gli andava. Scrollò le spalle «Perspicace come sempre» la pungolò con scarsa convinzione, ed infatti Giulia non si offese, si chinò sopra la sua spalla e dedicò tutta la sua attenzione al ritratto.

La sua espressione mutò rapidamente, da seria ad incantata.

«Wow» la sentì soffiare piano, corrucciando la fronte senza più aggiungere altro.

Quel silenzio lo mise inaspettatamente a disagio, il non sapere se a colpirla era stata la sua tecnica o il soggetto di per sé, plausibilissimo dato che la ragazza sul foglio tutto era meno che comune.

«Ha degli occhi incredibili, ma sembrano… finti. Come le immagini dei cartelloni pubblicitari o cose così. Non sono troppo irreali?»

Demian accennò un sorriso, perché almeno Giulia gli aveva appena confermato che non era un pazzo fissato, che gli occhi di Arianna erano davvero particolari, fuori dal comune. E tuttavia, quel tratto finto che la compagna aveva colto era probabilmente da imputare alla vuotezza che proprio non gli riusciva di colmare con la sua arte, e questa verità era svilente.

«È davvero bella. Forse, mhm, la spalla. Non è troppo ossuta?» continuò a valutare ancora Giulia fregandosi il mento tra pollice e indice. Aveva abbandonato completamente la veste della reticente, timida fanciulla per calarsi nei panni della studentessa di arte dall’atteggiamento critico, un riflesso naturale dopo più di un anno di lavaggio del cervello sull’importanza delle proporzioni e il dramma degli occhi a forma di “olive schiacciate”.

Era un modo di porsi comune, e se per primo si fosse trovato di fronte ad una simile immagine avrebbe avanzato la medesima osservazione. Il problema era che Arianna era veramente troppo magra, gli pareva quasi miracoloso che il suo apparato muscolare così rarefatto riuscisse a tenerla in piedi, sembrava avesse solo pelle sulle ossa.

 

Bravo, mi sembra giusto, ragiona anche tu come se stessi guardando un modellino in scala invece di una persona.

 

«Lo so. Ma volevo restare fedele all’originale»

«Oh» si lasciò sfuggire la compagna, con una vaga inclinazione di delusione che però scomparve subito «Hai più sentito Barbi? Abitiamo vicini, ma è da una settimana che non viene a scuola e non lo vedo»

Il rapido cambio di argomento lo spiazzò un istante, non gli era chiaro perché Giulia avesse interrotto la sua analisi, ma forse doveva essere stato un brutto colpo all’autostima sapere che Arianna esisteva davvero, eccome, e non sapeva cosa significasse la parola silenzio tra l’altro. Ci mise quel momento più del dovuto, per registrare la nuova domanda.

«Perché avrei dovuto?» aveva risposto d’istinto, senza riflettere, senza nemmeno associare un volto a quel nome. Poi però, in pochi secondi ripescò i ricordi della settimana precedente, del ragazzino rachitico e di quel favore che avrebbe dovuto fargli.

Che avrebbe dovuto, ma che aveva scordato.

Lo aveva scordato perché aveva incrociato Arianna.

«Beh, mi ha detto che lo hai aiutato, che non sei così male» gli stava spiegando Giulia nel mentre, il volto decorato da quel suo sorriso fiacco e timido. Riuscì a farlo vergognare e mentre deglutiva la saliva gli rimase come un pesante groppo in gola.

 

Non lo ho aiutato, mi sono dimenticato di lui.

Ho visto quella sconosciuta e ho visto Elena e sono scappato.

 

Non solo non si era presentato all’incontro, soprattutto si era fatto travolgere dalla propria egoistica vena creativa e aveva spento il cellulare, per cui si era reso impossibile da rintracciare e magari Frankenstein si era anche presentato all’appuntamento, ma se anche Alex l’avesse incontrato al suo posto, non aveva avuto comunque modo di contattarlo per poterlo avvisare.

