Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: allonsy_sk    07/03/2017    2 recensioni
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La cucina ha l'aria di un posto che viene usato di rado, dal monolite bianco del frigorifero vuoto istoriato di magneti noiosi e volantini di diversi take away, alle mattonelle shabby-chic macchiate d'oro.
C'è un segno sulla parete, a circa un piede dal battiscopa che corre al lato del frigorifero, dove Sherlock è sicuro che Mycroft lasci cadere la valigetta ogni sera, fermandosi poi ad aprire il frigorifero prima di cedere alla stanchezza, alla pigrizia o alla gola.
Lo fa al buio, a giudicare dal modo in cui le sue impronte digitali sono distorte, piccole chiazze leggermente oleose sulla superficie liscia e altrimenti lucida dell'elettrodomestico.
È tanto più strano, quindi, che la cucina profumi di cioccolato e burro e che il pavimento immacolato sia sporco di farina.
La vista più strana, comunque, è Mycroft in jeans e maglioncino, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule bianco.
Se non fosse completamente pulito da ben due mesi tre settimane e due giorni, Sherlock penserebbe di avere di fronte una delle sue più assurde allucinazioni.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Eurus Holmes, John Watson, Mrs. Holmes, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Brother Mine

 

7 - Data ignota. Almeno un mese dall'ultima visita di Sherlock. Abbastanza da comporre una suite dedicata a lui, abbastanza da farsi sanguinare le dita nonostante non abbia più i calli come una principiante.

La rabbia non la coglie di sorpresa. Ha sempre saputo di essere come un vulcano dormiente, il fuoco sotto la cenere.

È sempre stata impaziente e paziente allo stesso tempo, la stessa contraddizione che Sherlock ha declinato in modo completamente diverso.

Ha sempre saputo attendere per le cose importanti, per la soddisfazione di un lungo gioco portato a termine, per il momento più adatto per ottenere l'effetto più teatrale e profondo.

Ma non può attendere per molte altre cose, non può affrettare un processo che vuole osservare, non può affrettare il risultato di macchinazioni che ha messo in moto, non può rendere gli umani più veloci ed efficienti. Sono così lenti, torpidi e deludenti che se avesse un briciolo in più di fantasia penserebbe di appartenere ad una specie diversa dalla loro (lo pensa già, grazie tante, ma non c'è nulla di fantascientifico in quel pensiero. È una consapevolezza nuda e secca radicata nei fatti).

La rabbia, quindi, non la sorprende. La sente serpeggiare nelle sue vene e nel suo respiro insieme al mix di farmaci che le viene somministrato. I calmanti la rendono lenta e un po' più stupida, smussano i frammenti vivi e taglienti del suo intelletto, permettono al personale medico di fare il proprio lavoro.

Anche questo è un esperimento. Rispetto all'inizio permette alle infermiere di portarle le medicine che non possono essere somministrate per aerosol, non finge neanche di deglutirle per poi sputarle da qualche parte.

Non le piacciono i farmaci. Qualcosa interferisce ad un profondo livello chimico con i suoi processi mentali. È tutto distorto, fuori fuoco, tremendamente noioso. La noia non le è mai piaciuta, e va di pari passo con la rabbia. Più si sente calma, stupida e noiosa, più la sua rabbia cresce silenziosamente.

Quello che non si aspetta è la paura.

Eurus non ha mai avuto paura in quasi trentasette anni di vita.

Mai.

Non ha mai avuto paura, quando ha preso coscienza di sé e ha scoperto di essere diversa . Diversa da Sherlock, che a cinque anni - lei soltanto quattro - era soltanto un moccioso stupido con le guance rosa e la testa piena di ricci, incapace anche soltanto di legarsi le scarpe da solo.

Diversa da Mycroft , che era già grande, una presenza silenziosa e sospettosa, sempre immerso in un libro e sempre cauto in sua presenza. Era già avaro di abbracci a quell'età e con Sherlock, ma Eurus non ricorda di essere mai stata toccata da lui, se non la volta che il fratello maggiore ha salvato entrambi dall'incendio di Musgrave. Non che volesse essere toccata, comunque, pensa con manifesto disgusto.

Certamente non aveva paura né può dire di aver provato dolore la volta in cui si è tagliata per osservare i muscoli sotto la pelle. Era così presa, così concentrata, che l'idea di fermarsi per paura di farsi male non l'ha neanche sfiorata. In quanto al dolore, è parte dell'esperienza, un parametro tutto sommato irrilevante di fronte al brivido della scoperta.

Nessuna paura, ripensamento o esitazione all'idea di spingere Victor nel pozzo, nessuna paura al pensiero delle conseguenze se mamma, papà o i cinque poliziotti grandi e grossi che all'epoca l'avevano interrogata avessero scoperto la realtà.

