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Autore: lady igraine    26/03/2017    0 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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À Demian


Capitolo ottavo

Annie

«Ehi! Speravo che avresti aspettato»

 

Arianna era bella.

Era una vertigine improvvisa, l’ultimo gradino mancato della scala che mozzava a tradimento il respiro, una strana voragine nel petto in cui i battiti si perdevano risucchiati in un’emozione troppo complessa e inattesa per essere definita. Un brivido che gli aveva afferrato la nuca e si era sciolto nel sangue in ebrezza liquida, in un languore depositato dolcemente sullo stomaco di fronte alla sfuggevolezza di quel sorriso solare, leggero come un raggio di luce e tiepido di una stanchezza vaga, appena percepibile, un piegarsi di labbra che accennava due morbide fossette agli angoli della bocca.

Tutto il resto, la comprensione più completa di lei, della sua presenza, venne solo dopo qualche istante di rapimento, una visione sgranata che lentamente acquisiva nitidezza.

Arianna era bella e incurante, non si sapeva vestire. La sua aria trafelata era solo accentuata dalla maglietta grande. La scollatura a barca scopriva la delicata linea del collo che si congiungeva, levigata e sensuale di una fragilità tenera, con un arco cedevole alla spalla sottile, mangiata dalle maniche larghe. Le braccia magre, nascoste da una doppia manica, sembravano piccole come quelle di una bambina e, come se una bambina lo fosse, le mani erano nascoste dalla stoffa abbondante. Le dita giocavano con l’orlo in movimenti che smascheravano il sentimento di calma apparente emanato dal suo volto.

I fuseaux neri rendevano le sue gambe all’apparenza persino più magre e lunghe come steli, modellate in curve delicate.

 Demian le accompagnò con lo sguardo, sentendo la bocca arida.

 La ripercorse lentamente, notò le scarpe da ginnastica dal colore verde fluorescente, ed infine si riaggrappò ai dettagli del suo viso, i capelli sciolti e sconvolti che le coprivano le orecchie e i ricci sfatti che come ragnatele crepavano la porcellana della fronte.

Arianna strinse la cinghia di stoffa della sua borsa a tracolla e si appoggiò leggera al muro, senza aggiungere una parola. Lo studiava con un’intensità disturbante, un’espressione di profonda, pacata calma accompagnata da un guizzo inafferrabile come il riflesso delle scaglie di un pesce appena intravvisto sotto la superficie piatta di un lago e subito scomparso. Dava l’idea di una serenità quieta, eppure Demian continuava a percepire la sensazione di mulinelli d’acqua imprevisti, in quelle iridi chiare, l’impressione che, se non avesse fatto attenzione, un’oscillazione di quello sguardo l’avrebbe trascinato in un vortice in cui avrebbe finito con l’affogare.

Strinse le labbra e si decise a domandare, in modo brusco, per riprendere una certa distanza che in quei pochi istanti aveva sentito sfumare «Non odiavi i ritardi?»

E pensò comunque di essere stato fin troppo delicato, considerato quanto aveva aspettato, quanto era stato idiota a restare in attesa senza neanche conoscerne il motivo.

La ragazza piegò il capo, come un cucciolo curioso di fronte a qualcosa di sconosciuto «Perché sei rimasto?»

Un’altra vertigine, un battito mancato, per la vergogna, la cocente, bruciante vergogna di non avere nulla con cui ribattere.

 

Perché non puoi semplicemente rispondermi?

Sono io a pretendere troppo?

 

Arianna si scostò dal muro, scrollò le spalle e gli occhi si accesero di comprensione, una luce che dava una sfumatura di curiosità e intelligenza viva al suo viso.

«Mi ero dimenticata, sono io che devo dirti perché sei rimasto, giusto? Ho promesso di rispondere»

Inclinò le labbra in un gesto ironico, che lo spiazzò.

Arianna si avvicinò e gli strinse la mano senza pensarci troppo, poi con una pressione in realtà molto debole, dal sapore dell’invito, cercò di trascinarlo con sé «Non parliamone qui però. Non abbiamo molto tempo prima che sia buio, e questo posto mi deprime davvero tanto! Andiamo da un’altra parte»

Fu come ricevere una scossa.

Demian puntò i piedi, strinse le labbra tanto da farsi male e, quando Arianna si volse a guardarlo con la fronte corrucciata per il suo silenzio, ebbe la certezza che lei avesse già capito, ma stesse cercando un modo di uscirne senza doversi sbilanciare.

Forse, non aveva colto solo la sua rabbia, ma anche l’affilata umiliazione che aveva provato pensando ad un rifiuto. La osservò prendere un profondo respiro, piegare ancora la testa lasciando che i ricci le scivolassero sulle guance chiare, come a studiarlo da una diversa prospettiva, e constatare solamente «Ti sei offeso»

Non arrabbiato: offeso.

Comprese che era vero: non era semplicemente incollerito, era offeso. E si meravigliò quando si accorse che gli bastava che Arianna lo avesse capito, perché quel sentimento svilente si riducesse e ritirasse nei recessi del suo essere.

«Mi dispiace. Cioè mi dispiace davvero, intendo! Non quei “mi dispiace” da convenzione, effetto contentino che si usano quando qualcuno ti tiene il muso e tu proprio non ne hai voglia, io dico uno di quelli onesti, anche se non hai un motivo vero per credermi in effetti, e io non saprei nemmeno che dirti per convincerti del contrario perché, dai, non mi conosci neanche e quindi, o ti fidi sulla parola o mi molli qui e adesso, che poi ne avresti tutte le ragioni, ma a me dispiacerebbe comunque tantissimo, perché sono stata trattenuta contro la mia volontà e ti assicuro che non vedevo l’ora di essere qui e ho dannato l’anima a tutti quanti perché mi lasciassero uscire prima, ma al solito non mi ascolta mai nessuno. Che poi quando ti ho detto che odio i ritardi avrei dovuto essere più onesta, io sono sempre in ritardo, ma odio aspettare i ritardatari…. Paradossale, eh? Anche un po’ da carogna probabilmente, però non posso farne a meno, aspettare mi mette l’ansia e tu hai l’aria di uno che si fa i cavoli propri, mi spiace davvero!»

Demian spalancò gli occhi e schiuse la bocca. Aveva pensato di interromperla almeno dieci volte, ma Arianna lo aveva sommerso con quell’ondata di parole senza prendere mai fiato e, alla fine, di tutto il discorso Dami aveva colto a malapena il senso. Sollevò subito la mano, approfittando della pausa di respiro un poco più lunga, per farle cenno di fermarsi, perché sembrava intenzionata a ricominciare il suo sommergente monologo e non solo il viso di lei era divenuto rosso in maniera preoccupante, ma soprattutto non era sicuro di avere la forza di sopportare ancora minuti interi di frasi prive di qualsivoglia logica.

Di tutto, forse l’unica cosa che avrebbe avuto interesse a conoscere, sarebbe stata la ragione del ritardo, e normalmente -almeno secondo le convenzioni più banali- sarebbe stata quella la prima cosa che si sarebbe dovuta dire per tirarsi fuori d’impaccio.