Sperò di non aver messo Barbi in guai, se possibile, ancora più grandi.

«Tu hai il suo numero, giusto?»

«S-sì, ci conosciamo da quando siamo piccoli»

Demian accese il cellulare per farselo dettare e questo iniziò a vibrare inoltrandogli tutti i messaggi ignorati nell’ultima settimana di eremitaggio. Bastava solo il pensiero di doverli leggere tutti a fargli desiderare di spegnere di nuovo quel dannato apparecchio e magari di sparire per altri sette giorni. Se avesse osato però, quasi sicuramente si sarebbe ritrovato fuori casa vigili, carabinieri, pompieri e quant’altro.

 

Meglio non giocare troppo con l’apprensione della zia

 

Con un sospiro rassegnato ignorò la cartellina lampeggiante dei “messaggi ricevuti”, si limitò a salvare subito il numero di Barbi in rubrica e a inviargli un messaggio per sapere dove fosse, come stesse e di chiamarlo immediatamente se Frankenstein gli aveva creato qualunque problema.

Per quanto lo ritenesse assurdo e cercasse di convincersi che non era così, si sentiva responsabile di quel ragazzino, sapeva di aver peggiorato in qualche modo la sua situazione intromettendosi e si sentì improvvisamente in colpa, quasi a tradimento.

Giulia lo stava guardando, intimidita, e Demian realizzò che erano rimasti solo loro, lo stava aspettando. Si concentrò sul suo viso ordinario, piccolo, gli occhi dal taglio pigro e i capelli tirati indietro da una fascia fucsia che mostrava la fronte bassa e liscia e i tratti regolari del naso. Si era truccata in modo leggero e fine, rispetto alla volta precedente, il delicato tocco di perla dava più luce ai suoi occhi scuri.

Infilò il disegno nella cartelletta, ripose tutto nello zaino e si alzò abbozzando un sorriso verso la piccola ragazza che gli arrivava poco sotto la spalla.

«Così stai meglio», commentò semplicemente, per rimediare forse inconsciamente alla scortesia che le aveva dimostrato. Non chiarì a cosa si riferisse e non ce ne fu bisogno, Giulia doveva aver capito, perché arrossì abbassando il capo e mormorò un “grazie” impacciato dalla vergogna.

Si avviarono insieme verso la loro classe, Demian ad un tratto si rese conto della completa mancanza di disagio nell’avere Giulia accanto come fosse davanti ad una rivelazione dalla portata immensa: era una presenza discreta e tranquilla, serena come la placida superficie di uno stagno, un’acqua cheta eccessivamente timida.

Era difficile, provare un desiderio di accanimento di fronte a qualcuno dalla personalità tanto buona da sembrare persino fin troppo manipolabile. Non se ne era reso conto, in quel primo incontro, eppure ora lo sentiva con una certezza quasi presuntuosa: Giulia era il tipo di persona disponibile al punto che per affetto si sarebbe perfino abbassata ad un livello secondo lui umiliante.

La sua discrezione poi la rendeva piacevole, per nulla invadente.

«Era la tua ragazza?» sussurrò lei, prendendosi le mani come non sapesse che farne.

 

Eh, come non detto.

 

Demian la squadrò dall’alto e si rimangiò tutti i bei pensieri appena formulati.

«No»

La risposta secca e brusca fece sussultare Giulia, che però si lasciò sfuggire un sospiro dalla sfumatura sollevata.

«Però deve piacerti molto» insinuò, forse per tastare la sua reazione.

Dem ci rifletté un momento, scavando in maniera superficiale le impressioni che lo avevano colpito alle spalle quando aveva parlato con Arianna, alla ricerca di una definizione che ponesse fine alla curiosità della compagna di classe.

La verità era che trovava Arianna bella in modo imprevisto e per lui evidentemente fatale, ma se ci rifletteva, doveva trattarsi solo di questo, di un capriccio estetico perché questo era tutto ciò che aveva conosciuto di lei.