Il fuoco le è sempre piaciuto. Dare fuoco a Musgrave è stato bellissimo, un momento di trionfo grande come tutta la casa avvolta nelle fiamme, col pianto terrorizzato di Sherlock in sottofondo e il rumore della sirena dei pompieri troppo lontana per poter spegnere l'incendio prima che la casa fosse ridotta ad un tizzone fumante e inutile.

Forse il momento che più si è avvicinato alla paura - smarrimento, in realtà - è stato il momento in cui si è lasciata prendere dalla metafora dell'aereo senza conducente, quando soltanto Sherlock è riuscito a riportarla a terra.

Ha senso, se si permette di pensarci, perché la paura che adesso le sussurra leggera all'orecchio, sfiorandole i capelli di notte con dita carezzevoli e appoggiando i polpastrelli sulla sua gola mentre sogna, ha la forma sbiadita e il colore buio dell'assenza totale di Sherlock.

Sherlock è sempre stato il suo doppio, il suo riflesso nello specchio. Il gemello luminoso della sua metà oscura. Non che lei possa percepire il proprio colore, ma capisce la differenza tra le due tinte. Sherlock è luce, lei è ombra, nessun intrinseco giudizio morale nell'uno e nell'altra. Si può morire di troppa luce come di troppa ombra.

Mycroft è un estraneo, lo è sempre stato. L'emarginato, il solitario, il bambino grasso già adulto e frustrato e costretto a tener d'occhio i piccoli senza la possibilità di badare agli affari propri.

Sherlock doveva essere suo , perché potesse farne ciò che voleva. Suo da analizzare, da studiare e persino rompere. Compagno di giochi, giocattolo, complice. Non di Mycroft, non di Victor.

La rabbia tinge la sua paura di rosso sangue, trasforma il nodo che le chiude la gola in un ringhio sommesso, una brutta smorfia che le contorce il viso.

Victor non ha mai avuto alcun diritto di portarglielo via. Non è neanche della famiglia. (E questo è il massimo della sua lealtà. Non avrebbe mosso un dito se Sherlock avesse acconsentito a sparare a Mycroft, ma non si sporcherebbe le mani uccidendolo da sé. Forse.)

Man mano che passano i giorni e Sherlock brilla per la sua assenza, la paura di Eurus cresce, monta lenta e inesorabile come una marea scura e silenziosa.

Suona notte e giorno senza intervalli, stralci di Bach, sue composizioni, la filastrocca di Redbeard, versioni barocche di canzoni pop di dieci anni prima, sentite per caso alla radio di una guardia.

Torna continuamente sul pezzo che ha suonato con Sherlock in più occasioni, accenna le prime note della musica che lui ha iniziato quando gli ha chiesto, oh, settimane fa, se ha mai fatto sesso. Non sa come prosegue, può soltanto tirare a indovinare. Non sa mai se la musica è bella, soltanto se è giusta. Ma senza Sherlock come fa a sapere se la musica di Sherlock è giusta? Non ha mai avuto neanche un soffio di empatia nei confronti di nessuno, neanche di se stessa. Non inizierà certamente adesso a provarne.

Il tema di Sherlock si espande ogni giorno di più. Diventa una sonata, poi diventa una suite. Nella sua testa è per due violini, ma il secondo violino tace cocciuto ed è costretta ad immaginarne il suono.

Mormora la melodia nel sonno, mormora la melodia di giorno mentre la visitano e mentre le danno le medicine. Suona, suona, suona, finché non le sanguinano le dita, neanche fosse una principiante a cui si è rotto un callo.

Sherlock non torna.

Eurus ha perso il conto dei giorni, ma è sicura che sia passato almeno un mese abbondante. Sherlock veniva a suonare con lei per un paio d'ore ogni quindici giorni. Sono due visite mancate, crede, se non ha perso del tutto le coordinate, alla deriva come una nave senza timone e senza la guida di un faro, destinata a infrangersi sugli scogli.

Non vuole dissolversi nella nebbia chimica dei calmanti e degli antipsicotici prima di aver visto Sherlock un'altra volta.

Deve riprendere il controllo.

La paura l'abbandona come il mare si ritira dalla battigia per gonfiare la pancia di un'onda, lasciando indietro la schiuma sulla sabbia e la furia che pulsa nelle sue vene e le sgombra la mente.

Nessuno ha il diritto di toglierle ciò che le spetta, che si tratti del controllo sulla propria prigione, della possibilità di avvicinarsi ai fratelli - che sia per tormentarli o osservarli fa lo stesso - della possibilità di mettere in atto i propri giochi. È così annoiata , ma si è permessa di esserlo, non fosse altro per sperimentare la sensazione a fondo, per verificare cosa si provi a sentirsi normale . O quello che gli altri, i pesci rossi credono che sia essere normali.

Adesso può bastare.

L'occasione si presenta sotto forma di una guardia che passa una mattina per il solito giro di ronda. Eurus non ha mai visto la donna, o forse prima d'ora non le è servito vederla.