Eppure, se ne accorse con disappunto, Arianna aveva glissato su quell’argomento con palese ovvietà, pungolando così la parte più curiosa del suo essere, costretta a languire dal freno spietato della propria indole discreta che non gli avrebbe mai concesso di esprimere apertamente quella domanda.

Accettò con un sospiro dimesso di restare nell’ignoranza più completa, ché aveva un buon intuito, e l’intuito gli diceva che quella ragazza strana non si era semplicemente dimenticata di dirgli i suoi motivi, aveva chiaramente deciso di non condividerli e basta.

«Oui, oui, bien sûr, je comprends, mais arrêtez ça, s'il te plaît

«Eh?»

Arianna lo fissò sgomenta e, con ancor più sgomento, Demian si accorse di essersi lasciato sfuggire la propria lingua. Era un istinto che normalmente emergeva solo con sua sorella, eppure qualcosa di esasperante e tremendamente familiare in quella sconosciuta lo aveva indotto a rilassarsi.

«Tranquilla, non fa nulla. Va bene così» balbettò riannodando i bordi sfilacciati delle proprie sensazioni.

La situazione gli stava sfuggendo di mano, il terreno sotto i suoi piedi era mutato in una scivolosa lastra di ghiaccio pronta a creparsi al primo passo falso, e lui riusciva solo a restare immobile, in precario equilibrio in attesa di un miracolo che non lo facesse ingoiare dal gelo.

«Allora andiamo?» ripeté lei, calda di un sorriso estatico e soddisfatto, tenero da suscitare il desiderio di afferrarle la guancia e strizzarla, come faceva sempre sua nonna.

Arianna gli porse la mano, Demian la fissò incerto, ne studiò la forma infantile, le dimensioni piccole e dall’apparenza soffice e debole, una mano fatta per accarezzare, per accogliere nel suo palmo solo dolcezza.

La strinse, ma senza convinzione, mollemente. Lasciò che fosse lei a scegliere l’intensità di quel legame mentre Arianna intrecciava spensieratamente le loro dita, e decise di restare in disparte, a osservare quello squarcio di bellezza che lei gli stava donando come uno spettatore dubbioso, perché non lo sapeva, fin dove voleva spingersi. L’ingenuità primordiale di Arianna non gli permetteva di comprenderne le intenzioni.

L’ospedale distava quasi venti minuti dal centro proseguendo a piedi, eppure la ragazza non accennò a dirigersi alla fermata del bus e Demian, senza porsi troppe domande, tenne il suo passo docilmente.

Arianna trasmetteva un senso di pace, emanava una forza interiore solida e insondabile in perfetto accordo con il suo essere, in un equilibrio incomprensibile che avrebbe quasi potuto stonare, con quel suo aspetto stropicciato da bambina arruffata.

Eppure Demian la guardava, non riusciva a smettere di guardarla dall’alto di quei suoi dieci centimetri in più, con riserbo, un pudore che pensava di non possedere più e invece aveva giaciuto in qualche luogo remoto e inutilizzato del suo sé in attesa di essere rispolverato, una veste che aveva abbandonato fin dall’età più tenera e forse era ancora intatta, non era perduta.

Nonostante gli atteggiamenti infantili, i gesti di Arianna erano accompagnati da un’insolita eleganza, per nulla ricercata, spontanea nella dolcezza di un movimento inconscio. Una sensualità latente e immatura nel modo delicato con cui fletteva il collo o camminava, dritta come un fuso, come se il suo corpo tendesse verso l’alto, leggero, appeso ad un filo teso da cui si sgranavano una ad una le vertebre della sua schiena, in una curva leggera e raffinata.

Ed allora gli si seccava la gola ed un calore che non avrebbe voluto provare si annidava nel basso ventre e capiva che quello era il potere di Arianna, il suo essere acerba, l’ingenuità della sua essenza che si rifletteva nel suo aspetto esteriore rendendola fragile in maniera disarmante.

Almeno fino a quando non parlava e fino a quando i suoi occhi vispi guardavano altro, inseguivano la linea dell’orizzonte e pensieri che Demian non poteva nemmeno immaginare.

Perché poi, quando di tanto in tanto, pareva ricordarsi di lui, ricambiava le sue occhiate fugaci con una forza che spazzava via ogni sua spavalderia per costringerlo a distogliere lo sguardo. Se non lo avesse fatto, se avesse provato e sostenere occhi tanto belli e ruffiani, avrebbe finito con lo strapparsi l’anima e donargliela spontaneamente, per non dover tentare lo sforzo di resisterle.

In questo, Arianna gli ricordava Sarah.

L’asfalto aveva ceduto il posto ai sampietrini e, dopo aver attraversato un incrocio, imboccarono un lungo porticato medievale di grosse pietre grigie che conduceva alla zona pedonale, senza dedicare particolare attenzione ai negozi di antiquariato e mobilia che si srotolavano alla loro destra, oscurati dall’assenza di luce naturale.

Solo quando superarono il colorificio Demian ebbe un sussulto di esitazione. Quello era il suo negozio preferito, dove si procurava sia il materiale scolastico che quello ad uso prettamente personale. In vetrina, una valigia da centoventi pastelli in gradazione cromatica gli fece desiderare di entrare seduta stante e farsi un regalo. Non ebbe però il coraggio di far presente la voglia di potersi fermare anche solo un momento. La ragazza al suo fianco lo scrutò arricciando le labbra, come avesse intuito un suo repentino cambio di umore, come una bambina dagli occhi grandi, e allora si affrettò a scuotere la testa per deviare l’attenzione.

Forse concederle quel pezzo di mondo, anche se quel negozio era solo un buco, era troppo, era darle l’accesso alla sostanza che componeva la sua essenza vitale. L’arte era un pensiero sublime che inchiodava la sua anima inerme, un segreto che, se condiviso, l’avrebbe spogliato di ogni difesa per lasciarlo nudo di fronte alla realtà, debole.

Un mollusco senza conchiglia.

E Arianna era bellezza, bellezza che avrebbe forse potuto arricchire quell’arte, ma ad un prezzo che non poteva sapere se sarebbe stato equo, per questo non le disse nulla.

La piazza triangolare in cui sfociava il porticato era riempita da una fontana centrale, dal taglio moderno e disadorno, asettico, che Demian non aveva mai particolarmente apprezzato. L’aria era fresca ma non fredda, per questo i tavolini all’aperto di un bar, protetti da ombrelloni squadrati e delimitati da eleganti fioriere, erano invasi da persone e bambini. La calma che li aveva accompagnati si saturò di suoni. La strada proseguiva in salita, conduceva ad una chiesa antica e discretamente famosa, sulla destra invece, si snodava la principale via del centro: un susseguirsi di negozi di vestiario, gioiellerie, e tre librerie - a cui di solito Demian faceva tappa, prima di comprare un libro, per scegliere un’edizione che lo soddisfacesse- tutti incastonati in edifici storici dai colori vivaci. C’era una grande quantità di gente, gruppi di ragazzi, signore con cagnolini di piccola taglia vestiti come imbarazzanti bamboline. Sul bordo della strada pedonale, alcuni artisti intrattenevano capannelli di persone raccolte in cerchio tutt’attorno, ed un paio di bancarelle vendevano fiori spiegazzati.

«Vieni di qua, ti porto nel mio posto preferito!» lo incoraggiò Arianna, con un sorriso che avrebbe potuto tranquillamente accecarlo.

