Serie TV > Criminal Minds
Segui la storia  |       
Autore: CaptainKonny    06/03/2017    3 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Kristina-Pimenova-115

Capitolo 12

 
POV HOTCH

Tutto era distorto e confuso. Riuscii a sollevare le palpebre in due misere fessure, non ero in grado di fare di meglio. Questa volta l’S.I. si era divertito più del solito, accanendosi su di me con il Taser. Potevo ancora sentire le scariche percorrermi i muscoli, facendomi tremare sul posto in maniera lieve, ma incontrollabile. Gli arti erano diventati solo un mio prolungamento, come il dolore era diventato parte di me. Non mi ero ancora arreso, ma questa agonia stava assumendo tratti decisamente soffocanti, come il fumo che ti scende nei polmoni quando ti trovi bloccato in un incendio. Non riuscivo ad emettere alcun suono, la gola mi pareva graffiata dall’interno; non ne sarei rimasto stupito visto tutto il sangue che il mio aguzzino mi aveva fatto sputare. La vista era leggermente distorta, la luce sul soffitto rendeva tutto della stessa consistenza dei miraggi. Vedevo un’ombra muoversi davanti a me e ne dedussi che dovesse trattarsi di lui. Concentrai quelle pochissime forze recuperate per tentare almeno di capire cosa stesse succedendo. Le parole erano ovattate, distanti, non riuscivo a metterle a fuoco. Più mi sforzavo meno ce la facevo. Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi dalla frustrazione, ma non permisi a nessuna di rigarmi il volto, non ancora. Dovevo stare calmo e avere pazienza, non mi aveva ferito gravemente, quelli erano solo i sintomi delle torture subite, sarebbero passati. Non ci voleva un genio per capire con chi stesse parlando, non avrebbe mai acconsentito a rivelare informazioni a qualcuno che non fosse lei. Deglutii con fatica mentre la immaginavo in piedi dall’altra parte della cornetta. Strinsi gli occhi in una muta preghiera: che non accettasse. Che mandasse a quel paese le sue condizioni, che semplicemente gli dicesse che non aveva alcuna intenzione di vedere l’uomo che l’aveva abbandonata per tutti quegli anni.

Eppure, mentre quelle parole si tramutavano in immagini nella mia mente e il cuore me lo sentivo spezzarsi nel petto senza fare alcun rumore, seppi che le cose non sarebbero andate così. Lei avrebbe accettato le sue condizioni. Lei sarebbe venuta. Mi ritrovai a chiedermi per la milionesima volta perché e ancora non riuscii a darmi una risposta. Davvero voleva uccidermi?
Non lo credevo possibile. Non la mia bambina.

-Verrai da sola e disarmata.- la realtà mi colpì con violenza, come un televisore che viene riacceso dopo essere stato a lungo messo in pausa, così come la voce dell’S.I..

-Disarmata? Pensavo di dovergliela far pagare.- la voce era leggermente distorta dal vivavoce, ma la durezza di quelle parole no, quella era autentica. Tanto da mandarmi un lungo brivido giù per la schiena. L’uomo che parlava con lei rise sinceramente divertito.

-Non ce ne sarà bisogno ma-petite. Ti fornirò io tutto ciò di cui avrai bisogno.- la sua voce era quella di un adulatore che sa come incantare la propria vittima. Mentre mi perdevo nuovamente nelle mie riflessioni, cosa che ultimamente in quella prigione mi capitava spesso, mi persi parte delle indicazioni che le stava fornendo per raggiungerci. Almeno avrei potuto capire dove mi aveva portato. –Esci dalla strada principale e continua per una ventina di chilometri tra i campi. Ad un certo punto troverai delle vecchie baracche abbandonate, una sorta di granaio a due piani è il nostro rifugio.-

-Ho capito.- la sua voce era così fredda e distante, non la ricordavo così. Momento di silenzio.

-Sei sicura di volerlo fare Serena?-

-Sicurissima.- veloce e precisa come lo schiocco di una frusta.

