À Demian
Capitolo ottavo
Annie
«Ehi! Speravo che
avresti aspettato»
Arianna era bella.
Era una vertigine
improvvisa, l’ultimo gradino mancato della scala che mozzava
a tradimento il
respiro, una strana voragine nel petto in cui i battiti si perdevano
risucchiati in un’emozione troppo complessa e inattesa per
essere definita. Un
brivido che gli aveva afferrato la nuca e si era sciolto nel sangue in
ebrezza
liquida, in un languore depositato dolcemente sullo stomaco di fronte
alla
sfuggevolezza di quel sorriso solare, leggero come un raggio di luce e
tiepido
di una stanchezza vaga, appena percepibile, un piegarsi di labbra che
accennava
due morbide fossette agli angoli della bocca.
Tutto il resto, la
comprensione più completa di lei, della sua presenza, venne
solo dopo qualche
istante di rapimento, una visione sgranata che lentamente acquisiva
nitidezza.
Arianna era bella e
incurante, non si sapeva vestire. La sua aria trafelata era solo
accentuata
dalla maglietta grande. La scollatura a barca scopriva la delicata
linea del
collo che si congiungeva, levigata e sensuale di una
fragilità tenera, con un
arco cedevole alla spalla sottile, mangiata dalle maniche larghe. Le
braccia
magre, nascoste da una doppia manica, sembravano piccole come quelle di
una
bambina e, come se una bambina lo fosse, le mani erano nascoste dalla
stoffa
abbondante. Le dita giocavano con l’orlo in movimenti che
smascheravano il
sentimento di calma apparente emanato dal suo volto.
I fuseaux neri
rendevano le sue gambe all’apparenza persino più
magre e lunghe come steli, modellate
in curve delicate.
Demian
le accompagnò con lo sguardo, sentendo
la bocca arida.
La
ripercorse lentamente, notò le scarpe da
ginnastica dal colore verde fluorescente, ed infine si
riaggrappò ai dettagli
del suo viso, i capelli sciolti e sconvolti che le coprivano le
orecchie e i
ricci sfatti che come ragnatele crepavano la porcellana della fronte.
Arianna strinse la
cinghia di stoffa della sua borsa a tracolla e si appoggiò
leggera al muro,
senza aggiungere una parola. Lo studiava con
un’intensità disturbante,
un’espressione di profonda, pacata calma accompagnata da un
guizzo
inafferrabile come il riflesso delle scaglie di un pesce appena
intravvisto
sotto la superficie piatta di un lago e subito scomparso. Dava
l’idea di una
serenità quieta, eppure Demian continuava a percepire la
sensazione di
mulinelli d’acqua imprevisti, in quelle iridi chiare,
l’impressione che, se non
avesse fatto attenzione, un’oscillazione di quello sguardo
l’avrebbe trascinato
in un vortice in cui avrebbe finito con l’affogare.
Strinse le labbra e
si decise a domandare, in modo brusco, per riprendere una certa
distanza che in
quei pochi istanti aveva sentito sfumare «Non odiavi i
ritardi?»
E pensò comunque di
essere stato fin troppo delicato, considerato quanto aveva aspettato,
quanto
era stato idiota a restare in attesa senza neanche conoscerne il motivo.
La ragazza piegò il
capo, come un cucciolo curioso di fronte a qualcosa di sconosciuto
«Perché sei
rimasto?»
Un’altra vertigine,
un battito mancato, per la vergogna, la cocente, bruciante vergogna di
non
avere nulla con cui ribattere.
Perché non
puoi semplicemente rispondermi?
Sono io a pretendere
troppo?
Arianna si scostò
dal muro, scrollò le spalle e gli occhi si accesero di
comprensione, una luce
che dava una sfumatura di curiosità e intelligenza viva al
suo viso.
«Mi ero
dimenticata, sono io che devo dirti perché sei rimasto,
giusto? Ho promesso di
rispondere»
Inclinò le labbra
in un gesto ironico, che lo spiazzò.
Arianna si avvicinò
e gli strinse la mano senza pensarci troppo, poi con una pressione in
realtà
molto debole, dal sapore dell’invito, cercò di
trascinarlo con sé «Non
parliamone qui però. Non abbiamo molto tempo prima che sia
buio, e questo posto
mi deprime davvero tanto! Andiamo da un’altra parte»
Fu come ricevere
una scossa.
Demian puntò i
piedi, strinse le labbra tanto da farsi male e, quando Arianna si volse
a
guardarlo con la fronte corrucciata per il suo silenzio, ebbe la
certezza che
lei avesse già capito, ma stesse cercando un modo di uscirne
senza doversi
sbilanciare.
Forse, non aveva
colto solo la sua rabbia, ma anche l’affilata umiliazione che
aveva provato
pensando ad un rifiuto. La osservò prendere un profondo
respiro, piegare ancora
la testa lasciando che i ricci le scivolassero sulle guance chiare,
come a
studiarlo da una diversa prospettiva, e constatare solamente
«Ti sei offeso»
Non arrabbiato:
offeso.
Comprese che era
vero: non era semplicemente incollerito, era offeso. E si
meravigliò quando si
accorse che gli bastava che Arianna lo avesse capito, perché
quel sentimento
svilente si riducesse e ritirasse nei recessi del suo essere.
«Mi dispiace. Cioè
mi dispiace davvero, intendo! Non quei “mi
dispiace” da convenzione, effetto
contentino che si usano quando qualcuno ti tiene il muso e tu proprio
non ne
hai voglia, io dico uno di quelli onesti, anche se non hai un motivo
vero per
credermi in effetti, e io non saprei nemmeno che dirti per convincerti
del
contrario perché, dai, non mi conosci neanche e quindi, o ti
fidi sulla parola
o mi molli qui e adesso, che poi ne avresti tutte le ragioni, ma a me
dispiacerebbe comunque tantissimo, perché sono stata
trattenuta contro la mia
volontà e ti assicuro che non vedevo l’ora di
essere qui e ho dannato l’anima a
tutti quanti perché mi lasciassero uscire prima, ma al
solito non mi ascolta
mai nessuno. Che poi quando ti ho detto che odio i ritardi avrei dovuto
essere
più onesta, io sono sempre in ritardo, ma odio aspettare i
ritardatari….
Paradossale, eh? Anche un po’ da carogna probabilmente,
però non posso farne a
meno, aspettare mi mette l’ansia e tu hai l’aria di
uno che si fa i cavoli
propri, mi spiace davvero!»
Demian spalancò gli
occhi e schiuse la bocca. Aveva pensato di interromperla almeno dieci
volte, ma
Arianna lo aveva sommerso con quell’ondata di parole senza
prendere mai fiato
e, alla fine, di tutto il discorso Dami aveva colto a malapena il
senso.
Sollevò subito la mano, approfittando della pausa di respiro
un poco più lunga,
per farle cenno di fermarsi, perché sembrava intenzionata a
ricominciare il suo
sommergente monologo e non solo il viso di lei era divenuto rosso in
maniera
preoccupante, ma soprattutto non era sicuro di avere la forza di
sopportare
ancora minuti interi di frasi prive di qualsivoglia logica.
Di tutto, forse
l’unica cosa che avrebbe avuto interesse a conoscere, sarebbe
stata la ragione
del ritardo, e normalmente -almeno secondo le convenzioni
più banali- sarebbe
stata quella la prima cosa che si sarebbe dovuta dire per tirarsi fuori
d’impaccio.
Eppure, se ne
accorse con disappunto, Arianna aveva glissato su
quell’argomento con palese
ovvietà, pungolando così la parte più
curiosa del suo essere, costretta a
languire dal freno spietato della propria indole discreta che non gli
avrebbe
mai concesso di esprimere apertamente quella domanda.