Il suo posto preferito, si rivelò essere un bar-gelateria, con l’ingresso in una galleria e pochi tavolini da esterno bianchi con le seggiole rosse.

Demian ci era passato davanti molte volte e lo conosceva, tutta la facciata che si offriva alla strada era in vetro ed era possibile osservare l’interno, ma non ci era mai entrato. Sembrava un luogo per famiglie, e Dem non aveva mai frequentato luoghi per famiglie negli ultimi anni.

Il bancone offriva una notevole varietà di gelati nonostante il periodo dell’anno, ma era impensabile avvicinarsi visto il gruppo di bambini chiassosi e genitori petulanti che si accatastavano gli uni sugli altri neanche quella fosse l’ultima scorta di cibo sulla terra e dovessero fare prima per non morire di fame. Arianna si fece notare da un cameriere prima di salire al piano superiore, attraverso una scala a chiocciola con la balaustra d’acciaio, nascosta in un angolo, che non aveva notato tanto era discreta. Si accorse anche di un piano inferiore passando davanti all’ingresso ad arco della taverna, perché arrivava il crepitio di una televisione, la telecronaca di una qualche partita. Di sopra, le pareti erano rivestite di finta pietra e il parquet chiaro unito alla luce naturale proveniente dalle vetrate dava a locale un aspetto arioso. Solo un paio di tavoli erano occupati, separati da piccoli muretti decorati da piante, ma c’era la musica a colmare l’assenza di brusii che avrebbe reso l’ambiente triste e Demian tirò un sospiro di sollievo per quella calma ritrovata. Aveva voglia di fumare, ma non voleva farlo davanti ad Arianna, voleva farle una buona impressione.

Nell’insieme era un bar come un altro, abbastanza banale perché non riuscisse a capire cosa lo rendesse speciale per la ragazza.

«Che fortuna, il mio posto preferito è libero!» si entusiasmò lei, trascinandolo in fondo alla sala, vicino alla vetrata. Si poteva osservare il viale sottostante e c’era qualcosa di pittoresco in quella visione dall’alto che Demian non si sarebbe mai aspettato, per questo ancora non parlò, rimase perso nella contemplazione di quelle figure sfocate come macchie di colore disciolte nell’acqua, un quadro impressionista dalle sfumature ombrose del sole che calava e mostrava l’oscurità di quel mondo, l’altro lato della medaglia.

Un viaggio oltre lo specchio.

Arianna ridacchiò «Lo sapevo che ti piaceva. Era coerente con quel tuo aspetto da bohemien»

Demian si schiarì la voce e tornò a concentrarsi su di lei, allora Arianna gli passò il menù e adagiò il viso nelle mani a coppa, sfoggiando l’espressione furba di una bambina pronta a fare un dispetto. Forse leggeva davvero troppo, ché quell’atteggiamento lo fece pensare a Tom Sawyer e quell’associazione lo fece sorridere.

«Tu non ci guardi?»

«No, so già cosa prendere» rispose sicura.

Demian, in imbarazzo, si passò una mano sul collo e si morse la parte interna della guancia. Arianna era disagiante, non la smetteva di fissarlo senza filtri, dritto negli occhi, senza un motivo apparente.

«Cosa?»

La osservò raddrizzarsi immediatamente, ridacchiare e portarsi la mano davanti al volto, per tenere il conto con le dita, come se davvero fosse una bambina. Doveva aver conservato certe puerili abitudini che la rendevano adorabile e stemperavano il suo nervoso.

«Ci sono ben due motivi per venire qui!» dichiarò con un sorriso incompleto, una sola fossetta all’angolo della bocca «Primo: fanno un frappè al cocco che è la fine del mondo, il più buono della mia vita. Ne berrei a litri! Secondo: se gli chiedo di farmi il cappuccio in un certo modo, me lo fanno come lo voglio io»

A leggere tutta quella soddisfazione per qualcosa di tanto banale, Dem non riuscì a trattenere una risata «Tutto qui?»

«Ehi, sono validi argomenti!»

«Mi aspettavo qualcosa di più»

Arianna fece spallucce e storse il naso «Ti aspetti troppo dall’abitudine, vengo qui con mio fratello da sempre, non c’è nessun racconto epico dietro»

In quel momento si avvicinò il cameriere con il taccuino alla mano.

Demian non aveva scelto niente, né aveva una qualche idea di cosa prendere in un bar di quel genere e in compagnia di una ragazza come lei. Normalmente si sarebbe dato ad una birra, ma poi la guardava e gli sembrava di accostare due elementi che non avevano nulla da spartire.

«Un frappè al cocco» lo disse senza rifletterci, ed Arianna s’illuminò come un albero di Natale.

«Allora ti ho convinto!» si gonfiò di orgoglio, poi tornò a guardare il povero ragazzo in attesa, in piedi accanto a lei.

«Io vorrei una tazza di caffelatte, per favore» lo disse con un entusiasmo eccessivo che gli fece corrugare la fronte per la confusione. Non capiva perché, aveva l’impressione che qualsiasi cosa potesse animarla, come traesse da qualunque sciocchezza un soffio di vita. Il cameriere annuì e fece per andarsene, ma Arianna lo richiamò all’istante «Mi raccomando: caffelatte, non cappuccio!»

«Sì, signorina»

Si voltò e Arianna lo fermò di nuovo «Niente schiuma! E non esagerate con il caffè. Deve essere beige, tipo. Il colore è fondamentale, ricordalo. Beige chiaro, altrimenti non ha senso»

Demian rimase basito, schiuse le labbra e pensò che forse, più stranito di lui c’era solo il povero ragazzo a cui era toccato in sorte di servire il loro tavolo. La sua aria smarrita davanti ad una richiesta che non lasciava possibilità di salvezza era sconcertata e grottesca. Il cameriere si affrettò ad annuire ancora e a defilarsi velocemente, solo allora Arianna posò i suoi occhi verdi da gatta viziata su di lui e snudò tutti i denti nell’ennesimo, abbagliante sorriso.

«Non mi chiedere il perché!» lo precedette, dondolando i piedi sotto la sedia e inclinando ancora la testa, in quel gesto che doveva essere un vezzo «Non è una cosa che si possa dire ad un primo incontro, lo troveresti strano»

Demian squadrò la sua figura minuta, si accigliò ancora, ma solo un’istante: era arruffata, assurda ed emanava una naturalezza che lasciava tranquillamente intuire che ci credeva davvero, in quello che aveva appena detto. Era convintissima delle sue parole, probabilmente, secondo i suoi standard, Arianna si stava contenendo, e la sola idea di quello che avrebbe potuto dire o fare senza alcun freno lo fece ridere di gusto.

«Ma hai visto la faccia di quel poverino?»

Arianna increspò le labbra in un broncio a paperella «Ora puoi capire l’importanza del punto due» osservò risentita, aumentando solo il suo buon umore.

«Ok, visto i pessimi risultati non credo valga la pena di contenersi. Dimmi il motivo»

«Ma Dani mi ha detto che certe cose, se qualcuno non mi conosce, sono inquietanti»

«Dani?»