-Non mi stai ingannando, vero?-

-Assolutamente. Anzi, forse quando ci incontreremo ti ringrazierò per quest’opportunità.-

-Bene. Anche perché in caso contrario ucciderò anche te.- altro momento di silenzio.

-Ci vediamo tra poco allora.-

-A tra poco.- e fu lei a chiudere la telefonata. Era così ansiosa di chiudersi nella tana del lupo?

L’S.I. si girò verso di me con gli occhi brillanti di soddisfazione e un sorriso poco rassicurante ad incurvargli la bocca.

-Sta arrivando.-

Suonava molto come una condanna a morte. Io sostenni il suo sguardo con uno serio dei miei.

-Non ci provare.- mi disse semplicemente, probabilmente pensando che volessi tentare ancora una volta di fermarlo. Non ci provai neppure, non sarebbe servito a nulla, ormai eravamo troppo avanti per tornare indietro. Un altro lungo sguardo e poi se ne andò, lasciandomi solo.

La prossima volta che ci saremmo visti, ne ero certo, sarebbe stata l’ultima; quella decisiva.

 
***
“E forse arriverà, domani
Siamo uguali in fondo
E forse cercherai, le mie mani
Solo per un giorno”
 
(FLASHBACK)

Pioveva a dirotto quella sera e per essere i primi giorni di ottobre faceva anche molto freddo. Le gocce di pioggia rigavano in continuazione il vetro, distorcendo la luce dei lampioni lungo il marciapiede in sfocati globi dalla luce pallida; indecisi anche loro se rimanere accesi o spegnersi. I rami degli alberi si allungavano verso il cielo plumbeo sotto forma di giganti ragnatele nere, ogni tanto scosse dal vento gelido che si era instaurato in città in quei giorni. Un brivido dettato da quelle immagini la portò a stringersi la coperta che portava sulle spalle con maggior forza, alla ricerca di calore. Eppure non sembrava sufficiente e una vocina nella sua testa continuava a bisbigliarle che quel freddo non veniva da fuori, ma da dentro di lei. Ancora il pensiero tornò a quel pomeriggio, quando la zia aveva comunicato loro che se avessero fatto i bravi quella sera ci sarebbe stata una bella sorpresa. Un urlo estasiato di Jack le aveva quasi perforato un timpano.

-Papà torna a casa!-

Gli occhi del bambino brillavano di contentezza di un marrone così caldo da ricordare il cioccolato. Alle volte Serena, quando era triste per la lontananza del padre, lo prendeva in giro, come se così facendo potesse allontanare il suo demone interiore. Zia Jessica non aveva risposto nulla a quell’esclamazione, limitandosi a sorridere. Lei invece era rimasta con il cucchiaio a mezz’aria, sorpresa dalla notizia, combattuta se felicitarsi o meno. Certo che era contenta che il papà tornasse, i suoi occhi sbarrati ne erano una prova. Ma era anche vero che quel caso era durato molto più a lungo di altri e loro in quei giorni lo avevano sentito molto poco. Come se non bastasse Jack, a differenza sua, quando sentiva la mancanza del padre non faceva che parlarne e parlarne, trasformandolo nel suo supereroe personale. Era allora che lei lo prendeva in giro e poi si chiudeva in cameretta. Era gelosa, invidiosa di come Jack sembrasse volere il papà tutto per sé, quasi le sue imprese fossero tutte opera sua. Ma in fondo quale bambino non sognava a sua volta di diventare un eroe?

Per Serena invece era leggermente tutto diverso: il papà era un supereroe e lei e suo fratello facevano parte del mondo che lui ogni giorno si adoperava per salvare. Eppure quando rimanevano soli così a lungo certe volte si domandava se si fosse scordato di loro. Ed era allora che tornava da Jack e si faceva abbracciare, perché in lui trovava quella somiglianza col padre che lei non aveva, quella che solo guardandolo sapeva che suo padre avrebbe pensato la medesima cosa che stava pensando suo fratello: che gli voleva bene. Questo per loro equivaleva che lui non li avrebbe mai abbandonati.

-Serena hai sentito?-

Jack aveva cominciato a tirarle un braccio per avere la sua attenzione. Per poco la minestra nel cucchiaio non le si era rovesciata addosso.