«È bella» constatò, ma non si sentì soddisfatto da quella conclusione, la trovava riduttiva, suonava inappropriata, non bastava a coprire ogni gradazione del suo turbamento.

Accompagnò le proprie parole con una smorfia di disappunto che fece ridacchiare Giulia.

«Oh Demian, dovrai superare questa cosa del non riuscire mai a parlare, lo sai? Ho l’impressione che dici sempre ciò che non pensi, solo perché credi sia la cosa giusta da dire»

Erano giunti sulla porta della loro classe e Giulia, prima di accomiatarsi, gli dedicò un altro sorriso colmo d’indulgenza e tenerezza «S-senti, credo di aver capito che sei un po’ un caso perso, ma io non riesco a vederti terribile. Se…. Non lo so, se avessi bisogno di una mano, anche con la tua bella, puoi sempre chiedermi tutto quello che vuoi. Un parere femminile magari ti è d’aiuto»

Le sue guance raggiunsero lo sgargiante colore della sua fascia per capelli fucsia, lo congedò con un goffo cenno della mano e si precipitò dalle sue due amiche oche.

Demian invece rimase immobile, a ponderare quelle parole e la purezza dell’intenzione, una disponibilità regalata con troppa ingenuità e che pure, in sé, portava qualcosa di quasi commovente.

Non gli dispiaceva, Giulia, pensò che probabilmente, fuorviato dal suo malumore, l’aveva giudicata male, aveva reagito sulla difensiva e lei invece desiderava solo potergli parlare. Certo, il giorno del loro primo incontro non era stato un buon giorno, questo però doveva aver influito troppo sulla sua capacità di giudizio perché ora pensava che avrebbe potuto parlarci ancora, averci un rapporto civile.

Con uno sbuffo sconfortato raggiunse il suo banco.

 

***

 

 

Demian aveva perso la cognizione del tempo trascorso a tormentarsi la benda della mano come fosse il suo più acerrimo e fastidioso nemico, ma per quanto ogni minuto era pesato doveva essere passato come minimo un quarto d’ora.

Nonostante tutti i tentennamenti da fanciulla innocente al primo appuntamento, alla fine era sceso a patti con se stesso e aveva deciso di presentarsi all’incontro.

Certo, essere arrivato con mezz’ora d’anticipo l’aveva fatto sentire un cretino, ma mai quanto il successivo appostamento davanti all’ingresso con tanto di marcia avanti-indietro come il peggiore degli avvoltoi. Le quattro erano passate da molto, eppure di Arianna non c’era la minima traccia e Dem era scisso tra il sospiro di sollievo che premeva in gola per uscire e la profonda indignazione per la buca appena ricevuta.

Si sentiva umiliato, per tutta la mattinata si era tormentato inutilmente ed ora, invece di continuare a tenere quell’atteggiamento scanzonato da figo che in realtà celava più disagio che altro - appoggiato alla parete con il cappuccio sollevato, i capelli nascosti nella berretta nera e le cuffie nelle orecchie-, avrebbe voluto prenderlo a testate, il muro.

Giusto per punirsi un poco per la propria semplicità infantile che l’aveva portato davanti all’ospedale ad aspettare qualcuno che non si sarebbe presentato.

Le ultime ore di scuola erano state infinite, aveva avuto la percezione distorta che il tempo non stesse assolutamente scorrendo. Anzi, pareva ostinato a restare il doppio del solito su ogni minuto, rendendogli l’attesa un inferno. In quella sospensione temporale in cui il suo cervello si era dato all’apnea, solo l’ora di Figura era stata di un qualche sollievo, mentre tutti gli altri tentativi di riempire uno spazio vuoto si erano rivelati fallimentari.