«Mio fratello»

Il grumo di fastidio che già si stava addensando all’altezza dello stomaco si sciolse subito, era corrucciata, giocava con le mani sul tavolo e seguiva i movimenti delle proprie dita distrattamente.

«Non mi inquieto facilmente, sono cresciuto con una delle donne più eccentriche mai esistite» la tranquillizzò, e Arianna allora si distese, e nel sorridere i suoi occhi si strizzarono in due gocce di rugiada verde che lo lasciarono senza parole.

Il cameriere si avvicinò di nuovo con le loro ordinazioni, quando posò la tazza di caffelatte davanti alla ragazza, lei non perse la sua aria felice «Ok allora te lo faccio vedere»

Spostò la tazza in mezzo al tavolino rotondo, e Demian si sporse a guardare, non sapeva nemmeno lui cosa. Una brodaglia beige chiaro, latte sporco, era tutto ciò che vedeva, e l’odore nauseante del caffè lo prese a tradimento. Si scostò con fastidio.

«Non lo assaggi?»

«Non mi piace il caffè»

«Nemmeno a me, è amaro» gli fece presente Arianna, confusa «Ma questo non è semplice caffè, dovresti berlo. Se non lo bevi, non puoi sentire la magia»

Demian tornò a sedersi il più lontano possibile, strinse la cannuccia del suo frappè e la mosse piano, per prendere tempo.

Non capiva.

«Forse è inquietante» si ritrovò a dire, con un mezzo sorriso sghembo che sdrammatizzasse la sua uscita, ed infatti Arianna scosse la testa, riprese la tazza e sbuffò «È solo perché non capisci. Questo è il colore dell’universo»

«Che?»

«Ma sì, non lo sapevi? Il colore dell’universo è caffelatte. Non è stranissimo?»

Demian, quasi contagiato, si sorprese a inclinare il capo a sua volta, forse per capire la prospettiva con cui guardava lei le cose, ma non gli cambiò nulla «No, il caffè non mi piace lo stesso» le fece notare con un sorriso sincero «Non mi farai cambiare idea, non lo renderai bevibile»

Allora, sotto il suo sguardo divertito, Arianna s’imbronciò metodicamente, arricciò ancora le labbra sembrando una buffa e sciocca papera, e quell’aria volta solo ad arruffianarlo gli strappò l’ennesima, sottile risata.

«È solo perché sei un bruto, non ci vedi la poesia» borbottò lei, nascondendosi dietro il muro delle proprie braccia intrecciate.

«Quale sarebbe?»

Le iridi di Arianna si accesero di quel suo puerile e tenero entusiasmo che già gli sembrava di conoscere da tutta la vita «Quando ho una tazza di caffelatte tra le mani, mi viene il buon umore. Hai presente quella storia noiosa che ti dicono sempre, che sei pulviscolo, una particella di polvere nell’universo, praticamente rispetto al tutto non sei nulla?»

Faceva fatica, a seguire la sua logica, non gli era chiaro quale volo pindarico quella testolina riccia e scapestrata avesse appena compiuto, perciò si limitò ad annuire.

«Ecco, quando bevo il caffelatte, è come se fossi io a bere l’universo ed è lui a essere così piccolo da stare nelle mie mani» concluse soddisfatta, prendendo la tazza in questione e bevendone un lungo sorso.

«Arianna uno, universo zero. Questo mi mette di buon umore!»

Demian rimase inizialmente allibito, forse perché ad un certo punto, era sembrata tanto seria che era riuscita ad alzare la sua aspettativa, pensava che l’avrebbe folgorato con qualcosa d’inimmaginabile. E alla fine l’aveva anche fatto, a modo suo, ma un modo tanto assurdo che davvero, davvero per quanto si sforzasse riusciva solo a ridere.

E allora lo fece, diede sfogo a quel divertimento sincero che gli fece venire gli occhi lucidi.

«Sul serio?»

«Sul serissimo!»

«Mitomane» articolò a fatica, lasciandosi andare sulla sedia e piegando la testa all’indietro. Non era importante che ci fossero altre persone, che guardassero pure, che vedessero che animale raro aveva davanti, puro e ingenuo come fosse appena venuto al mondo.

Arianna si allungò sul tavolo, distese il collo in un gesto sensuale che quasi gli strozzò il respiro, e poi lo ripagò con una linguaccia divertita.

 

Avevano abbandonato il locale che il sole era già tramontato.

La via cittadina era illuminata dai lampioni e dalle vetrine dei negozi. Quella gradazione calda, in opposizione con l’oscurità, affascinava Demian, che osservava il profilo distratto di Arianna modellarsi nei contrasti di luci e ombre.

Sembrava rilassata e appagata, aveva l’aria di una persona che era riuscita ad ottenere tutto ciò che potesse desiderare, e lui proprio non si spiegava come fosse possibile. In quell’atmosfera pacata e serena, dove ormai solo coppiette si aggiravano tranquille e la maggior parte della gente si era ritirata per andare a cenare, anche Demian si sentì finalmente sciolto da ogni nervosismo. Si concesse di osservare Arianna senza provare vergogna, ché tanto lei era sfuggente e raccolta nelle sue riflessioni, con quel sorriso che le bagnava il volto, e i suoi occhi grandi, scuri come pozzi profondi a causa dei riflessi, scivolavano sui manichini esposti nelle vetrine senza un vero interesse, a confermare che i vestiti non erano esattamente la sua passione.

Ad un tratto, inchiodò bruscamente.

Avevano abbandonato la strada pedonale e si erano inoltrati nel Viale principale che conduceva alla stazione, costeggiato da immensi alberi e siepi curate tratteggiate con più chiarezza dai fari delle macchine di passaggio. Arianna aveva lasciato la sua mano solo per aggrapparsi con irruenza alla manica di pelle della sua giacca, ed ora lo strattonava emettendo un acuto verso a lui poco chiaro.

«Che ti prende?»

«Sono trotolinissimi!» chiosò a voce sufficientemente alta da far voltare alcuni passanti. Allora Demian si accorse che a pochi passi da loro c’era un negozio di peluches. Arianna quasi si spiaccicò al vetro, e continuò con entusiasmo «Guarda quello, quel tucano là in alto che occhi che ha!»

La sua risata ebbe l’effetto scrosciante di una cascata e ispirò in Demian lo stesso senso di meraviglia e limpidezza. Assecondò l’insistenza con cui lo invitava ad avvicinarsi, e si trovò di fronte un pupazzo dalle fattezze caricaturali, con gli occhi tondi immensi e vagamente allucinati, ed un corpo grottescamente più piccolo e cicciotto.

«È orribile» constatò senza riflettere, causando il disappunto immediato di Arianna che rispose con una non troppo delicata gomitata nel fianco.

Sobbalzò per la sorpresa e la guardò ad occhi spalancati, ma poi cozzò contro il suo broncio infantile e gli sfuggì un sorriso «E tu sei violenta!»

«No, sei tu che non capisci niente! Guardalo, è la cosa più bella e tenera al mondo.  Sembra così morbidoso! Potrei passare ore a punzecchiargli il pancino»

Davanti a quest’imprevista rivelazione, Demian non poté frenare il suo sopracciglio dall’inarcarsi istintivamente, gesto che fece gonfiare le guance di Arianna d’indignazione. Veniva voglia di farle scoppiare come palloncini, solo per vederla svuotarsi e poi infiammarsi ancora di più per il fastidio.