-Attento Jack!-

Ma il fratello ormai non l’ascoltava più. Era saltato in piedi e corso in salotto, le mani appoggiate al ripiano in marmo e il naso schiacciato contro il vetro freddo della finestra, scrutando attraverso l’oscurità nella speranza di individuare la macchina del genitore in arrivo. Serena sapeva non sarebbe resistito a lungo, in fondo lo conosceva bene lei. Lo raggiunse poco dopo, il sapore della fetta di torta che aveva appena mangiato le sembrava così amaro in bocca rispetto a quella notizia. Rimasero immobili davanti al vetro per così tanto tempo che le venne freddo. Si passò le mani sulle braccia, nella speranza di far nascere un po’ di calore e in quel momento la zia le pose la coperta sulle spalle. Come previsto Jack colse l’occasione per sedersi sul tappeto in mezzo alla sala e mettersi a giocare.

-Jack! Abbassa la voce.- gli disse la sorella all’ennesimo contrattacco aereo.

-Non posso. Se smetto di sparare il generale muore.-

-Sei proprio un bambino.-

-E tu una femminuccia.-

-Papà non vuole che mi chiami così.-

-Sì, ma adesso lui non c’è.-

-Adesso finitela, tutti e due. Non vorrete farvi vedere da vostro padre fare i capricci.- li rimproverò la zia.

Serena diede ancora uno sguardo al fratello, immerso in una complessa manovra di guerra spaziale. Senza dire niente si era così rintanata di sopra, avvolta nel buio della stanza, appostata alla finestra e aveva aspettato; finchè un suv nero aveva svoltato nella loro via, rallentando fino a fermarsi accanto al marciapiede, proprio di fronte alla porta di casa.

Aaron spense la macchina, finalmente dopo quei lunghi giorni si sentiva libero da ogni peso. Ogni volta che partiva non poteva essere certo che sarebbe tornato e, adesso che Haley non c’era più, lasciare i suoi figli sempre da soli lo preoccupava oltre ogni dire. Per questo motivo quando il caso si era concluso un senso di sollievo lo aveva pervaso e ogni chilometro che il jet aveva compiuto avvicinandolo a casa non aveva fatto altro che accrescere quel senso di benessere. Non vedeva l’ora di stringere tra le braccia i suoi figli. Scese dall’auto, ventiquattrore e cappotto in mano; non aveva perso tempo sceso dall’aereo, era semplicemente balzato in macchina e aveva premuto l’acceleratore fino al limite consentito. Contenne l’entusiasmo limitandosi a suonare il campanello un paio di volte: era lui l’adulto. Ma in quel momento, come ad ogni suo rientro a casa, per lui poteva essere Natale.

-Finalmente! Sono contenta tu sia tornato, quei due non facevano che chiedere di te.- lo accolse con calore la cognata, invitandolo ad accomodarsi all’interno.

-Grazie per esserti occupata di loro così a lungo, non immaginavo sarei stato via così tanto. Spero non ti abbiano fatto tribolare.-

-Non più di tanto.- sorrise la donna con fare materno, strappandogli un mezzo sorriso, mentre gli prendeva borsa e cappotto dalle mani.

-E tu come stai?- le domandò il cognato.

-I soliti sintomi influenzali di questo periodo, nulla di nuovo.-

-Papà! Papà! Papà!-

Un proiettile urlante gli si catapultò nello stomaco, stringendolo alla vita in una morsa ferrea.

-Ciao campione! Allora, hai fatto il bravo con la zia?- l’uomo finalmente si lasciò andare ad un aperto sorriso, scompigliando affettuosamente i capelli al figlio.

-Sì.- rispose il bambino annuendo convinto, alzando il viso per incontrare quello del genitore.

-Sicuro?- domandò Aaron, inarcando per gioco un sopracciglio.