Quando si era reso conto di aver riletto dieci volte la stessa pagina senza aver assimilato neanche una frase, aveva gettato la spugna e si era lasciato scivolare, senza più opporsi, in uno stato vegetativo deprimente. D’altro canto, se “Notti Bianche” non era stato una lettura sufficiente a risvegliare i suoi sensi, nulla sarebbe servito alla sua causa.

Con le spalle contro il muro e gli occhi intrecciati ai sampietrini, Demian provò una strana sensazione, un’analogia tra se stesso e il libro che aveva abbandonato sul banco di scuola poche ore prima. Forse era in quel modo che si era sentito l’anonimo protagonista nell’aspettare pazientemente ogni sera la comparsa di Nasten’ka, forse era quello il sentimento disperato della ricerca di un raggio di sole a cui aggrapparsi quando si era in mezzo ad una tempesta, come un singulto affranto che strinava la gola per gridare aiuto, per assicurarsi alla vita.

Un brivido scivolò con una scarica elettrica nei muscoli, percorrendo ogni terminazione nervosa per permettergli di percepire a fondo l’angoscia.

 

Ti stai facendo suggestionare troppo.

Ti stai attaccando non a lei, ma all’idea che ti sei fatto di lei, al tuo inutile bisogno.

 

 

Eppure, quel bisogno doveva necessariamente soddisfarlo, aveva la necessità primaria di un momento d’illusione, di una beatitudine fittizia che poi sarebbe anche potuta svanire, ma almeno gli avrebbe concesso il tempo di risollevarsi.

Doveva crederci, che fosse possibile, doveva convincersi che Arianna fosse la possibilità di una distrazione felice, e paragonarla a Nasten’ka non gli portava alcun conforto, non conoscendo il finale del racconto.

Smise di giocherellare con il bordo della garza quando la chitarra di “Sometimes I Feel Like Scremiang” venne sostituita da una pianola dalla dolcezza nauseante. Recuperò subito l’mp3 dalla tasca del giubbino e stoppò “Reality” immediatamente.

Julian gli aveva portato quel piccolo aggeggio dall’America come regalo, Demian alla fine lo aveva aperto quel pomeriggio, per distrarsi, e aveva trovato un biglietto del cugino che sosteneva fosse più pratico del suo Lettore CD e che aveva provveduto lui stesso a riempirlo delle sue canzoni preferite. Provò l’immenso desiderio di strozzarlo: la colonna sonora de “Il tempo delle Mele” decisamente non era una delle sue canzoni preferite.

Si guardò rapidamente intorno, quasi temendo di essere stato colto in flagrante ad ascoltare un brano tanto smielato e imbarazzante, ma si tranquillizzò subito costatando – con una certa amarezza, doveva ammetterlo – che non c’era nessuno.

Proprio nessuno.

La sua, di Nasten’ka, era persino peggiore della controparte cartacea, non aspettava la quarta notte per scaricarlo, evitava direttamente di presentarsi alla prima. Demian guardò la punta delle scarpe da ginnastica, si morse il labbro e pensò che, probabilmente, al posto di lei nemmeno lui si sarebbe fatto vivo.

Il cellullare segnava già le quattro e venti, ma decise di provare ugualmente a concederle il beneficio del dubbio per un altro quarto d’ora, ché forse era davvero solo in ritardo, anche se questo avrebbe contraddetto l’affermazione di Arianna sull’odiare i ritardatari.

Credere che si sarebbe presentata avrebbe lenito l’umiliazione che lo tormentava.

Nel frattempo, cambiò canzone e scrisse a Julian

 

 

Demian

Reality? Sto seriamente pensando di pestarti, per questo.

9/10/2001

16:20

 

Poi si guardò attorno ancora ma, non vedendola all’orizzonte si arrese, decise di attenderla nell’atrio dell’ospedale, al caldo. Scivolò lentamente in una delle seggiole di plastica blu legate insieme, e pensò che forse erano ancora meglio quelle del reparto di Oncologia, ché la finta pelle anallergica a confronto era velluto.