«Non mi guardare così» bofonchiò, allontanandosi da lui e liberandogli il braccio.

Dem riacciuffò la sua mano prima che Arianna potesse intrecciare le braccia al petto, la trattenne e si ritrovò a guardare sgomento quelle dita piccole e morbide fra le sue. Perché quello non era un gesto da lui, normalmente non lo avrebbe mai fatto, eppure non aveva potuto farne a meno. Quello avrebbe potuto essere il loro unico incontro nella vita, e gli sarebbe stato anche bene, sarebbe stato accettabile, ma almeno per una sera, voleva succhiare fino in fondo il midollo dell’essenza di Arianna, voleva assorbirla il più possibile.

Voleva che quell’incontro casuale, nato da una situazione casuale, potesse restare cristallizzato nel tempio della sua memoria come un momento colto e sublimato, reso eterno.

Un ricordo di perfetta serenità di cui poter essere geloso.

«No» le sussurrò leggero, cercando di nascondere il tremore dell’imbarazzo con un tono appena sussurrato.

Arianna lo guardò negli occhi, sorrise timidamente, una vena di pudore innocente nella piega delle labbra, e contraccambiò la stretta.

Con un colpo di tosse simulato, cercò di riacquistare il giusto atteggiamento «Non preferisci qualcosa di più classico? Tipo quell’orsetto?»

La ragazza arricciò il naso e le labbra in un’espressione di disgusto eccessiva e estremamente buffa «No, sono banali e noiosi. Quel fenicottero è bello. Mi fa morire dal ridere!» chiosò di nuovo, additando un altro peluche con evidenti problemi di linea.

 

Ok, le piacciono le cose inquietanti e possibilmente in sovrappeso.

 

Demian rientrava nella prima categoria, ma si rifiutava perentoriamente di entrare a far parte della seconda. Osservò il loro riflesso sfocato nel vetro e pensò all’effetto strano che dovevano dare in coppia, erano così diversi: lui, pallido e vestito di nero, con le orecchie piene di anelli ed il capo coperto, non trasmetteva esattamente un senso di tranquillità e fiducia; per contro, Arianna era il suo opposto, con la maglia colorata da hippie e quell’aspetto da creatura innocente e serena.

Si sentì fuori contesto, fermo davanti a quel negozio, per questo le fece una leggera pressione con la mano, nella speranza di farle intuire il suo disagio.

E Arianna lo guardò dal basso, spensierata, e capì senza dire una parola, perché annuì e lo invitò a seguirlo imboccando una via perpendicolare alla strada principale, che conduceva ad una zona residenziale isolata. Quella parte di città era più calma, salvo qualche locale notturno che ancora non aveva potuto esprimere il meglio visto che non era orario. Passavano molte macchine, ma non incrociarono quasi più nessuno sul loro cammino.

La mente di Dami era annodata in mille domande, non riusciva però a dargli corpo. Nonostante la tranquillità che li circondava e il solo rumore del traffico lontano come accompagnamento costante di sottofondo, si sentiva soffocato, una mano sulla nuca che pesava come se il mondo fosse presente, ad osservare quello squarcio di vita che non gli apparteneva e aveva in sé qualcosa d’intonso, una tela pulita che aspettava la prima pennellata per definire se stessa.

Quando giunsero in fondo alla strada, ad una rotonda presieduta dai resti di una torre arroccata, rimasuglio delle antiche mura trecentesche della città, venne folgorato da un’idea.

«Vieni con me!» e senza aspettare risposta, si mise a correre trascinandola con sé, svoltando a sinistra.

Arianna si lasciò andare ad una risata che le tolse il respiro e la fece incespicare, cercò di riprendere il controllo e alla fine lo superò e si voltò a guardarlo con le iridi lucide di divertimento e le guance colorate di rosso per lo sforzo «Come sei lento!»

Il dono di quella ragazzina sottile e all’apparenza fragile, era la capacità di rendere semplice anche la situazione più assurda, con una facilità tale che sentirsi a proprio agio, con lei, era come respirare, necessario. Che l’avesse appena conosciuta era irrilevante, c’era attorno alla sua persona un’aura di familiarità dolce come di qualcuno amato da una vita intera.

Ridendo la tirò a sé, Arianna per la sorpresa inciampò e gli cadde addosso. Allora, Demian se la caricò in spalla, in un gioco naturale che aveva sempre condiviso con Sarah.

Arianna rise sguaiatamente, cercando di sgusciare alla sua presa come un’anguilla esagitata, ma questo rendeva solo più divertente trattenerla.

«Mettimi giù Demi! Dai!»

A rafforzare quella sua richiesta strascicata dalla risata, Arianna gli tirò qualche fiacco pugno sulle spalle, a cui rispose prontamente con il solletico. La sentì scattare con tanta forza che quasi gli cadde, ma non per questo smise di tormentarla, ne provò solo un sadico, maggior piacere.

«Smettila, ti prego!» supplicò con un tono talmente lamentoso che Demian percepì il pianto nelle risa, un’ilarità incontenibile a cui si era lasciata andare senza opporre resistenza.

«Solo se stai ferma!»

Si accorse di star ridendo: proprio lui, rideva come un matto, come non ricordava di essere in grado di fare.

«Ok, ho capito, giuro che ho capito! Faccio la brava, lo prometto, non mi muovo più!»

Lo distrasse ancora Arianna, riportando l’attenzione, che per un secondo aveva allontanato, di nuovo su di lei.
Avvertì il suo corpo leggero irrigidirsi in maniera innaturale e la voce di Arianna uscire forzatamente seria, come se si stesse trattenendo a fatica ma non volesse in alcun modo darlo a vedere «Sono una statua, visto?»

«Le statue non parlano» le fece notare divertito «Tu è un miracolo se stai zitta!»

 Non poteva vederla in volto, ma aveva imparato velocemente che con lei non era necessario. Arianna parlava con ogni parte del suo corpo, come se la sua gioia dirompente fosse troppa, e non riuscisse ad essere contenuta e allora fuggisse dai pori della sua pelle per ammantarla di un alone di spensieratezza.

 Il suono di una pernacchia seguì il respiro più profondo che le aveva sentito prendere.

«Ti sto facendo una linguaccia, sappitelo!» sibilò infatti lei, con atteggiamento fintamente indisposto.

«Ah, beh, molto maturo»

Arianna gli abbassò il cappuccio della felpa e gli sfilò la berretta nera, in un primo momento Demian quasi non se ne rese conto.

Solo Sarah si permetteva un contatto tanto intimo.

Quando il disagio della consapevolezza si fece avanti, rimase atterrito dalla sua stessa leggerezza che lo aveva portato a dare troppa confidenza ad un’estranea. La rimise a terra, molto bruscamente, ma Arianna non parve farci caso. Si calcò la berretta sopra i riccioli scuri e gli sorrise esaltata come una bambina, con tutti i denti in bella mostra e le fossette adorabili sulle guance.

Non aveva reagito a quel suo aspro cambio di reazione, con gli occhi grandi pieni di meraviglia gli ricordò un poco Sarah e questa realizzazione improvvisa delle affinità che le due streghe avevano lo turbò profondamente.