Si ferma a sentirla suonare, indugiando nei pressi del vetro alla distanza di sicurezza, con le mani incrociate dietro la schiena e i piedi piantati ben saldi per terra.

È leggermente più vecchia di Eurus, che l'osserva di soppiatto da sotto i capelli che le nascondono parte del viso mentre suona, con un viso banale ma simmetrico e una postura che denota forza. È robusta, mascolina e emana un senso di pulizia e onestà.

Ha un filo di trucco sugli occhi che ne accentua il blu un po' sbiadito, ma niente rossetto.

A Eurus piace il rossetto. Non per truccarsi, ovviamente. Il make-up è soltanto un voler accentuare quelle che di natura sono le caratteristiche di un esemplare nella piena età fertile allo scopo di attirare un compagno adeguato per la riproduzione. Ma il rosso riporta al sangue e al fuoco. È vibrante, è vitale e viscerale.

La guardia resta ad ascoltarla suonare finché Eurus continua nella sua ennesima performance della suite per Sherlock , esita quando Eurus termina e depone il violino, sedendosi sul letto senza guardare in direzione del vetro.

La guardia sembra riscuotersi allora. Abbandona la postura rigida dell'ascolto e torna verso l'ascensore.

Una volta sola Eurus si permette di calcolare tutte le variabili, tutte le possibilità. Sono mesi che non parla a nessuno, che interagisce con chiunque il minimo indispensabile. Ha la forza di riguadagnare uno spiraglio di lucidità e permettere alla fragilità di Faith o al fascino di Elizabeth di trasparire?

Non importa se ne ha la forza. Deve provarci, anche se è difficile, fosse anche la sua ultima possibilità. È stanca di aspettare, è stanca di essere arrabbiata, è stanca di essere ferma .

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Il complicato sistema di turni a Sherrinford fa sì che Eurus non riveda la guardia per un'altra settimana. Ha tutto il tempo per iniziare a suonare di fronte al vetro, per spostarsi i capelli dal viso senza che la cosa sia ritenuta improvvisa.
Sorride distrattamente ad un'infermiera, mormorando tra sé e sé stralci della suite per Sherlock , e quando sente il passo solido della guardia avvicinarsi per la consueta ronda, controlla l'accordatura del violino e infila la Sérénade dalla Suite nr. 16 di Saint Saens, sorridendo beata col sorriso malizioso di Elizabeth.

La guardia si ferma ad ascoltarla come la volta precedente, in posizione di riposo e senza sedersi, senza avvicinarsi.

Eurus cerca di ricordarsi di cercare il contatto visivo. Una o due volte, non di più. Fa un mezzo sorriso quando distoglie lo sguardo, fingendo una timidezza di cui non conosce il colore, il sapore, l'essenza.

Sente la guardia schiarirsi la gola. Quando inizia il pezzo seguente e solleva lo sguardo tra le ciglia, sbattendo piano le palpebre sugli occhi maliardi di Elizabeth, Eurus nota che la guardia ha l'aria di aver sorriso, anche se adesso è seria.

Il suo viso simmetrico e del tutto dimenticabile ha un'aria più distesa, gli occhi sono un po' più brillanti, addolciti da sottili pieghe ai lati.

Può funzionare, dunque, e non ha neanche dovuto parlare fino ad ora.

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La guardia si chiama Jane. Eurus lo scopre al quarto o quinto incontro. Qualcosa è cambiato, e la struttura blindata dei turni di Sherrinford ha ceduto il posto a qualche cambio turno inaspettato.

Ooh, interessante. Se la guardia è già al punto di farsi cambiare l'orario e incassare qualche vecchio favore Eurus è pronta a segnare un paio di punti sul suo tabellone mentale del punteggio.

La guardia ha preso a parlarle, sempre a tre metri di distanza dal vetro, con le braccia dietro il corpo e le dita delle due mani incrociate ben strette le une alle altre.

Parla mentre Eurus siede sul bordo del letto, guardando dritto davanti a sé senza rispondere. Qualche volta si volta per osservare la guardia, qualche volta sorride civettuola senza voltarsi.

"Io mi chiamo Jane," annuncia la donna, senza cambiare postura. "Non so perché te lo dico. Non so neanche perché e per chi suoni, ma io sono qui che ascolto e… beh, mi andava di dirtelo."

Jane sorride. È un sorriso aperto, luminoso. I suoi occhi blu saettano per un istante di lato, con le ciglia dorate a schermarli, quasi fosse imbarazzata dalle sue stesse parole. Ha del rosso sulle guance, ma sempre niente rossetto. Eurus è affascinata suo malgrado. La lusinga di un qualche piacere è mille volte più efficace di qualsiasi cosmetico.

Subito dopo la guardia scioglie la posa e accenna un saluto con la mano, allontanandosi decisa verso l'ascensore. Questa volta ancora Eurus non la ferma.

Forse la prossima.

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