Accettò con un
sospiro dimesso di restare nell’ignoranza più
completa, ché aveva un buon
intuito, e l’intuito gli diceva che quella ragazza strana non
si era
semplicemente dimenticata di dirgli i suoi motivi, aveva chiaramente
deciso di
non condividerli e basta.
«Oui, oui, bien
sûr, je comprends, mais arrêtez
ça,
s'il te plaît!»
«Eh?»
Arianna lo fissò
sgomenta e, con ancor più sgomento, Demian si accorse di
essersi lasciato
sfuggire la propria lingua. Era un istinto che normalmente emergeva
solo con
sua sorella, eppure qualcosa di esasperante e tremendamente familiare
in quella
sconosciuta lo aveva indotto a rilassarsi.
«Tranquilla, non fa
nulla. Va bene così» balbettò
riannodando i bordi sfilacciati delle proprie
sensazioni.
La situazione gli
stava sfuggendo di mano, il terreno sotto i suoi piedi era mutato in
una
scivolosa lastra di ghiaccio pronta a creparsi al primo passo falso, e
lui
riusciva solo a restare immobile, in precario equilibrio in attesa di
un
miracolo che non lo facesse ingoiare dal gelo.
«Allora andiamo?»
ripeté
lei, calda di un sorriso estatico e soddisfatto, tenero da suscitare il
desiderio di afferrarle la guancia e strizzarla, come faceva sempre sua
nonna.
Arianna gli porse
la mano, Demian la fissò incerto, ne studiò la
forma infantile, le dimensioni
piccole e dall’apparenza soffice e debole, una mano fatta per
accarezzare, per
accogliere nel suo palmo solo dolcezza.
La strinse, ma
senza convinzione, mollemente. Lasciò che fosse lei a
scegliere l’intensità di
quel legame mentre Arianna intrecciava spensieratamente le loro dita, e
decise
di restare in disparte, a osservare quello squarcio di bellezza che lei
gli
stava donando come uno spettatore dubbioso, perché non lo
sapeva, fin dove
voleva spingersi. L’ingenuità primordiale di
Arianna non gli permetteva di
comprenderne le intenzioni.
L’ospedale distava
quasi venti minuti dal centro proseguendo a piedi, eppure la ragazza
non
accennò a dirigersi alla fermata del bus e Demian, senza
porsi troppe domande,
tenne il suo passo docilmente.
Arianna trasmetteva
un senso di pace, emanava una forza interiore solida e insondabile in
perfetto
accordo con il suo essere, in un equilibrio incomprensibile che avrebbe
quasi
potuto stonare, con quel suo aspetto stropicciato da bambina arruffata.
Eppure Demian la
guardava, non riusciva a smettere di guardarla dall’alto di
quei suoi dieci
centimetri in più, con riserbo, un pudore che pensava di non
possedere più e
invece aveva giaciuto in qualche luogo remoto e inutilizzato del suo
sé in
attesa di essere rispolverato, una veste che aveva abbandonato fin
dall’età più
tenera e forse era ancora intatta, non era perduta.
Nonostante gli
atteggiamenti infantili, i gesti di Arianna erano accompagnati da
un’insolita
eleganza, per nulla ricercata, spontanea nella dolcezza di un movimento
inconscio. Una sensualità latente e immatura nel modo
delicato con cui fletteva
il collo o camminava, dritta come un fuso, come se il suo corpo
tendesse verso
l’alto, leggero, appeso ad un filo teso da cui si sgranavano
una ad una le
vertebre della sua schiena, in una curva leggera e raffinata.
Ed allora gli si
seccava la gola ed un calore che non avrebbe voluto provare si annidava
nel
basso ventre e capiva che quello era il potere di Arianna, il suo
essere acerba,
l’ingenuità della sua essenza che si rifletteva
nel suo aspetto esteriore
rendendola fragile in maniera disarmante.
Almeno fino a
quando non parlava e fino a quando i suoi occhi vispi guardavano altro,
inseguivano la linea dell’orizzonte e pensieri che Demian non
poteva nemmeno
immaginare.
Perché poi, quando
di tanto in tanto, pareva ricordarsi di lui, ricambiava le sue occhiate
fugaci
con una forza che spazzava via ogni sua spavalderia per costringerlo a
distogliere lo sguardo. Se non lo avesse fatto, se avesse provato e
sostenere
occhi tanto belli e ruffiani, avrebbe finito con lo strapparsi
l’anima e
donargliela spontaneamente, per non dover tentare lo sforzo di
resisterle.
In questo, Arianna
gli ricordava Sarah.
L’asfalto aveva
ceduto il posto ai sampietrini e, dopo aver attraversato un incrocio,
imboccarono un lungo porticato medievale di grosse pietre grigie che
conduceva
alla zona pedonale, senza dedicare particolare attenzione ai negozi di
antiquariato e mobilia che si srotolavano alla loro destra, oscurati
dall’assenza di luce naturale.
Solo quando
superarono il colorificio Demian ebbe un sussulto di esitazione. Quello
era il
suo negozio preferito, dove si procurava sia il materiale scolastico
che quello
ad uso prettamente personale. In vetrina, una valigia da centoventi
pastelli in
gradazione cromatica gli fece desiderare di entrare seduta stante e
farsi un
regalo. Non ebbe però il coraggio di far presente la voglia
di potersi fermare
anche solo un momento. La ragazza al suo fianco lo scrutò
arricciando le
labbra, come avesse intuito un suo repentino cambio di umore, come una
bambina
dagli occhi grandi, e allora si affrettò a scuotere la testa
per deviare
l’attenzione.
Forse concederle
quel pezzo di mondo, anche se quel negozio era solo un buco, era
troppo, era
darle l’accesso alla sostanza che componeva la sua essenza
vitale. L’arte era
un pensiero sublime che inchiodava la sua anima inerme, un segreto che,
se
condiviso, l’avrebbe spogliato di ogni difesa per lasciarlo
nudo di fronte alla
realtà, debole.
Un mollusco senza
conchiglia.
E Arianna era
bellezza, bellezza che avrebbe forse potuto arricchire
quell’arte, ma ad un
prezzo che non poteva sapere se sarebbe stato equo, per questo non le
disse
nulla.
La piazza
triangolare in cui sfociava il porticato era riempita da una fontana
centrale, dal
taglio moderno e disadorno, asettico, che Demian non aveva mai
particolarmente
apprezzato. L’aria era fresca ma non fredda, per questo i
tavolini all’aperto
di un bar, protetti da ombrelloni squadrati e delimitati da eleganti
fioriere,
erano invasi da persone e bambini. La calma che li aveva accompagnati
si saturò
di suoni. La strada proseguiva in salita, conduceva ad una chiesa
antica e
discretamente famosa, sulla destra invece, si snodava la principale via
del
centro: un susseguirsi di negozi di vestiario, gioiellerie, e tre
librerie - a
cui di solito Demian faceva tappa, prima di comprare un libro, per
scegliere
un’edizione che lo soddisfacesse- tutti incastonati in
edifici storici dai
colori vivaci. C’era una grande quantità di gente,
gruppi di ragazzi, signore
con cagnolini di piccola taglia vestiti come imbarazzanti bamboline.
Sul bordo
della strada pedonale, alcuni artisti intrattenevano capannelli di
persone
raccolte in cerchio tutt’attorno, ed un paio di bancarelle
vendevano fiori
spiegazzati.
«Vieni di qua, ti
porto nel mio posto preferito!» lo incoraggiò
Arianna, con un sorriso che
avrebbe potuto tranquillamente accecarlo.