 

Mi ignora, non c’è altra spiegazione


«Dove mi hai portata?» domandò lei, senza minimamente considerare l’espressione truce che doveva avere in quel momento per guardarsi attorno, un animaletto curioso dal sorriso grande.

Demian accarezzò con lo sguardo la ringhiera che, dall’altro lato della strada, celava il parco più grande della città alla loro vista. L’aveva portata lì perché Arianna, quel pomeriggio, aveva condiviso un pezzetto di sé, un luogo che amava, e forse avrebbe potuto farlo anche lui, avrebbe potuto condividere qualcosa per non essere dimenticato.

Anche fosse stato solo un giorno, solo quel giorno, sarebbe stato un toccarsi per lasciarsi un ricordo, e gli piaceva, il pensiero di essere una piccola spina nell’anima di quella ragazza, un fantasma impalpabile che non poteva vedere, ma che sarebbe potuto riemergere a volte, donandole un senso di nostalgia. Gli piaceva l’idea di poter essere legato, anche solo così, da uno scomparto seppellito nella memoria, a qualcosa di bello come lo era lei, a qualcuno di felice come lei.

«Ti faccio vedere»

Non cercò più un contatto, ed Arianna non parve accorgersene o finse di non accorgersene, gli trotterellò accanto senza spegnere mai la luce dei suoi occhi.

A Demian quel parco piaceva particolarmente. Ci portava spesso Sarah quando era più piccola. L’area giochi era grande e sua sorella ci si perdeva come una bambina al Luna Park, ed era un luogo appartato, sufficientemente grande da permettergli di non incrociare nessuno se lo desiderava. Ci andava a correre a volte, dopo la palestra, e, nei momenti di creatività maggiore, era facile trovare un buono spunto per disegnare: gli alberi nodosi ombreggiavano le grandi distese verdi e i laghetti artificiali davano una sensazione rinfrescante, come un’oasi isolata a cui aggrapparsi nel caos cittadino.

C’erano poi numerosi sentieri costellati di panchine, poco battuti soprattutto la sera, quando la luce dei lampioni e il pesante silenzio davano un’aria spettrale che inquietava le persone. I cespugli ben curati delimitavano le aree di gioco e la pista dei kart e mentre Arianna lo seguiva taciturna, Demian contemplava quei luoghi familiari con un’insolita stretta al petto.

Per molto tempo, avevano rappresentato momenti felici, vissuti con maman e Sarah, mentre ora erano semplicemente mutati in un rifugio riparato dove fuggire quando la presenza di sua madre era troppo opprimente. Negli ultimi mesi ci portava Lalami, la solitudine pesava anche ad uno come lui, che la cercava morbosamente, ma con la cagnolina ne soffriva di meno ed allo stesso tempo poteva risparmiarsi di parlare.

«Non so perché, ma credo di esserci già stata» considerò Arianna ad un tratto, e la trovò con il mento tra le dita ed i pensieri attorcigliati che le si leggevano in viso.

«Tutti ci sono stati almeno una volta»

«Perché sei voluto venire qui?»

A quella domanda, gli saltarono i nervi.

Per tutto il tempo ne aveva ricevute e aveva risposto quasi sempre con un’onestà inadeguata per una persona sconosciuta, ma lei si era ben guardata da dargli soddisfazioni. Scavava senza remore nell’anima altrui, ma proteggeva la sua con un egoismo irritante.

«Non dovevi essere tu a rispondermi?» l’accusò, vanificando il pomeriggio trascorso insieme. Si guardarono negli occhi, e Dem ebbe l’impressione di essere tornato a qualche ora prima, davanti all’ospedale, dove aveva seppellito tutte le rimostranze che ora premevano per avere il loro spazio.

Ed anche questo, in realtà, era sorprendente. Non gli succedeva spesso di non riuscire a reprimere se stesso, non si spiegava quel cattivo umore che lo aveva pugnalato a tradimento, ma che potesse esprimerlo tanto facilmente in maniera diretta e non con sotterfugi, questo era davvero destabilizzante.

Arianna abbozzò un sorriso disarmante, velato da una malinconia che lo spinse a distogliere lo sguardo e lo svuotò come un palloncino. Riusciva a farlo sentire meschino per il semplice fatto di aver provato della rabbia verso di lei.

«Certo, tutto quello che vuoi» gli disse, poi scrollò le spalle e la sua espressione si distese e tornò tersa «Però non con quel tono di voce»

Si sedette su una panchina e lo invitò silenziosamente a raggiungerla picchiettando insistentemente con la mano sul posto accanto al suo. La studiò con sospetto, insicuro, ma alla fine si disse che era una cosina, Arianna, un fuscello di ragazza dal sorriso bello, e non avrebbe potuto fargli concretamente nulla, era inutile guardarsi le spalle con tanta insistenza.

Si diceva questo, eppure la sensazione che quella ragazza fosse più pericolosa di chiunque avesse mai incontrato non lo abbandonava. Gli si accomodò accanto e lei gli prese le mani e lo guidò, rivolgendo i suoi palmi verso l’alto.

«Che staresti facendo?»

Davanti alla sua perplessità, Arianna sollevò gli occhi al cielo, in un gesto di simulata esasperazione che gli gridava come facesse ad essere tanto ottuso da non comprendere certe “ovvietà”.

«Ristabilisco il tuo stato zen, ovviamente»

Quel suo assurdo modo di fare riuscì a spiegargli le labbra in un accenno di sorriso, un’increspatura serena che la portò a sua volta a rilassare le spalle e a mostrargli ancora tutti i denti in una delle sue espressioni pure e inermi.

«Perfetto. Bravo ometto. Ora prendi un bel respiro»

«Ometto?» storse la bocca e Arianna si accigliò

«Preferivi soldatino?»

Ci mise qualche istante a realizzare che era seria e gli stava parlando come fosse un bambino. E malgrado fosse paradossale, e fosse anche piuttosto scettico sui metodi di quella piccola maliarda dagli occhi verdi, comprese che non era importante nulla: con lei non c’era un senso di priorità e probabilmente nemmeno della logica, ma non farla contenta era più difficile che opporsi e cercare di capirla.

Scosse subito la testa e chiuse gli occhi, pronto ad assecondarla, prese un grande respiro, poi un altro ancora.

«Cosa intendevi dire, stamattina?»

Arianna piegò la testa, ormai era certo che solo così quella buffa creatura manifestasse la propria perplessità.

«Sì dai, non puoi non ricordare. Quando hai detto che non dovevo scervellarmi»

In un primo momento, Arianna arricciò le sue labbra piccole, poi le distese e ridacchiò «Quindi ci avevo visto giusto, era questo il tuo problema. Lo sapevo. Era solo un modo per incastrarti, tu sei un razionalista, ti si legge in faccia, prima di decidere di fare qualcosa ti danni l’anima, non è vero? “sì, no, forse”, se non ti avessi messo addosso dei sani dubbi e un briciolo di curiosità, era matematico che non mi avresti incontrata. Sicuramente fai così con tutto»

Dopo essersi espressa, lo guardò in viso e si tappò immediatamente la bocca con la mano, abbassando le palpebre in un’espressione da vittima pentita volta ad intenerirlo. Se non fosse stato tanto offeso avrebbe riso di quella reazione infantile nel rendersi conto di aver parlato troppo. Non ci riuscì però, quel discorso aveva urtato in qualche modo il suo orgoglio, toccando una corda inerme che vibrando lo feriva. Cercò di darsi un tono per non farglielo capire, ma gli occhi di Arianna parlavano per lei, e quel pentimento sincero gli gridava che non c’era riuscito, ad essere indifferente.