Il cellulare vibrò, il nome del cugino faceva capolino sullo schermo.

 

Jules

Ahahah non mentire, tanto lo so che in realtà la stai ascoltando stringendo Lala fra le tue braccia! L’ho scelta con amore! XD

9/10/2001

16:24

 

Ecco dove vuole andare a parare quell’idiota. E ti pareva se non tirava in mezzo il cane.

 

Demian

Sei un cazzone e ti prenderei a pugni… con tanto amore s’intende

9/10/2001

16:26

 

Jules

Non hai senso dell’umorismo =)

9/10/2001

16:30

 

 

Sono quasi totalmente sicuro che sia il tuo senso dell’umorismo a fare schifo

 

Era passato il tempo che aveva pattuito con se stesso, e di Arianna alla fine non c’era comunque traccia, perciò si rassegnò a tornarsene a casa.

 

Potrei sempre andare da Jules a rendergli il pugno promesso.

 

Fece per alzarsi quando lo sguardo gli cadde sulla schiena di una donna seduta in attesa, proprio come lui, due file di sedie più avanti. I capelli erano di un biondo slavato, raccolti in un disordinato chignon, le spalle ricurve davano l’impressione di un’eccessiva stanchezza e il picchiettare impaziente del suo piede destro, mentre si mangiava un’unghia, era un indice sufficiente della sua ansia. Demian aveva avuto la sensazione di conoscerla, ma ci mise qualche istante a realizzare che si trattava della medesima persona trafelata che aveva attirato la sua attenzione e quella di tutte le infermiere la settimana passata, prima che Elena entrasse nel suo campo visivo e lo distraesse, ovviamente.

La osservava e ne provava tristezza e tenerezza insieme, doveva trattarsi di una madre, una di quelle vere, che senza i propri figli non sanno respirare, che sanno amarli come e più di loro stesse.

Demian era sempre stato affascinato, da quel tipo di madre che sa fare la madre.

Avrebbe voluto vedere quell’ansia, quell’apprensione, rivolta anche lui, avrebbe voluto vedere maman dedicargli quel tipo di amore, qualche volta. Ma maman era una madre che dava spazi, anche troppi, che concedeva errori anche quando erano troppo grandi e non si sarebbero dovuti compiere.

Lei non si rendeva conto della portata della sua tolleranza, così eccessiva da trasformarsi in indifferenza.

«Pensavo non saresti tornato oggi» la voce dolce di Marisa lo costrinse a riscuotersi. Si accigliò un attimo, non cogliendo a cosa si riferisse, poi si lasciò sfuggire un’altra smorfia, un piegarsi scontento di labbra che non avrebbe voluto condividere ma che era stato troppo istintivo per essere comandato.

 

Anche io

 

Però, non lo disse.

Abbassò gli occhi e si sentì ancora bambino, davanti ad una donna che non era mai riuscito a guardare davvero in volto, per paura, perché lei in certi momenti non era più “Marisa”, mutava in qualcos’altro, diventata il suono di ciò che non aveva la forza di ascoltare.

«Come ti senti, tesoro?»

 

Come in un déjà-vu, come quando mi guardavi in silenzio e non avevi nulla da dirmi. Come quando a malapena mi sfioravi, come se con il semplice tocco avessi potuto trascinarti nel mio abisso insieme a me, e speravi che quel tuo disagio io non lo vedessi.

 

Era una brava donna, si era sempre presa responsabilità che non le competevano, solo per amicizia verso Jenevieve, per un senso del dovere che probabilmente era stato pesante quanto un macigno. Demian si arrabbiava a volte, perché lei non aveva fatto di più, ma poi si crogiolava nel calore della sua infanzia e allora il viso di Marisa tornava ad essere un’immagine gentile e rassicurante, una signora che l’aveva coccolato di dolci e viziato di cioccolate, che era rimasta seduta accanto a lui in silenzio ogni volta che maman aveva degli esami e lui rimaneva ad attendere da solo, senza aver nulla da fare e senza poter capire davvero la situazione.