Il suo posto
preferito, si rivelò essere un bar-gelateria, con
l’ingresso in una galleria e
pochi tavolini da esterno bianchi con le seggiole rosse.
Demian ci era
passato davanti molte volte e lo conosceva, tutta la facciata che si
offriva
alla strada era in vetro ed era possibile osservare
l’interno, ma non ci era
mai entrato. Sembrava un luogo per famiglie, e Dem non aveva mai
frequentato
luoghi per famiglie negli ultimi anni.
Il bancone offriva
una notevole varietà di gelati nonostante il periodo
dell’anno, ma era
impensabile avvicinarsi visto il gruppo di bambini chiassosi e genitori
petulanti che si accatastavano gli uni sugli altri neanche quella fosse
l’ultima scorta di cibo sulla terra e dovessero fare prima
per non morire di
fame. Arianna si fece notare da un cameriere prima di salire al piano
superiore, attraverso una scala a chiocciola con la balaustra
d’acciaio, nascosta
in un angolo, che non aveva notato tanto era discreta. Si accorse anche
di un
piano inferiore passando davanti all’ingresso ad arco della
taverna, perché
arrivava il crepitio di una televisione, la telecronaca di una qualche
partita.
Di sopra, le pareti erano rivestite di finta pietra e il parquet chiaro
unito
alla luce naturale proveniente dalle vetrate dava a locale un aspetto
arioso.
Solo un paio di tavoli erano occupati, separati da piccoli muretti
decorati da
piante, ma c’era la musica a colmare l’assenza di
brusii che avrebbe reso
l’ambiente triste e Demian tirò un sospiro di
sollievo per quella calma
ritrovata. Aveva voglia di fumare, ma non voleva farlo davanti ad
Arianna,
voleva farle una buona impressione.
Nell’insieme era un
bar come un altro, abbastanza banale perché non riuscisse a
capire cosa lo
rendesse speciale per la ragazza.
«Che fortuna, il
mio posto preferito è libero!» si
entusiasmò lei, trascinandolo in fondo alla
sala, vicino alla vetrata. Si poteva osservare il viale sottostante e
c’era
qualcosa di pittoresco in quella visione dall’alto che Demian
non si sarebbe
mai aspettato, per questo ancora non parlò, rimase perso
nella contemplazione
di quelle figure sfocate come macchie di colore disciolte
nell’acqua, un quadro
impressionista dalle sfumature ombrose del sole che calava e mostrava
l’oscurità di quel mondo, l’altro lato
della medaglia.
Un viaggio oltre lo
specchio.
Arianna ridacchiò
«Lo sapevo che ti piaceva. Era coerente con quel tuo aspetto
da bohemien»
Demian si schiarì
la voce e tornò a concentrarsi su di lei, allora Arianna gli
passò il menù e
adagiò il viso nelle mani a coppa, sfoggiando
l’espressione furba di una
bambina pronta a fare un dispetto. Forse leggeva davvero troppo,
ché
quell’atteggiamento lo fece pensare a Tom Sawyer e
quell’associazione lo fece
sorridere.
«Tu non ci guardi?»
«No, so già cosa
prendere» rispose sicura.
Demian, in
imbarazzo, si passò una mano sul collo e si morse la parte
interna della
guancia. Arianna era disagiante, non la smetteva di fissarlo senza
filtri,
dritto negli occhi, senza un motivo apparente.
«Cosa?»
La osservò
raddrizzarsi immediatamente, ridacchiare e portarsi la mano davanti al
volto,
per tenere il conto con le dita, come se davvero fosse una bambina.
Doveva aver
conservato certe puerili abitudini che la rendevano adorabile e
stemperavano il
suo nervoso.
«Ci sono ben due
motivi per venire qui!» dichiarò con un sorriso
incompleto, una sola fossetta
all’angolo della bocca «Primo: fanno un
frappè al cocco che è la fine del
mondo, il più buono della mia vita. Ne berrei a litri!
Secondo: se gli chiedo
di farmi il cappuccio in un certo modo, me lo fanno come lo voglio
io»
A leggere tutta
quella soddisfazione per qualcosa di tanto banale, Dem non
riuscì a trattenere
una risata «Tutto qui?»
«Ehi, sono validi
argomenti!»
«Mi aspettavo
qualcosa di più»
Arianna fece
spallucce e storse il naso «Ti aspetti troppo
dall’abitudine, vengo qui con mio
fratello da sempre, non c’è nessun racconto epico
dietro»
In quel momento si
avvicinò il cameriere con il taccuino alla mano.
Demian non aveva
scelto niente, né aveva una qualche idea di cosa prendere in
un bar di quel
genere e in compagnia di una ragazza come lei. Normalmente si sarebbe
dato ad
una birra, ma poi la guardava e gli sembrava di accostare due elementi
che non
avevano nulla da spartire.
«Un frappè al
cocco» lo disse senza rifletterci, ed Arianna
s’illuminò come un albero di
Natale.
«Allora ti ho
convinto!» si gonfiò di orgoglio, poi
tornò a guardare il povero ragazzo in
attesa, in piedi accanto a lei.
«Io vorrei una
tazza di caffelatte, per favore» lo disse con un entusiasmo
eccessivo che gli
fece corrugare la fronte per la confusione. Non capiva
perché, aveva
l’impressione che qualsiasi cosa potesse animarla, come
traesse da qualunque
sciocchezza un soffio di vita. Il cameriere annuì e fece per
andarsene, ma
Arianna lo richiamò all’istante «Mi
raccomando: caffelatte, non cappuccio!»
«Sì, signorina»
Si voltò e Arianna
lo fermò di nuovo «Niente schiuma! E non esagerate
con il caffè. Deve essere beige,
tipo. Il colore è fondamentale, ricordalo. Beige chiaro,
altrimenti non ha
senso»
Demian rimase
basito, schiuse le labbra e pensò che forse, più
stranito di lui c’era solo il
povero ragazzo a cui era toccato in sorte di servire il loro tavolo. La
sua
aria smarrita davanti ad una richiesta che non lasciava
possibilità di salvezza
era sconcertata e grottesca. Il cameriere si affrettò ad
annuire ancora e a
defilarsi velocemente, solo allora Arianna posò i suoi occhi
verdi da gatta
viziata su di lui e snudò tutti i denti
nell’ennesimo, abbagliante sorriso.
«Non mi chiedere il
perché!» lo precedette, dondolando i piedi sotto
la sedia e inclinando ancora
la testa, in quel gesto che doveva essere un vezzo «Non
è una cosa che si possa
dire ad un primo incontro, lo troveresti strano»
Demian squadrò la
sua figura minuta, si accigliò ancora, ma solo
un’istante: era arruffata,
assurda ed emanava una naturalezza che lasciava tranquillamente intuire
che ci
credeva davvero, in quello che aveva appena detto. Era convintissima
delle sue
parole, probabilmente, secondo i suoi standard, Arianna si stava
contenendo, e
la sola idea di quello che avrebbe potuto dire o fare senza alcun freno
lo fece
ridere di gusto.
«Ma hai visto la
faccia di quel poverino?»
Arianna increspò le
labbra in un broncio a paperella «Ora puoi capire
l’importanza del punto due»
osservò risentita, aumentando solo il suo buon umore.
«Ok, visto i
pessimi risultati non credo valga la pena di contenersi. Dimmi il
motivo»
«Ma Dani mi ha
detto che certe cose, se qualcuno non mi conosce, sono
inquietanti»
«Dani?»