Quella ragazza dall’apparenza angelica, di angelico non aveva nulla.

«E perché avresti dovuto volermi vedere per forza?» attaccò, non si accorse di sembrare semplicemente un randagio messo alle strette, un gattino che si sentiva una tigre e tentava di scacciare con la sua zampina un mostro più grande di lui.

Quel viso si adombrò di un dispiacere sottile ed anche la sua voce vibrò di una velata e struggente tristezza, una malinconia latente, soppressa con la volontà ma presente in lei come un’altra faccia del suo sorriso abbagliante. E lui l’aveva sognata, la sua tristezza, l’aveva intuita, per istinto, fin dal primo giorno, aveva colto la sfumatura celata oltre la sua esuberante allegria come un contrappeso.
Forse non era un caso, che Arianna lo avesse colpito tanto a fondo, forse qualcosa di lei lo aveva capito, un’affinità di un’anima ferita come la sua, ritirata dietro a mura dall’aspetto pacifico, ma altrettanto alte e inespugnabili.

«Perché sembravi uno che voleva restare solo» mormorò a disagio, mordicchiandosi le labbra come in dubbio, esitante.

E nonostante il dubbio, gli occhi erano incatenati a suoi, gli occhi di Arianna non cedevano mai, erano forti di incrollabili certezze e sicuri delle proprie fragilità.

Demian si scoprì ad invidiarla.

«E?» la invitò a esplicitare un sottinteso che aveva percepito come una stonatura in una delicata sonata.

La guardò sospirare e, con quel sospiro, spogliarsi di ogni insicurezza «E sembravi anche una di quelle persone che è meglio non lasciare sole quando vogliono esserlo»

La sua spavalderia si consumò con quelle poche parole. Arrossì tutto in una volta e si nascose calando sugli occhi la berretta nera che, Demian non si era accorto, stava indossando ancora lei.
Avrebbe voluto ribattere qualcosa di forte, di distaccato, che non lo facesse scivolare nella pateticità del suo essere, ma non gli sovvenne nulla alla mente.

Non sapeva come prendere ciò che gli era appena stato detto con tanta innocenza, si sentiva stranamente scollato da quel momento, come potesse guardarsi da fuori, guardare lei, l’irrealtà di un attimo che nella sua esitazione si stava già consumando.

Demian non sapeva mai come muoversi, di fronte all’interesse altrui. Se ne era sempre sentito ferito, perché non aveva mai percepito nulla di genuino nella pietà, solo un sentimento che lo declassava e lo faceva apparire debole, mortificato.

In difetto con tutti, ma soprattutto con se stesso.
Eppure, in Arianna c’era un’acutezza diversa, familiare, una comprensione che andava oltre il pietismo di circostanza. Arianna aveva letto tra le righe ciò che lui per primo non era in grado di esprimere a voce, aveva raccolto la sua solitudine come un fiore e aveva ammirato le sfumature di sole sulla corolla martoriata.

Arianna aveva provato compassione, nella sua radice più profonda e pura, si era specchiata in lui e nell’immagine del suo respiro inerme aveva ritrovato se stessa e aveva bevuto di sé attraverso i suoi occhi.

Demian rimase sgomento da quel barlume di certezza, lei aveva compreso perché erano anime dissanguate dalla medesima ferita.
«Perché eri in ospedale fuori dall’orario di visite?» lo domandò con cautela ed una nota di tenerezza che era solo partecipazione ad un male che conosceva, che lo dilaniava e che sospettava, con amarezza, condividesse anche lei.

Arianna sussultò, perse per qualche secondo la maschera di compostezza spensierata, un frammento di cedimento tante breve che Demi pensò di averlo solo immaginato, perché poi la vide sorridere ancora.

Allora sorridere gli sembrò per la prima volta uno scudo, e pensò che forse era questo il modo che lei aveva scelto per gestire la vita, si difendeva da tutto con un sorriso.

«Questa me l’aspettavo» ridacchiò, scrollando piano le spalle, per togliere importanza alla risposta «È abbastanza complicato. Diciamo che non stiamo vivendo situazioni molto diverse, ecco. Conosco tua madre perché conosco tutte le persone che sono ricoverate. Mi aiuta a farmi un’idea di come la cosa sarà dopo. Non credo ci sia altro da dire»

Demian annuì piano e non disse altro.

Non c’era molto da aggiungere, era stata vaga, ma lui per primo conosceva l’orribile sensazione di non poter esprimere certe verità ad alta voce, ché il suono dava corpo ai mostri e li rendeva più grandi e sovrastanti, più difficili da tenere a bada. La confidenza che le aveva strappato bastava, sapere che anche lei stava perdendo qualcuno, proprio in quel reparto, per la stessa malattia che lo allontanava da maman, illuminava le ombre di quell’affinità che sentiva per lei, un elastico teso che pretendeva di potersi riavvicinare, e Arianna era l’altro polo, il punto di ritorno.

Il buco nero oltre il piano inclinato della sua coscienza.
Le prese la mano, la strinse.

Voleva che anche lei sentisse la medesima consapevolezza che lo aveva attraversato in quel preciso istante, un’illusione forse, che però annientava tutto il resto, non lo spingeva verso il baratro che gli stringeva il petto, quel senso di vuoto, quella voragine, la guardava dall’alto ora, ne provava una vertigine, e restava affrancato a quella mano per non scollarsi dalla realtà e non scivolare nello sconforto.

Poi lei gli sorrise in modo diverso, spezzò quel filo di tristezza che li aveva uniti e rabbrividì «È già parecchio tardi» gli fece notare, risvegliandolo «Ci ho messo troppo oggi ad arrivare, ci siamo persi il pomeriggio. Mi sembra di aver buttato un sacco di tempo»

Ormai il buio era diventato pesante e viscoso, s’intravvedevano le stelle e gli alberi scheletrici stringevano il cielo in una morsa di rami. 

«Ho lasciato il motorino in ospedale. Torniamo indietro, così ti accompagno a casa»

Arianna scosse la testa «Hai il telefono? Avviso Dani di venirmi a prendere qui. Conoscendolo è già là a divorarsi il fegato perché non mi vede arrivare!»

Si avviarono lentamente lungo il sentiero, oscuro in lontananza, solo dopo che si era accordata con suo fratello. Non avrebbe voluto rientrare, ma faceva freddo ed Arianna, vestita con abiti troppo leggeri, tremava un poco e si rannicchiava ingenuamente tra le proprie braccia per riscaldarsi. Era disarmante, la tenerezza che riusciva a suscitargli con un gesto tremendamente banale, eppure il modo delicato in cui si raccoglieva nelle proprie spalle e la linea fragile del collo che disegnava un leggero arco di luna nell’oscurità, gli smuovevano un senso di morbidezza, e capiva che in lei c’era qualcosa di prezioso. Una fragilità ignota che la rendeva forte, le conferiva una bellezza imprevista.