Le voleva molto bene e non desiderava biasimarla, né sfogare su di lei la propria frustrazione.

«Sto bene. Dovevo solo… assimilare la notizia» accennò un sorriso debole velato di colpa. In quella manciata di parole aveva raccolto tutta la sua ipocrisia, ché in realtà non aveva la minima intenzione di assimilarla, aveva deciso che l’avrebbe ignorata e basta.

Avrebbe ignorato Jenevieve come se non fosse mai esistita, e forse sarebbe stato meglio dopo, forse sarebbe riuscito ad abituarsi prima a quando non fosse più esistita davvero. Arianna era parsa un buon compromesso: una bellezza che riusciva a non lasciarlo indifferente ed una personalità che riempiva bene gli spazi. Sembrava il lenitivo perfetto, ma era una possibilità sfumata in partenza e dissolta con la stessa rapidità con cui si era formata.

Questo rifiuto senza possibilità di replica non si era limitato a ferire il suo orgoglio, gli aveva lasciato addosso anche un’inspiegata amarezza, la vaga percezione di aver appena perso qualcosa di bello senza una ragione.

Non riusciva a capire perché, se la sua intenzione era quella fin dal principio, Arianna gli avesse chiesto di vedersi neanche fosse una questione fondamentale.

«Le hai parlato?»

 

A maman non ad Arianna. Concentrati, Crétin!

«Non mi va»

In sottofondo, restava lo snervante ticchettare del piede della signora bionda che ora iniziava a seccarlo.

«Posso chiederti cosa aspetta quella donna? L’ho riconosciuta, anche settimana scorsa era qui»

Non era veramente interessato né curioso, semplicemente la nevrotica sconosciuta gli era parsa il miglior pretesto per distogliere l’attenzione da sé e da quell’argomento spinoso che era più che deciso a non toccare più. Marisa seguì il suo sguardo e si soffermò a sua volta sua quella figura fragile prima di liberare un sospiro.

«È una brutta storia. Sembra che suo figlio sia stato preso di mira da un gruppo di ragazzi, forse è un caso di bullismo ma anche fosse, si è rifiutato di parlare quindi c’è poco da fare. Comunque l’hanno conciato per le feste, povero ragazzo.»

Marisa inclinò il capo verso di lui e gli regalò un sorriso dolce e materno «Anche se ha la tua età, è così mingherlino che, quando l’ho visto, mi ha ricordato di quando eri bambino»

Demian deglutì a vuoto mentre un’idea, che in realtà era solo consapevolezza, si faceva strada dentro di lui.

«È straniero? Biondo, piccolo di statura?»

Marisa aggrottò la fronte e abbassò le palpebre in quella sua espressione indagatrice troppo poco severa perché potesse davvero avere effetto «Lo conosci forse?»

«Puoi dirmi il reparto e la camera?»

«Non mi hai risposto»

«Nemmeno tu»

Demian cercò d’imprimere nei propri occhi tutta l’urgenza che stava provando, un nuovo nodo allo stomaco alla sua infinita lista di sensi di colpa che sperava davvero l’infermiera potesse scorgere leggendo tra le righe.

La vide esitare, portarsi alla fronte la mano segnata dal lavoro e dall’età, sospirare e arrendersi come faceva sempre, con una rassegnazione che sapeva sempre di un “almeno questo te lo devo” che Dem non sapeva spiegarsi.

«Non voglio sapere perché è così importante. Sai come funziona, cerca di essere discreto»

Con il suo tatto dovuto probabilmente ad una vita dedicata alla cura degli altri, Marisa si risparmiò qualunque domanda inopportuna, l’esperienza le aveva insegnato tutto, Demian lo percepiva ogni volta che l’infermiera arriva fin quasi a toccare un suo limite, limite che lo avrebbe spinto a ritrarsi, e si fermava da sola.