-Lo sai, la zia ha fatto la torta al cioccolato.-

-Davvero? E me ne avete lasciato una fetta?-

-No, io e Serena l’abbiamo mangiata tutta.-

-Ah, è così!- il bambino si mise a ridere in maniera incontrollata alla vista del genitore che faceva la voce da cattivo, paralizzato sul posto dalle sue stesse risate. Aaron lo sollevò di peso in un batter d’occhio, andando a fargli le pernacchie sul collo e il solletico sul pancino. Jack si dimenava tra le forti braccia del padre, le lacrime agli occhi dal troppo ridere. Anche Aaron dovette ammettere con sé stesso che era passato un sacco di tempo dall’ultima volta che aveva riso così tanto. Sfiniti, i due crollarono di peso sul divano, il bambino ancora abbracciato al collo del padre, entrambi con il fiatone. Fu allora che Aaron si accorse che mancava qualcuno.

-Dov’è tua sorella?-

-Deve essere di sopra. Ti abbiamo aspettato per un po’, ma tu non arrivavi. Così io mi sono messo a giocare e lei è andata su perché aveva freddo.-

-Ho capito.- disse tra un sospiro affannoso e l’altro il genitore, scambiando uno sguardo d’intesa con la cognata, seduta sul divano di fronte a loro.

Nessun rumore proveniva dalla porta chiusa in cima alle scale, che si fosse addormentata? Non sapeva perché, ma era quasi del tutto sicuro che non fosse così. Bussò piano, ma non ottenne risposta.

La stanza era completamente piombata nell’oscurità, la luce blu che entrava dalla finestra delineava a malapena i contorni della sua bambina, rannicchiata sul davanzale con la coperta stretta tra le mani. Aaron varcò la soglia, accendendo finalmente il lampadario appeso al soffitto.

-Serena, cosa fai qui da sola al buio?- le domandò con calma.

La bambina si voltò con una lentezza stressante, facendo iniziare a preoccupare l’uomo che temette potesse essere successo qualcosa, finchè i loro occhi si incrociarono. I suoi, illuminati dai lampioni esterni, sembravano ancora più chiari del solito. Ad oscurare quella bellezza era la loro serietà; lo guardavano, quasi fosse lei ad attendere una risposta e non il contrario. Ed in effetti era da giorni che lei lo aspettava.

-E’ successo qualcosa?- provò ancora il genitore, ma senza alcun successo.

Aaron incrociò le braccia al petto, corrugando le sopracciglia in quello sguardo serio che però non aveva nulla a che fare con quello che usava al lavoro. Quello era uno sguardo interamente riservato ai figli quando combinavano qualcosa di non troppo grave. In pochi passi attraversò  la stanza e si sedette anch’esso sul davanzale, di fronte alla figlia che per tuto il tempo non aveva mai distolto lo sguardo.

-Sei arrabbiata con me, vero?- domandò infine, rilassandosi. Conosceva sua figlia e dopo averla osservata attentamente, quasi quanto lei aveva fatto con lui, aveva capito. Difatti Serena tornò a guardare fuori dalla finestra.

-Non proprio.-

-E allora cosa? Pensavi che non sarei più tornato a prendervi?- quel mutismo lo stava facendo impazzire, perché così lo teneva lontano da lei. quando finalmente la sua voce spezzò il silenzio, l’effetto fu quello di una stanza degli specchi che andava in frantumi, riportando tutti alla realtà.

-Sei stato via a lungo questa volta.- Aaron soppesò molto bene le parole da dire, perché sapeva che lei le avrebbe analizzate molto attentamente. Come si suol dire: le parole alle volte feriscono più delle armi.

-Lo so e mi dispiace.-…-Ma lo sai che non dipende da me, vero?- altro silenzio.

-Avresti potuto telefonare.- questa volta lo guadò con occhi speranzosi, quasi trovando la soluzione adatta ad entrambi. L’uomo fece un sorriso triste.

-Avrei voluto telefonare più spesso, ma è stato un caso complicato e quando avevo un attimo di libertà era sempre troppo tardi, c’era sempre qualcos’altro da fare.- Serena notò, non solo nella parole del genitore ma anche nell’espressione provata, quanto in realtà fosse stanco. Probabilmente era da più di ventiquattro ore che non dormiva, eppure aveva tenuto duro per venire a prenderli quella sera stessa. Si vergognò di aver pensato male di lui.