«Mio fratello»
Il grumo di
fastidio che già si stava addensando all’altezza
dello stomaco si sciolse
subito, era corrucciata, giocava con le mani sul tavolo e seguiva i
movimenti
delle proprie dita distrattamente.
«Non mi inquieto
facilmente, sono cresciuto con una delle donne più
eccentriche mai esistite» la
tranquillizzò, e Arianna allora si distese, e nel sorridere
i suoi occhi si
strizzarono in due gocce di rugiada verde che lo lasciarono senza
parole.
Il cameriere si
avvicinò di nuovo con le loro ordinazioni, quando
posò la tazza di caffelatte
davanti alla ragazza, lei non perse la sua aria felice «Ok
allora te lo faccio
vedere»
Spostò la tazza in
mezzo al tavolino rotondo, e Demian si sporse a guardare, non sapeva
nemmeno
lui cosa. Una brodaglia beige chiaro, latte sporco, era tutto
ciò che vedeva, e
l’odore nauseante del caffè lo prese a tradimento.
Si scostò con fastidio.
«Non lo assaggi?»
«Non mi piace il
caffè»
«Nemmeno a me, è
amaro» gli fece presente Arianna, confusa «Ma
questo non è semplice caffè,
dovresti berlo. Se non lo bevi, non puoi sentire la magia»
Demian tornò a
sedersi il più lontano possibile, strinse la cannuccia del
suo frappè e la
mosse piano, per prendere tempo.
Non capiva.
«Forse è
inquietante» si ritrovò a dire, con un mezzo
sorriso sghembo che
sdrammatizzasse la sua uscita, ed infatti Arianna scosse la testa,
riprese la
tazza e sbuffò «È solo
perché non capisci. Questo è il colore
dell’universo»
«Che?»
«Ma sì, non lo
sapevi? Il colore dell’universo è caffelatte. Non
è stranissimo?»
Demian, quasi
contagiato, si sorprese a inclinare il capo a sua volta, forse per
capire la
prospettiva con cui guardava lei le cose, ma non gli cambiò
nulla «No, il caffè
non mi piace lo stesso» le fece notare con un sorriso sincero
«Non mi farai
cambiare idea, non lo renderai bevibile»
Allora, sotto il
suo sguardo divertito, Arianna s’imbronciò
metodicamente, arricciò ancora le
labbra sembrando una buffa e sciocca papera, e quell’aria
volta solo ad arruffianarlo
gli strappò l’ennesima, sottile risata.
«È solo perché sei
un bruto, non ci vedi la poesia» borbottò lei,
nascondendosi dietro il muro
delle proprie braccia intrecciate.
«Quale sarebbe?»
Le iridi di Arianna
si accesero di quel suo puerile e tenero entusiasmo che già
gli sembrava di
conoscere da tutta la vita «Quando ho una tazza di caffelatte
tra le mani, mi
viene il buon umore. Hai presente quella storia noiosa che ti dicono
sempre,
che sei pulviscolo, una particella di polvere nell’universo,
praticamente
rispetto al tutto non sei nulla?»
Faceva fatica, a
seguire la sua logica, non gli era chiaro quale volo pindarico quella
testolina
riccia e scapestrata avesse appena compiuto, perciò si
limitò ad annuire.
«Ecco, quando bevo
il caffelatte, è come se fossi io a bere
l’universo ed è lui a essere così
piccolo da stare nelle mie mani» concluse soddisfatta,
prendendo la tazza in
questione e bevendone un lungo sorso.
«Arianna uno,
universo zero. Questo mi mette di buon umore!»
Demian rimase
inizialmente allibito, forse perché ad un certo punto, era
sembrata tanto seria
che era riuscita ad alzare la sua aspettativa, pensava che
l’avrebbe folgorato
con qualcosa d’inimmaginabile. E alla fine l’aveva
anche fatto, a modo suo, ma
un modo tanto assurdo che davvero, davvero per quanto si sforzasse
riusciva
solo a ridere.
E allora lo fece,
diede sfogo a quel divertimento sincero che gli fece venire gli occhi
lucidi.
«Sul serio?»
«Sul serissimo!»
«Mitomane» articolò
a fatica, lasciandosi andare sulla sedia e piegando la testa
all’indietro. Non
era importante che ci fossero altre persone, che guardassero pure, che
vedessero che animale raro aveva davanti, puro e ingenuo come fosse
appena
venuto al mondo.
Arianna si allungò
sul tavolo, distese il collo in un gesto sensuale che quasi gli
strozzò il
respiro, e poi lo ripagò con una linguaccia divertita.
Avevano abbandonato
il locale che il sole era già tramontato.
La via cittadina
era illuminata dai lampioni e dalle vetrine dei negozi. Quella
gradazione calda,
in opposizione con l’oscurità, affascinava Demian,
che osservava il profilo
distratto di Arianna modellarsi nei contrasti di luci e ombre.
Sembrava rilassata
e appagata, aveva l’aria di una persona che era riuscita ad
ottenere tutto ciò
che potesse desiderare, e lui proprio non si spiegava come fosse
possibile. In
quell’atmosfera pacata e serena, dove ormai solo coppiette si
aggiravano
tranquille e la maggior parte della gente si era ritirata per andare a
cenare,
anche Demian si sentì finalmente sciolto da ogni nervosismo.
Si concesse di
osservare Arianna senza provare vergogna, ché tanto lei era
sfuggente e
raccolta nelle sue riflessioni, con quel sorriso che le bagnava il
volto, e i
suoi occhi grandi, scuri come pozzi profondi a causa dei riflessi,
scivolavano sui
manichini esposti nelle vetrine senza un vero interesse, a confermare
che i
vestiti non erano esattamente la sua passione.
Ad un tratto,
inchiodò bruscamente.
Avevano abbandonato
la strada pedonale e si erano inoltrati nel Viale principale che
conduceva alla
stazione, costeggiato da immensi alberi e siepi curate tratteggiate con
più
chiarezza dai fari delle macchine di passaggio. Arianna aveva lasciato
la sua
mano solo per aggrapparsi con irruenza alla manica di pelle della sua
giacca,
ed ora lo strattonava emettendo un acuto verso a lui poco chiaro.
«Che ti prende?»
«Sono
trotolinissimi!» chiosò a voce sufficientemente
alta da far voltare alcuni
passanti. Allora Demian si accorse che a pochi passi da loro
c’era un negozio
di peluches. Arianna quasi si spiaccicò al vetro, e
continuò con entusiasmo
«Guarda quello, quel tucano là in alto che occhi
che ha!»
La sua risata ebbe
l’effetto scrosciante di una cascata e ispirò in
Demian lo stesso senso di
meraviglia e limpidezza. Assecondò l’insistenza
con cui lo invitava ad
avvicinarsi, e si trovò di fronte un pupazzo dalle fattezze
caricaturali, con
gli occhi tondi immensi e vagamente allucinati, ed un corpo
grottescamente più
piccolo e cicciotto.
«È orribile»
constatò senza riflettere, causando il disappunto immediato
di Arianna che
rispose con una non troppo delicata gomitata nel fianco.
Sobbalzò per la
sorpresa e la guardò ad occhi spalancati, ma poi
cozzò contro il suo broncio
infantile e gli sfuggì un sorriso «E tu sei
violenta!»
«No, sei tu che non
capisci niente! Guardalo, è la cosa più bella e
tenera al mondo. Sembra
così morbidoso! Potrei passare ore a
punzecchiargli il pancino»
Davanti a
quest’imprevista rivelazione, Demian non poté
frenare il suo sopracciglio
dall’inarcarsi istintivamente, gesto che fece gonfiare le
guance di Arianna
d’indignazione. Veniva voglia di farle scoppiare come
palloncini, solo per
vederla svuotarsi e poi infiammarsi ancora di più per il
fastidio.