Prima di avviarsi al padiglione dove era stato ricoverato il ragazzo, per un’ultima, amara volta, si soffermò sull’orologio dell’atrio, giusto per avere un’ulteriore conferma che fossero le quattro e quaranta e che Arianna, evidentemente, non si sarebbe più presentata.

 

 

 

Maximilian Aderca

 

Era quello il suo nome.

Non c’erano margini di dubbio, dal vetro della porta Demian lo vide seduto nel suo lettino bianco, con la schiena irrigidita e il capo fasciato, e lo riconobbe.

Quello era davvero il ragazzino che avevano picchiato lui e i suoi amici, e gli bastava un’analisi veloce per capire che lo avevano ridotto male. Bussò piano prima di aprire la porta, e Max volse il capo nella sua direzione con lentezza esasperante ed una smorfia che gridava quanto ogni movimento gli costasse dolore.

Demian vide la sua espressione perplessa trasformarsi in terrore, gli occhi grandi per quel viso smunto dilatarsi, e gli sembrò quasi di tornare a quella sera, davanti ad una creatura così piccola e spaurita, un animaletto selvatico in trappola.

«Tu sei quell’albino di merda, sei uno di loro. Perché sei qui? Non ho detto un cazzo a nessuno» il tono era ostile, ma la voce soffiata, leggera, e le parole articolate male a causa del bendaggio che limitava i movimenti della bocca. Doveva costargli fatica anche parlare, con quel pugno la mandibola, se non gliel’aveva rotta, gliel’aveva almeno slogata.

Sollevò le mani in un gesto di resa e abbozzò un tentativo di sorriso cordiale «Volevo sapere come stavi» mormorò, e si vergognò di se stesso e della propria sfacciataggine. Non sapeva nemmeno lui dove aveva trovato il coraggio di presentarsi ancora davanti a quel ragazzo, dove risiedeva la faccia tosta che gli aveva permesso, proprio a lui che era il colpevole di quella sua condizione penosa, di porgli una simile domanda.

Decise però di andare fino in fondo, per una volta.

«E…» non riuscì a sostenere quegli occhi, di un azzurro completamente diverso dal suo, vivo e vivido, senza cedimenti, e per questo le parole gli morirono in gola. il silenzio colmo di attesa e quello sguardo, lo sguardo di qualcuno che si trovava di fronte ad un incubo incarnato che sperava potesse dileguarsi presto, erano demotivanti «E volevo chiederti scusa. Veramente»

Si sentì d’improvviso più leggero, privato di un peso che non si era reso conto di star portando fino a quel momento.

Non si aspettava nulla da Max, assolutamente nulla, ma essere lì in quella stanza era sufficiente, perché per una volta stava affrontando la conseguenza di un suo errore e, anche se non c’era alcun modo di rimediare, sapere di non star scappando con la coda fra le gambe lo faceva sentire meno vile.

Per una volta, non si stava disprezzando, per una volta stava pensando che, magari, c’era ancora qualcosa di salvabile in lui.

«Dalle sei alle otto settimane solo per la mandibola. Un mese e mezzo di gesso al braccio, frattura scomposta. Tre costole incrinate, trauma cranico. Non sto bene stronzo» sibilò Maximilian con ritrovato coraggio «Se pensi che ti perdono non hai capito un cazzo. Quando esco, lo giuro che ti troverò, a te e a quei figli di puttana dei tuoi amici, e vi faccio ingoiare i denti a calci in faccia» la rabbia e il rancore trasparirono con tale forza che Demian deglutì a stento e provò l’impulso di andarsene.

Non per la minaccia, da quel corpicino spezzato non perveniva nemmeno volendo un senso di pericolo, e poi ne aveva ricevute così tante nella sua vita che difficilmente potevano riuscire a sfiorarlo, ma l’odio era un’altra cosa.