-Pensavo che fossi così preso dal caso che ti fossi dimenticato di noi.- ammise.

-Come ti vengono in mente questi brutti pensieri? Tu e Jack siete la cosa più bella che ho.- le disse, prendendola di peso e avvicinandola a sé.

-Ma tu non ci sei mai. Preferisci passare più tempo con loro che con noi.-

-Questo non è vero.-…-Ho una squadra formidabile e un lavoro che mi piace molto, ma nessuna di queste due cose potrà mai sostituire te e Jack.- Aaron le prese le mani nelle proprie, avvolgendola con le braccia e dandole un lungo bacio tra i capelli.

-Papà?- bofonchiò la bambina dopo un po’, ancora con il viso affondato nei vestiti del genitore all’altezza del petto, respirando quel profumo che a lei piaceva tanto, che sapeva di casa.

-Cosa?- Serena si puntellò col mento sul suo petto, sollevando su di lui i grandi occhi verdi.

-Mi dispiace di aver pensato quelle cose.- Aaron la strinse maggiormente a sé, dandole un altro bacio –Mi sei mancato tanto.-

-Anche tu piccola, entrambi.-

Improvvisamente la bambina saltò in piedi con il volto raggiante, un’idea che le illuminava il volto mentre ancora teneva una delle grandi mani del papà tra le proprie.

-Balli con me?- Aaron sorrise.

-Serena, hai presente che ore sono?-

-Ti prego è la nostra canzone.- il padre storse la bocca –Solo il ritornello.- come poteva dire di no a quegli occhi così scintillanti?

-D’accordo. Ma solo per pochi minuti.- concesse infine, lasciandosi tirare in piedi. La bambina esultò in silenzio, allontanandosi per poter accendere lo stereo con il cd già inserito.

La musica riempì immediatamente la stanza, rendendola più viva con la sua allegria.

“Per vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e vivere, vivere a
Colori e vivere, vivere…”

Mani nelle mani i due volteggiavano per la stanza, muovendosi per lo più a caso, ma che importava? Loro si stavano divertendo un mondo ed era più che sufficiente. Costretto dalla sua altezza ad abbassarsi per essere al pari della figlia, quando non ne poté più Aaron l’afferrò alla vita in un presa salda, in una giravolta a colori, mettendosela a sedere in braccio: un braccio dietro le ginocchia per sorreggerla, la mano libera a tenergliene una minuscola all’esterno, come se stessero ballando davvero. Serena era così felice che stentava a crederci: stava ballando con il suo papà!

-Noi resteremo sempre insieme. Non è vero papà?

Glielo chiese con una convinzione, una determinazione, a cui non poté impedire al proprio sorriso di allargarsi maggiormente, occhi negli occhi con la sua principessa. La musica ormai diventata il loro sottofondo.

-Certo piccola.-

Serena gli posò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi.

“E penso che tu
Sia un fiore di un raro colore che
Riesce a stare fermo con lo sguardo
Altrove e oltre che tu riesci a vedere e
Oltre che tu sai a sentire.”

Era stata una serata molto animata. Dopo che Aaron e la nipotina erano scesi in salotto, raggiungendo il piccolo Jack ancora intento nella sua guerra spaziale, i tre si erano divertiti come non mai. Jessica non ricordava il tempo di vederli così felici, specialmente da dopo la morte della sorella. Aveva sempre considerato il cognato un brav’uomo, sebbene troppo preso dal lavoro e dagli impegni, tanto che più di una volta si era chiesta se per caso ponesse il lavoro prima della propria famiglia. Tuttavia, quella sera, dovette ricredersi. Aveva notato fin dal suo arrivo quanto fosse stanco e necessitasse di un po’ di sano riposo, eppure si era dedicato immediatamente ai suoi figli, parlando e giocando con loro. Il suo sorriso, cosa molto rara da vedere, quella notte era rimasto a lungo sul suo viso. Aveva giocato alla lotta, aveva fatto il solletico ai figli fino a farli restare senza fiato dalle troppe risate, si era improvvisato a cavalluccio. Finchè, quando anche i due bambini avevano iniziato a mostrare segni di stanchezza, lei aveva invitato il cognato a passare lì la notte. Jack aveva pregato il genitore di raccontar loro una storia e Aaron aveva acconsentito, ma solo dopo che entrambi si fossero lavati i denti e infilati il pigiama. I due bambini erano schizzati come fulmini su per le scale ed era stato in quel momento che lei aveva visto gli occhi e il sorriso di lui, la vera prova di quanto anche lui avesse bisogno dei suoi figli.