Si sfilò la giacca di pelle e gliela porse, solo per sentirla ridere di nuovo.

«Ok, questo è un cliché, caro mio. Mi sembra di essere finita in un film di serie C, se fai queste cose!»

Sollevò l’angolo della bocca nella sua espressione provocatoria «Io non mi preoccuperei, la serata non finirà con un bacio, quindi sei al sicuro da qualunque cliché»

Lo disse per orgoglio, ma era già pentito di essersi tagliato le gambe da solo. Era da quando gli era comparsa davanti che i suoi occhi avevano seguito la linea di quelle labbra, sempre umide perché le mordeva assiduamente, ed un languore penoso si raccoglieva in un grumo nella gola secca lasciandolo in uno stato di sospesa agonia.

Tanto lo sai, non l’avresti mai nemmeno sfiorata.

Non ne avresti avuto il coraggio, una ragazza come lei non merita di essere sporcata.

 

Arianna indossò la giacca, incrociò le braccia al petto e gli rispose con un finto broncio

«Sappi che non giocherò all’infermierina perversa per farmi baciare da te!» lo punzecchiò con precisione millimetrica.

La saliva gli andò di traverso e si ritrovò a tossire, cercando di riprendere fiato, con gli occhi lucidi e l’aria sconvolta. Più per tormentarlo che per aiutarlo, Arianna lo supportò con qualche pacca ben poco delicata sulla spalla. La vergogna per l’episodio avvenuto la settimana prima tornò a pungolarlo, sperava davvero che potesse dimenticarsi di Elena ma, lo intuiva da quell’espressione malandrina, la sua era una speranza vana.

Lo costrinse a distogliere lo sguardo e a pensare che, davvero, gli conveniva fare attenzione a non provocarla se non desiderava pagarne le conseguenze.

Arianna cercò la sua mano, si sorrisero mossi da un imbarazzo diverso, più consapevole, che lo liberava di qualsiasi tormento.

 

Fosse anche stasera, solo stasera, andrò bene.

Me lo farò bastare.

 

Eppure avrebbe voluto altro, avrebbe voluto di più, anche se era più semplice convincersi del contrario per non soffrire di un desiderio mancato. Mentre aspettavano, Demian non perse l’occasione di osservare ancora il suo profilo, la linea morbida della fronte che scivolava nell’incavo del naso per poi sollevarsi sulla punta insolente, come in un moto di orgoglio.

«Noi…»

Annaspava in un pozzo di parole non dette che lo sommergevano e non gli permettevano di afferrarle, le cercava nel suo viso sereno, ma quella bellezza sfacciata non gli andava incontro, lo sfidava soltanto rendendo più difficile trovare un senso.

«Ci… ci vediamo ancora?»

Arianna sollevò le sopracciglia, contrasse le labbra belle e alla fine rise di lui «Ok, io ci provo a stare buona, ma fai proprio delle domande idiote! Se devi stare sui cliché almeno scegline uno utile. Tipo “mi daresti il tuo numero?”. Almeno avrebbe senso»

Demian abbassò gli occhi e si passò una mano sulla nuca, per sentirla scoperta. Provava sempre una vergogna bruciante, a restare senza il suo berretto, era quasi come essere nudo, eppure quella ragazza aveva superato anche quel disagio senza neanche averci provato.

Era venti passi avanti a lui, se ne sentiva disarmato, come se davanti a quelle iridi verdi e intonse perdesse consistenza e forma, per diventare solo desiderio. Puro e semplice, primordiale desiderio.
bofonchiò imbronciato «Mi daresti il tuo numero?»  per sentirsi rispondere «Non ho il cellulare!»

Rideva con l’espressione furba di chi si stava prendendo gioco di lui e le mani sullo stomaco, quasi a contenere quell’ilarità che le rendeva gli occhi lucidi.

«Ma sei stata tu a dirmi di chiedertelo!»

Arianna scosse la testa ed i capelli, una massa oscura e indefinita nel buio, si mossero ridisegnando i contorni del suo volto «Erroneo. Ti ho detto che sarebbe stato più logico chiedermi il numero, non che avresti dovuto chiedermelo»

Dem si passò ancora una mano fra i capelli candidi, poi la fece scivolare sul viso stropicciando rudemente la pelle, un rito per scacciare la disperazione.

«E quindi? Che dovrei fare?»

«Dovresti darmi il tuo numero. Ti chiamerò io, sarà più semplice»
Si tolse il capello, liberando la massa indomita e scarmigliata di ricci, si alzò sulle punte e glielo calcò in testa, tirandoglielo sugli occhi. Non la vedeva, ma sentiva le dita fredde sulle guance, percepiva quel leggero ridacchiare che scovava in ogni dettaglio qualcosa per cui valeva la pena ridere. Arrotolò il bordo del berretto e ricambiò il sorriso che lo aspettava, con gli incisivi divisi, oltre l’oscurità della stoffa.

Una macchina rallentò costeggiando il marciapiede pochi metri più avanti, proprio mentre Demian finiva di dettarle il numero. Il finestrino si abbassò con un ronzio, mostrando il volto di un ragazzo piazzato, con i capelli ricci e iridi forse verdi.

La linea da felino indolente degli occhi dallo sguardo pungente, li rendeva indubbiamente fratelli nonostante i tratti del volto di Daniele più rudi, sbozzati come incisioni nella pietra, spigolosi.

«Puffetta, potevi avvisarmi prima. Ti stavo aspettando già da un’ora»
Demian si concentrò su di lui, alla ricerca di qualcos’altro nella sua persona che non gli trasmettesse un rigetto a pelle, poi si dedicò ad Arianna, si accorse che era arrossita.

«Devo andare»

Fece per togliere anche la giacca, ma Demian la fermò con un leggero sorriso «Tienila pure. Così sono sicuro che ti rifarai viva» glielo disse chinandosi sulla sua figura minuta, per non farsi sentire dal nuovo venuto.

Daniele non aveva distolto l’attenzione da lui, nemmeno un attimo, l’espressione arcigna e sospettosa non lo abbandonava.

«Puffetta, muoviti»

«Arrivo, arrivo!» urlò quasi, non preoccupandosi di non far trasparire tutta la sua irritazione. Tornò a guardarlo, e Demian s’intenerì di quell’aria mesta.

«Buonanotte Demi, vedi di fare il bravo!»

Non riuscì a risponderle, non con prontezza. Era carina quando s’imbronciava, era un buon “ultimo ricordo”, nel caso non avessero avuto altre occasioni. Arianna, rinunciando ad un suo congedo, abbozzò l’ultimo saluto con la mano e fece per voltarsi, allora Dem allungò il braccio verso di lei, pietrificandola per la sorpresa.

Era una carezza di dita leggera, la sua, sulla guancia morbida. Si abbassò un poco, per portarsi all’altezza del suo viso, e sorrise lieve quando la vide abbassare le palpebre lentamente, come un invito. Posò le labbra in un bacio soffice sulla sua fronte, si scostò e le sorrise ancora, per la bocca schiusa e l’aria scossa, per la dolcezza che emanava.

«Visto? Nessun cliché. Buonanotte Annie»

 

 

 


 
 

 

  
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