«Non mi guardare
così» bofonchiò, allontanandosi da lui
e liberandogli il braccio.
Dem riacciuffò la
sua mano prima che Arianna potesse intrecciare le braccia al petto, la
trattenne e si ritrovò a guardare sgomento quelle dita
piccole e morbide fra le
sue. Perché quello non era un gesto da lui, normalmente non
lo avrebbe mai
fatto, eppure non aveva potuto farne a meno. Quello avrebbe potuto
essere il
loro unico incontro nella vita, e gli sarebbe stato anche bene, sarebbe
stato
accettabile, ma almeno per una sera, voleva succhiare fino in fondo il
midollo
dell’essenza di Arianna, voleva assorbirla il più
possibile.
Voleva che
quell’incontro casuale, nato da una situazione casuale,
potesse restare
cristallizzato nel tempio della sua memoria come un momento colto e
sublimato,
reso eterno.
Un ricordo di
perfetta serenità di cui poter essere geloso.
«No» le sussurrò
leggero, cercando di nascondere il tremore dell’imbarazzo con
un tono appena
sussurrato.
Arianna lo guardò
negli occhi, sorrise timidamente, una vena di pudore innocente nella
piega
delle labbra, e contraccambiò la stretta.
Con un colpo di
tosse simulato, cercò di riacquistare il giusto
atteggiamento «Non preferisci
qualcosa di più classico? Tipo
quell’orsetto?»
La ragazza arricciò
il naso e le labbra in un’espressione di disgusto eccessiva e
estremamente
buffa «No, sono banali e noiosi. Quel fenicottero
è bello. Mi fa morire dal
ridere!» chiosò di nuovo, additando un altro
peluche con evidenti problemi di
linea.
Ok, le piacciono le
cose inquietanti e possibilmente in
sovrappeso.
Demian rientrava
nella prima categoria, ma si rifiutava perentoriamente di entrare a far
parte
della seconda. Osservò il loro riflesso sfocato nel vetro e
pensò all’effetto
strano che dovevano dare in coppia, erano così diversi: lui,
pallido e vestito
di nero, con le orecchie piene di anelli ed il capo coperto, non
trasmetteva
esattamente un senso di tranquillità e fiducia; per contro,
Arianna era il suo
opposto, con la maglia colorata da hippie e quell’aspetto da
creatura innocente
e serena.
Si sentì fuori
contesto, fermo davanti a quel negozio, per questo le fece una leggera
pressione con la mano, nella speranza di farle intuire il suo disagio.
E Arianna lo guardò
dal basso, spensierata, e capì senza dire una parola,
perché annuì e lo invitò
a seguirlo imboccando una via perpendicolare alla strada principale,
che
conduceva ad una zona residenziale isolata. Quella parte di
città era più
calma, salvo qualche locale notturno che ancora non aveva potuto
esprimere il
meglio visto che non era orario. Passavano molte macchine, ma non
incrociarono
quasi più nessuno sul loro cammino.
La mente di Dami
era annodata in mille domande, non riusciva però a dargli
corpo. Nonostante la
tranquillità che li circondava e il solo rumore del traffico
lontano come
accompagnamento costante di sottofondo, si sentiva soffocato, una mano
sulla
nuca che pesava come se il mondo fosse presente, ad osservare quello
squarcio
di vita che non gli apparteneva e aveva in sé qualcosa
d’intonso, una tela
pulita che aspettava la prima pennellata per definire se stessa.
Quando giunsero in
fondo alla strada, ad una rotonda presieduta dai resti di una torre
arroccata,
rimasuglio delle antiche mura trecentesche della città,
venne folgorato da
un’idea.
«Vieni con me!» e
senza aspettare risposta, si mise a correre trascinandola con
sé, svoltando a
sinistra.
Arianna si lasciò
andare ad una risata che le tolse il respiro e la fece incespicare,
cercò di
riprendere il controllo e alla fine lo superò e si
voltò a guardarlo con le
iridi lucide di divertimento e le guance colorate di rosso per lo
sforzo «Come
sei lento!»
Il dono di quella
ragazzina sottile e all’apparenza fragile, era la
capacità di rendere semplice
anche la situazione più assurda, con una facilità
tale che sentirsi a proprio
agio, con lei, era come respirare, necessario. Che l’avesse
appena conosciuta
era irrilevante, c’era attorno alla sua persona
un’aura di familiarità dolce
come di qualcuno amato da una vita intera.
Ridendo la tirò a
sé, Arianna per la sorpresa inciampò e gli cadde
addosso. Allora, Demian se la
caricò in spalla, in un gioco naturale che aveva sempre
condiviso con Sarah.
Arianna rise
sguaiatamente, cercando di sgusciare alla sua presa come
un’anguilla esagitata,
ma questo rendeva solo più divertente trattenerla.
«Mettimi giù Demi!
Dai!»
A rafforzare quella
sua richiesta strascicata dalla risata, Arianna gli tirò
qualche fiacco pugno
sulle spalle, a cui rispose prontamente con il solletico. La
sentì scattare con
tanta forza che quasi gli cadde, ma non per questo smise di
tormentarla, ne
provò solo un sadico, maggior piacere.
«Smettila, ti
prego!» supplicò con un tono talmente lamentoso
che Demian percepì il pianto
nelle risa, un’ilarità incontenibile a cui si era
lasciata andare senza opporre
resistenza.
«Solo se stai
ferma!»
Si accorse di star
ridendo: proprio lui, rideva come un matto, come non ricordava di
essere in
grado di fare.
«Ok, ho capito,
giuro che ho capito! Faccio la brava, lo prometto, non mi muovo
più!»
Lo distrasse ancora
Arianna, riportando l’attenzione, che per un secondo aveva
allontanato, di
nuovo su di lei.
Avvertì il suo corpo leggero irrigidirsi in maniera
innaturale e la voce di
Arianna uscire forzatamente seria, come se si stesse trattenendo a
fatica ma
non volesse in alcun modo darlo a vedere «Sono una statua,
visto?»
«Le statue non
parlano» le fece notare divertito «Tu è
un miracolo se stai zitta!»
Non
poteva vederla in volto, ma aveva imparato
velocemente che con lei non era necessario. Arianna parlava con ogni
parte del
suo corpo, come se la sua gioia dirompente fosse troppa, e non
riuscisse ad
essere contenuta e allora fuggisse dai pori della sua pelle per
ammantarla di
un alone di spensieratezza.
Il
suono di una pernacchia seguì il respiro
più profondo che le aveva sentito prendere.
«Ti sto facendo una
linguaccia, sappitelo!» sibilò infatti lei, con
atteggiamento fintamente
indisposto.
«Ah, beh, molto
maturo»
Arianna gli abbassò
il cappuccio della felpa e gli sfilò la berretta nera, in un
primo momento
Demian quasi non se ne rese conto.
Solo Sarah si
permetteva un contatto tanto intimo.
Quando il disagio
della consapevolezza si fece avanti, rimase atterrito dalla sua stessa
leggerezza che lo aveva portato a dare troppa confidenza ad
un’estranea. La
rimise a terra, molto bruscamente, ma Arianna non parve farci caso. Si
calcò la
berretta sopra i riccioli scuri e gli sorrise esaltata come una
bambina, con
tutti i denti in bella mostra e le fossette adorabili sulle guance.
Non aveva reagito a
quel suo aspro cambio di reazione, con gli occhi grandi pieni di
meraviglia gli
ricordò un poco Sarah e questa realizzazione improvvisa
delle affinità che le
due streghe avevano lo turbò profondamente.