Era passata più di un’ora da quando i tre erano saliti e dalla camera del piano superiore non arrivava alcun rumore. Jessica socchiuse la porta, tentando di fare il minor rumore possibile. La stanza era illuminata dalle luci delle due lampade poste ai lati del letto, sul quale l’intera famigliola si era addormentata. Erano bellissimi. Aaron in mezzo, interamente vestito, con ancora il libro di favole tra le mani. Sotto il braccio sinistro stava Jack, il pollice della manina sinistra in bocca. Serena invece stava sotto il braccio destro, le manine sotto al mento, accoccolata il più vicino possibile al genitore. Jessica non ebbe cuore di svegliarli. Entrò nella stanza e ripose il volume di storie al suo posto, dopo di che si premurò di allentare il nodo della cravatta del cognato, in modo tale che non soffocasse nel sonno. Probabilmente in una situazione normale si sarebbe svegliato, ma dopo tutta la stanchezza e le preoccupazioni accumulate nemmeno se ne accorse, continuando a dormire.

Jessica si voltò a guardarli un’ultima volta, prima di spegnere le luci.

(FINE FLASHBACK)

 
POV SERENA

Il silenzio dell’abitacolo non mi era mai parso così fastidioso come in quel momento, ma quando avevo tentato di porvi rimedio accendendo la radio, avevo realizzato che il problema non stava nella macchina o nella pessima stazione radio, era dovuto a tutto il resto. Spensi la musica con un gesto stizzito. Era quasi due ore che guidavo, seguendo le indicazioni datemi da McGrant e confermatemi poi nel dettaglio da Garcia. Le mani stringevano febbrilmente il volante, quasi volessero strozzarlo; forse per quello erano ghiacciate malgrado i 20° impostati sul veicolo. Non ricordavo di essere mai stata così nervosa in tutta la mia vita. Ormai era da mezzora che avevo abbandonato la strada principale, percorrendone una secondaria sterrata, piena zeppa di buche tanto da non permettermi di inserire la terza marcia e interamente circondata da campi dedicati al raccolto. Una distesa di terra marrone e arbusti giallognoli era tutto ciò che riuscivo a vedere. Di tanto in tanto, in lontananza, si intravedeva una cascina o un deposito, ma a mio parere erano tutti disabitati.

Il piede tamburellava pericolosamente sulla frizione. A mano a mano che mi avvicinavo alla mia destinazione sentivo l’ansia crescere sempre di più, del tutto inutile il mantra che continuavo a recitare mentalmente per tentare di calmarmi. L’unica cosa che mi impediva di fare inversione e tornarmene al sicuro alla centrale era anche l’unica a spronarmi e ad infondermi il coraggio di cui in quel momento necessitavo: quest’oggi avrei mantenuto la promessa. La stessa promessa che mio padre fece a me e a mio fratello dietro la porta chiusa della nostra stanza e che mantenne per molte volte nel corso degli anni. Quest’oggi sarei stata io a mantenerla. Non lo avrei abbandonato. Era come se tutto improvvisamente mi fosse chiaro, tutto quello che era successo in questi anni assumeva un significato diverso, come quando stai facendo un puzzle difficilissimo e improvvisamente tutti i pezzi trovano la loro giusta ubicazione, quasi per magia. Un po’ come quando si dice che in punto di morte tutta la tua vita ti passa davanti agli occhi. Beh, in quel tratto di strada per me fu proprio così. E mi sentii profondamente colpevole quando realizzai quanto in collera ero stata con mio padre, accusandolo di ogni sua più piccola mancanza, quando poi anche io nel corso di quegli anni avevo fatto la mia parte. Mi ero sempre ritenuta io la vittima di tutto ciò che ci era successo e tutte le buone motivazioni che mi erano state date le avevo classificate come insufficienti. Ma lo erano davvero? E io cosa avevo fatto per rimediare (capricci a parte)? La risposta era: nulla. Tante volte avrei potuto essere io a fare il primo passo, a porre rimedio, invece non avevo detto nulla, piangendomi addosso. Avevo sprecato tutte le mie buone occasioni, ma non avrei sprecato questa. Anche perché, in caso contrario, dubitavo ce ne sarebbero state altre.