L’odio, in una forma così autentica e sentita, lo spaventava, non sapeva come muoversi su un terreno tanto ostile, né era sicuro di averne il diritto solo per sentirsi un poco meglio.

 

Avrei dovuto lasciarlo andare. Non avrei mai dovuto fermarlo.

È colpa mia, se è conciato così.

J'ai été stupide

 

«È equo. Mi sembra giusto, non proverò nemmeno a fermarti, potrai restituirmi tutto con gli interessi. Ma tornerò a trovarti» riuscì a sostenere quegli occhi limpidi di acqua fresca e ad accennare un sorriso più sincero davanti allo sconcerto di Maximilian.

«Oltre che albino sei pure scemo? Sparisci, io qui non ti ci voglio più vedere» lo sconcerto aveva fatto esitare il ragazzino, era suonato meno duro di quanto non avrebbe voluto, probabilmente, e a quell’esitazione Demian si aggrappò con sollievo.

«Sono Demian Lemaire, Scuola d’arte Fantoni, secondo anno corso C. Dillo pure ai tuoi amici, così sapranno dove trovarmi» gli diede le spalle a alzò la mano in un gesto di commiato «Ci vediamo, verrò presto»

Ignorò i numerosi e coloriti improperi che Maximilian gli lanciò, neanche fossero oggetti contundenti pronti a ferirlo, e se ne andò a testa china.

 

Cosa ti aspettavi, che ti perdonasse?

Pensavi davvero di poterti redimere così facilmente?

Che bastasse così poco?

 

 

In momenti di lucidità come quello, quando riusciva a guardarsi dall’esterno, come stesse contemplando non se stesso ma la vita di qualcun altro, riusciva a vedersi nella sua interezza, e allora poteva distinguere con chiarezza il circolo vizioso nella quale era scivolato, a riconosceva razionalmente la falla nel sistema della sua vita. Il suo però era un impulso acquisito dopo anni di abitudine e svilimento personale, era una falla che non riusciva ad aggiustare.

Si scavava la fossa da solo, più si svalutava più era portato a commettere gesti che lo portavano a svalutarsi ulteriormente.

Il breve incontro con Max lo aveva sfibrato, pensò a casa sua, a come si sarebbe affogato nel divano con Lalami stesa addosso e una birra in mano magari, a guardare qualche film sciocco che avrebbe potuto distrarlo, perché di questo andava avanti, di distrazioni. Ogni cosa che lo circondasse era una forma di distrazione che gli permetteva di continuare a trascinarsi, e supplizio il tempo che trascorreva in attesa dell’uno o dell’altro passatempo.

A guardarsi ora, provava quasi pietà per se stesso.

Passò per l’atrio del padiglione centrale solo per poter salutare Marisa, poi uscì nuovamente all’aperto, ad occhi chiusi, ad ispirare un’aria fredda satura dell’aroma dell’autunno, un ultimo barlume di calore crepitante catturato dalla natura e rilasciato dalla terra come un estremo spasmo di vita.

«Ehi ciao! Speravo tanto che avresti aspettato»

Al suono di quella voce trafelata, Demian spalancò gli occhi. Istintivamente si portò una mano al viso a proteggere le iridi chiare, investite dall’improvvisa luce che aveva trasformato il mondo in un informe macchia gialla e i contorni delle sue dita in infuocate linee rosse. La macchia si ritirò lentamente, delineando un volto estraneo eppure noto come avesse trascorso ogni giorno contemplandone il candore.

Una goccia di sudore sulla fronte, il fiato ancora un poco pesante ed un sorriso che mangiava tutto il resto con il suo splendore soverchiante.

 

Avresti dovuto saperlo, idiota.

Guardala, lei compare solo quando non la aspetti.

 

 

 

 

  
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