Mi ignora, non
c’è altra spiegazione
«Dove mi hai portata?» domandò lei,
senza minimamente considerare l’espressione
truce che doveva avere in quel momento per guardarsi attorno, un
animaletto
curioso dal sorriso grande.
Demian accarezzò
con lo sguardo la ringhiera che, dall’altro lato della
strada, celava il parco
più grande della città alla loro vista.
L’aveva portata lì perché Arianna, quel
pomeriggio, aveva condiviso un pezzetto di sé, un luogo che
amava, e forse
avrebbe potuto farlo anche lui, avrebbe potuto condividere qualcosa per
non
essere dimenticato.
Anche fosse stato
solo un giorno, solo quel giorno, sarebbe stato un toccarsi per
lasciarsi un
ricordo, e gli piaceva, il pensiero di essere una piccola spina
nell’anima di
quella ragazza, un fantasma impalpabile che non poteva vedere, ma che
sarebbe
potuto riemergere a volte, donandole un senso di nostalgia. Gli piaceva
l’idea
di poter essere legato, anche solo così, da uno scomparto
seppellito nella
memoria, a qualcosa di bello come lo era lei, a
qualcuno di felice come lei.
«Ti faccio vedere»
Non cercò più un
contatto, ed Arianna non parve accorgersene o finse di non
accorgersene, gli
trotterellò accanto senza spegnere mai la luce dei suoi
occhi.
A Demian quel parco
piaceva particolarmente. Ci portava spesso Sarah quando era
più piccola. L’area
giochi era grande e sua sorella ci si perdeva come una bambina al Luna
Park, ed
era un luogo appartato, sufficientemente grande da permettergli di non
incrociare nessuno se lo desiderava. Ci andava a correre a volte, dopo
la
palestra, e, nei momenti di creatività maggiore, era facile
trovare un buono
spunto per disegnare: gli alberi nodosi ombreggiavano le grandi distese
verdi e
i laghetti artificiali davano una sensazione rinfrescante, come
un’oasi isolata
a cui aggrapparsi nel caos cittadino.
C’erano poi
numerosi sentieri costellati di panchine, poco battuti soprattutto la
sera,
quando la luce dei lampioni e il pesante silenzio davano
un’aria spettrale che
inquietava le persone. I cespugli ben curati delimitavano le aree di
gioco e la
pista dei kart e mentre Arianna lo seguiva taciturna, Demian
contemplava quei
luoghi familiari con un’insolita stretta al petto.
Per molto tempo,
avevano rappresentato momenti felici, vissuti con maman e Sarah, mentre
ora
erano semplicemente mutati in un rifugio riparato dove fuggire quando
la
presenza di sua madre era troppo opprimente. Negli ultimi mesi ci
portava
Lalami, la solitudine pesava anche ad uno come lui, che la cercava
morbosamente, ma con la cagnolina ne soffriva di meno ed allo stesso
tempo
poteva risparmiarsi di parlare.
«Non so perché, ma
credo di esserci già stata» considerò
Arianna ad un tratto, e la trovò con il
mento tra le dita ed i pensieri attorcigliati che le si leggevano in
viso.
«Tutti ci sono
stati almeno una volta»
«Perché sei voluto
venire qui?»
A quella domanda,
gli saltarono i nervi.
Per tutto il tempo
ne aveva ricevute e aveva risposto quasi sempre con
un’onestà inadeguata per
una persona sconosciuta, ma lei si era ben guardata da dargli
soddisfazioni.
Scavava senza remore nell’anima altrui, ma proteggeva la sua
con un egoismo
irritante.
«Non dovevi essere
tu a rispondermi?» l’accusò, vanificando
il pomeriggio trascorso insieme. Si
guardarono negli occhi, e Dem ebbe l’impressione di essere
tornato a qualche
ora prima, davanti all’ospedale, dove aveva seppellito tutte
le rimostranze che
ora premevano per avere il loro spazio.
Ed anche questo, in
realtà, era sorprendente. Non gli succedeva spesso di non
riuscire a reprimere
se stesso, non si spiegava quel cattivo umore che lo aveva pugnalato a
tradimento, ma che potesse esprimerlo tanto facilmente in maniera
diretta e non
con sotterfugi, questo era davvero destabilizzante.
Arianna abbozzò un
sorriso disarmante, velato da una malinconia che lo spinse a
distogliere lo
sguardo e lo svuotò come un palloncino. Riusciva a farlo
sentire meschino per
il semplice fatto di aver provato della rabbia verso di lei.
«Certo, tutto quello
che vuoi» gli disse, poi scrollò le spalle e la
sua espressione si distese e
tornò tersa «Però non con quel tono di
voce»
Si sedette su una
panchina e lo invitò silenziosamente a raggiungerla
picchiettando
insistentemente con la mano sul posto accanto al suo. La
studiò con sospetto,
insicuro, ma alla fine si disse che era una cosina, Arianna, un
fuscello di
ragazza dal sorriso bello, e non avrebbe potuto fargli concretamente
nulla, era
inutile guardarsi le spalle con tanta insistenza.
Si diceva questo,
eppure la sensazione che quella ragazza fosse più pericolosa
di chiunque avesse
mai incontrato non lo abbandonava. Gli si accomodò accanto e
lei gli prese le
mani e lo guidò, rivolgendo i suoi palmi verso
l’alto.
«Che staresti
facendo?»
Davanti alla sua
perplessità, Arianna sollevò gli occhi al cielo,
in un gesto di simulata
esasperazione che gli gridava come facesse ad essere tanto ottuso da
non
comprendere certe “ovvietà”.
«Ristabilisco il
tuo stato zen, ovviamente»
Quel suo assurdo
modo di fare riuscì a spiegargli le labbra in un accenno di
sorriso,
un’increspatura serena che la portò a sua volta a
rilassare le spalle e a
mostrargli ancora tutti i denti in una delle sue espressioni pure e
inermi.
«Perfetto. Bravo
ometto. Ora prendi un bel respiro»
«Ometto?» storse la
bocca e Arianna si accigliò
«Preferivi
soldatino?»
Ci mise qualche
istante a realizzare che era seria e gli stava parlando come fosse un
bambino.
E malgrado fosse paradossale, e fosse anche piuttosto scettico sui
metodi di
quella piccola maliarda dagli occhi verdi, comprese che non era
importante
nulla: con lei non c’era un senso di priorità e
probabilmente nemmeno della
logica, ma non farla contenta era più difficile che opporsi
e cercare di
capirla.
Scosse subito la
testa e chiuse gli occhi, pronto ad assecondarla, prese un grande
respiro, poi
un altro ancora.
«Cosa intendevi
dire, stamattina?»
Arianna piegò la
testa, ormai era certo che solo così quella buffa creatura
manifestasse la
propria perplessità.
«Sì dai, non puoi
non ricordare. Quando hai detto che non dovevo scervellarmi»
In un primo
momento, Arianna arricciò le sue labbra piccole, poi le
distese e ridacchiò
«Quindi ci avevo visto giusto, era questo il tuo problema. Lo
sapevo. Era solo
un modo per incastrarti, tu sei un razionalista, ti si legge in faccia,
prima
di decidere di fare qualcosa ti danni l’anima, non
è vero? “sì, no, forse”, se
non ti avessi messo addosso dei sani dubbi e un briciolo di
curiosità, era
matematico che non mi avresti incontrata. Sicuramente fai
così con tutto»
Dopo essersi
espressa, lo guardò in viso e si tappò
immediatamente la bocca con la mano,
abbassando le palpebre in un’espressione da vittima pentita
volta ad
intenerirlo. Se non fosse stato tanto offeso avrebbe riso di quella
reazione
infantile nel rendersi conto di aver parlato troppo. Non ci
riuscì però, quel
discorso aveva urtato in qualche modo il suo orgoglio, toccando una
corda
inerme che vibrando lo feriva. Cercò di darsi un tono per
non farglielo capire,
ma gli occhi di Arianna parlavano per lei, e quel pentimento sincero
gli
gridava che non c’era riuscito, ad essere indifferente.