Non l’avevo invitato alla mia borsa di studio, così come non lo avevo invitato al ballo accademico. Quante volte avevo fantasticato che anche lui fosse presente, che tra il pubblico che batteva le mani ci fosse anche lui, orgoglioso di me, oppure che come molti genitori ballasse con me una canzone alla festa della scuola. L’ho sempre accusato di non esserci stato, mentre io nel frattempo contribuivo ad allontanarlo da me.

Mi sentii un verme a ripensare quelle cose, ma adesso ero del tutto intenzionata a porvi rimedio. La macchina traballò centrando l’ennesima buca. Controllai il contachilometri, ormai ero quasi arrivata. Mentalmente ripassai il piano studiato con i ragazzi; era stata una vera e propria lotta convincerli a lasciarmi andare, ma tutti sapevano bene che non c’erano alternative. Basta tergiversare, era arrivato il momento di agire. Potevo comprendere il loro timore: sarei entrata nella tana del lupo, sola, disarmata, senza che nessuno potesse intervenire in tempo se ce ne fosse stato bisogno. Allora io feci il loro esatto contrario, proponendo microfoni e videocamere per tenere sotto controllo la situazione, più tre di loro appostati a debita distanza per non farsi scoprire dall’S.I.. Alla fine avevano dovuto cedere. Istintivamente mi portai una mano al polsino sinistro della camicia, controllando il minuscolo microfono collegato al bottone. Inoltre, sapevo che un’unità speciale aveva già fatto un sopraluogo del posto in assoluto silenzio, individuando il capannone incriminato e installando vicino alle finestre che davano sull’interno delle telecamere, in modo che una volta dentro i ragazzi potessero sia vedermi che sentirmi.

-Serena, a che punto sei?- la voce di Rossi mi fece sobbalzare dalla sorpresa, interpellandomi dal mio stesso microfono.

-Ci sono quasi.- risposi, tentando di mantenere la mia sicurezza.

-D’accordo. Noi siamo in posizione. Aspetteremo il tuo segnale quando dovremo intervenire.- sentii dell’incertezza nella sua voce. Il piano era stato concordato, ma avevo omesso quale sarebbe stato il segnale. Per il momento solo una persona ne era al corrente.

-Tranquilli. Lo capirete.- ci fu un minuto di silenzio –Ci vediamo fuori.- o perlomeno era quello che speravo.

-Fa attenzione.- si raccomandò un’ultima volta il caposquadra. Riattaccai. Non volevo farmi sopraffare dall’ansia proprio adesso. Decisi quindi di controllare l’ultima parte del piano. Composi il numero e lasciai squillare il telefono un paio di volte.

-Chiedete e vi sarà dato.-

Quella voce riuscì a strapparmi un sorriso divertito e, dovevo ammetterlo, in quel momento ne avevo veramente bisogno.

-Penelope sono io, allora è tutto pronto?-

-Sì, tranquilla è tutto pronto e in posizione.-

-Molto bene. Penelope, una volta dentro avrò bisogno della tua più totale attenzione. Dipende tutto da te. Un minuto di troppo potrebbe essere fatale per tutti.-

-Tesoro, sei sicura di quello che fai vero?- temeva di fallire e non potevo biasimarla, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

-No, ma è l’unica alternativa che abbiamo.-

-Ti prego sta attenta. Vedete di riportare entrambi i vostri fondoschiena qui, siamo intesi?- caspita se ci teneva! E pensare che era da solo poche ore che mi conosceva. Aveva proprio ragione mio padre a dire che era speciale.