Quella ragazza
dall’apparenza angelica, di angelico non aveva nulla.
«E perché avresti
dovuto volermi vedere per forza?» attaccò, non si
accorse di sembrare semplicemente
un randagio messo alle strette, un gattino che si sentiva una tigre e
tentava
di scacciare con la sua zampina un mostro più grande di lui.
Quel viso si
adombrò di un dispiacere sottile ed anche la sua voce
vibrò di una velata e
struggente tristezza, una malinconia latente, soppressa con la
volontà ma
presente in lei come un’altra faccia del suo sorriso
abbagliante. E lui l’aveva
sognata, la sua tristezza, l’aveva intuita, per istinto, fin
dal primo giorno,
aveva colto la sfumatura celata oltre la sua esuberante allegria come
un
contrappeso.
Forse non era un caso, che Arianna lo avesse colpito tanto a fondo,
forse
qualcosa di lei lo aveva capito, un’affinità di
un’anima ferita come la sua,
ritirata dietro a mura dall’aspetto pacifico, ma altrettanto
alte e
inespugnabili.
«Perché sembravi
uno che voleva restare solo» mormorò a disagio,
mordicchiandosi le labbra come
in dubbio, esitante.
E nonostante il
dubbio, gli occhi erano incatenati a suoi, gli occhi di Arianna non
cedevano
mai, erano forti di incrollabili certezze e sicuri delle proprie
fragilità.
Demian si scoprì ad
invidiarla.
«E?» la invitò a
esplicitare un sottinteso che aveva percepito come una stonatura in una
delicata sonata.
La guardò sospirare
e, con quel sospiro, spogliarsi di ogni insicurezza «E
sembravi anche una di
quelle persone che è meglio non lasciare sole quando
vogliono esserlo»
La sua spavalderia
si consumò con quelle poche parole. Arrossì tutto
in una volta e si nascose
calando sugli occhi la berretta nera che, Demian non si era accorto,
stava
indossando ancora lei.
Avrebbe voluto ribattere qualcosa di forte, di distaccato, che non lo
facesse
scivolare nella pateticità del suo essere, ma non gli
sovvenne nulla alla
mente.
Non sapeva come
prendere ciò che gli era appena stato detto con tanta
innocenza, si sentiva
stranamente scollato da quel momento, come potesse guardarsi da fuori,
guardare
lei, l’irrealtà di un attimo che nella sua
esitazione si stava già consumando.
Demian non sapeva
mai come muoversi, di fronte all’interesse altrui. Se ne era
sempre sentito
ferito, perché non aveva mai percepito nulla di genuino
nella pietà, solo un
sentimento che lo declassava e lo faceva apparire debole, mortificato.
In difetto con
tutti, ma soprattutto con se stesso.
Eppure, in Arianna c’era un’acutezza diversa,
familiare, una comprensione che
andava oltre il pietismo di circostanza. Arianna aveva letto tra le
righe ciò
che lui per primo non era in grado di esprimere a voce, aveva raccolto
la sua
solitudine come un fiore e aveva ammirato le sfumature di sole sulla
corolla
martoriata.
Arianna aveva
provato compassione, nella sua radice più profonda e pura,
si era specchiata in
lui e nell’immagine del suo respiro inerme aveva ritrovato se
stessa e aveva
bevuto di sé attraverso i suoi occhi.
Demian rimase
sgomento da quel barlume di certezza, lei aveva compreso
perché erano anime
dissanguate dalla medesima ferita.
«Perché eri in ospedale fuori
dall’orario di visite?» lo domandò con
cautela ed
una nota di tenerezza che era solo partecipazione ad un male che
conosceva, che
lo dilaniava e che sospettava, con amarezza, condividesse anche lei.
Arianna sussultò,
perse per qualche secondo la maschera di compostezza spensierata, un
frammento
di cedimento tante breve che Demi pensò di averlo solo
immaginato, perché poi
la vide sorridere ancora.
Allora sorridere
gli sembrò per la prima volta uno scudo, e pensò
che forse era questo il modo
che lei aveva scelto per gestire la vita, si difendeva da tutto con un
sorriso.
«Questa me
l’aspettavo» ridacchiò, scrollando piano
le spalle, per togliere importanza
alla risposta «È abbastanza complicato. Diciamo
che non stiamo vivendo
situazioni molto diverse, ecco. Conosco tua madre perché
conosco tutte le
persone che sono ricoverate. Mi aiuta a farmi un’idea di come
la cosa sarà
dopo. Non credo ci sia altro da dire»
Demian annuì piano
e non disse altro.
Non c’era molto da
aggiungere, era stata vaga, ma lui per primo conosceva
l’orribile sensazione di
non poter esprimere certe verità ad alta voce,
ché il suono dava corpo ai
mostri e li rendeva più grandi e sovrastanti, più
difficili da tenere a bada.
La confidenza che le aveva strappato bastava, sapere che anche lei
stava
perdendo qualcuno, proprio in quel reparto, per la stessa malattia che
lo
allontanava da maman, illuminava le ombre di
quell’affinità che sentiva per
lei, un elastico teso che pretendeva di potersi riavvicinare, e Arianna
era
l’altro polo, il punto di ritorno.
Il buco nero oltre
il piano inclinato della sua coscienza.
Le prese la mano, la strinse.
Voleva che anche
lei sentisse la medesima consapevolezza che lo aveva attraversato in
quel
preciso istante, un’illusione forse, che però
annientava tutto il resto, non lo
spingeva verso il baratro che gli stringeva il petto, quel senso di
vuoto,
quella voragine, la guardava dall’alto ora, ne provava una
vertigine, e restava
affrancato a quella mano per non scollarsi dalla realtà e
non scivolare nello
sconforto.
Poi lei gli sorrise
in modo diverso, spezzò quel filo di tristezza che li aveva
uniti e rabbrividì
«È già parecchio tardi» gli
fece notare, risvegliandolo «Ci ho messo troppo
oggi ad arrivare, ci siamo persi il pomeriggio. Mi sembra di aver
buttato un
sacco di tempo»
Ormai il buio era
diventato pesante e viscoso, s’intravvedevano le stelle e gli
alberi
scheletrici stringevano il cielo in una morsa di rami.
«Ho lasciato il
motorino in ospedale. Torniamo indietro, così ti accompagno
a casa»
Arianna scosse la
testa «Hai il telefono? Avviso Dani di venirmi a prendere
qui. Conoscendolo è
già là a divorarsi il fegato perché
non mi vede arrivare!»
Si avviarono
lentamente lungo il sentiero, oscuro in lontananza, solo dopo che si
era
accordata con suo fratello. Non avrebbe voluto rientrare, ma faceva
freddo ed
Arianna, vestita con abiti troppo leggeri, tremava un poco e si
rannicchiava
ingenuamente tra le proprie braccia per riscaldarsi. Era disarmante, la
tenerezza che riusciva a suscitargli con un gesto tremendamente banale,
eppure
il modo delicato in cui si raccoglieva nelle proprie spalle e la linea
fragile
del collo che disegnava un leggero arco di luna
nell’oscurità, gli smuovevano
un senso di morbidezza, e capiva che in lei c’era qualcosa di
prezioso. Una
fragilità ignota che la rendeva forte, le conferiva una
bellezza imprevista.
Si sfilò la giacca
di pelle e gliela porse, solo per sentirla ridere di nuovo.
«Ok, questo è un
cliché, caro mio. Mi sembra di essere finita in un film di
serie C, se fai
queste cose!»
Sollevò l’angolo
della bocca nella sua espressione provocatoria «Io non mi
preoccuperei, la
serata non finirà con un bacio, quindi sei al sicuro da
qualunque cliché»
Lo disse per
orgoglio, ma era già pentito di essersi tagliato le gambe da
solo. Era da
quando gli era comparsa davanti che i suoi occhi avevano seguito la
linea di
quelle labbra, sempre umide perché le mordeva assiduamente,
ed un languore
penoso si raccoglieva in un grumo nella gola secca lasciandolo in uno
stato di
sospesa agonia.
Tanto lo sai, non
l’avresti mai nemmeno sfiorata.
Non ne avresti avuto
il coraggio, una ragazza come lei
non merita di essere sporcata.
Arianna indossò la
giacca, incrociò le braccia al petto e gli rispose con un
finto broncio
«Sappi che non
giocherò all’infermierina perversa per farmi
baciare da te!» lo punzecchiò con
precisione millimetrica.
La saliva gli andò
di traverso e si ritrovò a tossire, cercando di riprendere
fiato, con gli occhi
lucidi e l’aria sconvolta. Più per tormentarlo che
per aiutarlo, Arianna lo
supportò con qualche pacca ben poco delicata sulla spalla.
La vergogna per
l’episodio avvenuto la settimana prima tornò a
pungolarlo, sperava davvero che
potesse dimenticarsi di Elena ma, lo intuiva da
quell’espressione malandrina,
la sua era una speranza vana.
Lo costrinse a
distogliere lo sguardo e a pensare che, davvero, gli conveniva fare
attenzione
a non provocarla se non desiderava pagarne le conseguenze.
Arianna cercò la
sua mano, si sorrisero mossi da un imbarazzo diverso, più
consapevole, che lo
liberava di qualsiasi tormento.
Fosse anche stasera,
solo stasera, andrò bene.
Me lo farò
bastare.
Eppure avrebbe
voluto altro, avrebbe voluto di più, anche se era
più semplice convincersi del
contrario per non soffrire di un desiderio mancato. Mentre aspettavano,
Demian
non perse l’occasione di osservare ancora il suo profilo, la
linea morbida
della fronte che scivolava nell’incavo del naso per poi
sollevarsi sulla punta
insolente, come in un moto di orgoglio.
«Noi…»
Annaspava in un
pozzo di parole non dette che lo sommergevano e non gli permettevano di
afferrarle, le cercava nel suo viso sereno, ma quella bellezza
sfacciata non
gli andava incontro, lo sfidava soltanto rendendo più
difficile trovare un
senso.
«Ci… ci vediamo
ancora?»
Arianna sollevò le
sopracciglia, contrasse le labbra belle e alla fine rise di lui
«Ok, io ci
provo a stare buona, ma fai proprio delle domande idiote! Se devi stare
sui
cliché almeno scegline uno utile. Tipo “mi daresti
il tuo numero?”. Almeno
avrebbe senso»
Demian abbassò gli
occhi e si passò una mano sulla nuca, per sentirla scoperta.
Provava sempre una
vergogna bruciante, a restare senza il suo berretto, era quasi come
essere
nudo, eppure quella ragazza aveva superato anche quel disagio senza
neanche
averci provato.
Era venti passi
avanti a lui, se ne sentiva disarmato, come se davanti a quelle iridi
verdi e
intonse perdesse consistenza e forma, per diventare solo desiderio.
Puro e
semplice, primordiale desiderio.
bofonchiò imbronciato «Mi daresti il tuo
numero?» per
sentirsi rispondere «Non ho il cellulare!»
Rideva con
l’espressione furba di chi si stava prendendo gioco di lui e
le mani sullo
stomaco, quasi a contenere quell’ilarità che le
rendeva gli occhi lucidi.
«Ma sei stata tu a
dirmi di chiedertelo!»
Arianna scosse la
testa ed i capelli, una massa oscura e indefinita nel buio, si mossero
ridisegnando i contorni del suo volto «Erroneo. Ti ho detto
che sarebbe stato
più logico chiedermi il numero, non che avresti dovuto
chiedermelo»
Dem si passò ancora
una mano fra i capelli candidi, poi la fece scivolare sul viso
stropicciando
rudemente la pelle, un rito per scacciare la disperazione.
«E quindi? Che
dovrei fare?»
«Dovresti darmi il
tuo numero. Ti chiamerò io, sarà più
semplice»
Si tolse il capello, liberando la massa indomita e scarmigliata di
ricci, si
alzò sulle punte e glielo calcò in testa,
tirandoglielo sugli occhi. Non la
vedeva, ma sentiva le dita fredde sulle guance, percepiva quel leggero
ridacchiare che scovava in ogni dettaglio qualcosa per cui valeva la
pena
ridere. Arrotolò il bordo del berretto e ricambiò
il sorriso che lo aspettava,
con gli incisivi divisi, oltre l’oscurità della
stoffa.
Una macchina
rallentò costeggiando il marciapiede pochi metri
più avanti, proprio mentre
Demian finiva di dettarle il numero. Il finestrino si
abbassò con un ronzio,
mostrando il volto di un ragazzo piazzato, con i capelli ricci e iridi
forse
verdi.
La linea da felino
indolente degli occhi dallo sguardo pungente, li rendeva indubbiamente
fratelli
nonostante i tratti del volto di Daniele più rudi, sbozzati
come incisioni
nella pietra, spigolosi.
«Puffetta, potevi
avvisarmi prima. Ti stavo aspettando già da
un’ora»
Demian si concentrò su di lui, alla ricerca di
qualcos’altro nella sua persona
che non gli trasmettesse un rigetto a pelle, poi si dedicò
ad Arianna, si
accorse che era arrossita.
«Devo andare»
Fece per togliere
anche la giacca, ma Demian la fermò con un leggero sorriso
«Tienila pure. Così
sono sicuro che ti rifarai viva» glielo disse chinandosi
sulla sua figura
minuta, per non farsi sentire dal nuovo venuto.
Daniele non aveva
distolto l’attenzione da lui, nemmeno un attimo,
l’espressione arcigna e
sospettosa non lo abbandonava.
«Puffetta, muoviti»
«Arrivo, arrivo!»
urlò quasi, non preoccupandosi di non far trasparire tutta
la sua irritazione.
Tornò a guardarlo, e Demian s’intenerì
di quell’aria mesta.
«Buonanotte Demi,
vedi di fare il bravo!»
Non riuscì a
risponderle, non con prontezza. Era carina quando
s’imbronciava, era un buon
“ultimo ricordo”, nel caso non avessero avuto altre
occasioni. Arianna,
rinunciando ad un suo congedo, abbozzò l’ultimo
saluto con la mano e fece per
voltarsi, allora Dem allungò il braccio verso di lei,
pietrificandola per la
sorpresa.
Era una carezza di
dita leggera, la sua, sulla guancia morbida. Si abbassò un
poco, per portarsi
all’altezza del suo viso, e sorrise lieve quando la vide
abbassare le palpebre
lentamente, come un invito. Posò le labbra in un bacio
soffice sulla sua
fronte, si scostò e le sorrise ancora, per la bocca schiusa
e l’aria scossa,
per la dolcezza che emanava.
«Visto? Nessun
cliché. Buonanotte Annie»