-Te lo prometto.- detto questo chiusi la comunicazione.

Perché glielo avevo promesso? Mi era sempre stato insegnato che non bisognava mai fare promesse che non si potevano mantenere, ed ero sicura che questa facesse parte della categoria. Eppure non avevo potuto farne a meno: lei era quello che aveva bisogno di sentirsi dire e io avevo bisogno di un pretesto in più per uscire da quel buco, della serie: “mi dispiace signor rapitore, ma ho fatto una promessa ad un’amica, perciò non può assolutamente ucciderci”. In cuor mio sperai davvero che funzionasse.

Come preannunciatomi un capannone dall’aria diroccata si stagliò ad una trentina di metri dalla strada. Felice di poter cessare quel continuo sobbalzare fermai la macchina e spensi il motore; dubitavo che qualcuno sarebbe passato accidentalmente da quelle parti e iniziasse a suonare il clacson per farmi rimuovere la vettura. Feci un respiro profondo mentre guardavo quel posto dall’aria lugubre: ecco la tana, ed il lupo mi aspettava all’interno.

Scesi dall’auto e feci alcuni passi prima di fermarmi e analizzare nuovamente il posto. Ovviamente Rossi, Morgan e Prentiss non erano visibili nemmeno col binocolo, nascosti nella macchia di alberi più vicina, fuori dalla portata visiva dell’S.I.. Mi portai il braccio sinistro davanti al viso, fingendo di tossire.

-Ci sono. Mi appresto ad entrare.- dissi invece al microfono.

Sapevo che l’S.I. mi stava aspettando, potevo sentirmi il suo sguardo addosso, probabilmente cercando di capire sin da subito se fossi realmente sola o stessi complottando qualcosa. A maggior ragione quindi dovevo stare attenta a non fare passi falsi. Mi avvicinai con fare neutro, metro dopo metro, sotto lo sguardo freddo di quelle finestre nere. Un brivido mi percorse da capo a piedi, mio padre era lì dentro. Una volta di fronte alle porte in legno tentennai, un campanello di allarme suonava furiosamente nella mia testa. Lì dentro c’era mio padre, tutta la mia vita, probabilmente torturato oltre ogni dire, con lui c’era un uomo pericoloso, lo stesso che gli aveva fatto del male e che, molto probabilmente, ne avrebbe fatto anche a me. La scelta più logica era fare dietrofront e correre quanto più velocemente le mie gambe mi consentissero di fare. Invece no, perché in una famiglia nessuno viene abbandonato e questo l’S.I. se l’era dimenticato, perciò era giunto il momento che qualcuno glielo ricordasse. “Papà sto arrivando”.

Le porte si spalancarono con facilità, troppa. L’interno era buio pesto e uno spiffero di aria gelida, più di quella che c’era fuori, mi ferì il viso. il mio stomaco si aggrovigliò in un nodo stretto; no, quella situazione non mi piaceva per niente.

-C’è nessuno?- la mia voce rimbalzò nel vuoto, solo uno stormire di piume tra le travi del soffitto dove si erano annidati dei piccioni; dovevo insistere, io ero più forte di lui; -McGrant! Tanto lo so che ci sei!- ancora una volta nessuna risposta. A quel punto sarei dovuta tornare indietro, aspettare la prossima telefonata e minacciare l’S.I. di non aver rispettato i patti. Ma ovviamente non lo feci. Dovevo sapere se mio padre era lì o se quanto meno ci fosse mai stato. Poco importava se si trattava di una trappola, ormai ero in ballo quindi tanto valeva ballare. Ebbi solo il tempo di pensarlo che qualcosa mi colpì con forza dietro la testa. I miei occhi ebbero una panoramica del capannone mentre cadevo al suolo, giusto il tempo che il buio si richiudesse su di me.

 
“Comunque andare
Anche quanto ti senti svanire
Non saperti risparmiare
Ma giocartela fino alla fine”
 
https://www.facebook.com/470597336286075/videos/1464666940212438/
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Criminal Minds / Vai alla pagina dell'autore: CaptainKonny