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Autore: EveLWilliams    09/03/2017    0 recensioni
Dopo la firma della Grande Pace, Chicago è suddivisa in cinque fazioni consacrate ognuna a un valore: la sapienza per gli Eruditi, il coraggio per gli Intrepidi, l'amicizia per i Pacifici, l'altruismo per gli Abneganti e l'onestà per i Candidi.
Theia, una giovane Pacifica, deve scegliere a quale unirsi, con il rischio di rinunciare alla propria famiglia.
Prendere una decisione non è facile e il test che dovrebbe indirizzarla verso l'unica strada a lei adatta, si rivela inconcludente: Theia ha attitudini per tutte le fazioni.
Theia è una Divergente e la scelta di unirsi agli Intrepidi potrebbe costarle la vita, ma non quanto abbandonarsi ai sentimenti che prova per il più pericoloso dei capifazione degli Intrepidi: Eric.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Nuovo personaggio
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La Cerimonia è finita, cerco con lo sguardo Althea e Dill, ma gli Intrepidi sono tutti più alti di me, anche sollevando la testa vedo solo spalle vestite di nero.
Sono sicura che quei due si staranno già abbracciando e sbaciucchiando, ma mi sarebbe piaciuto vederli per l’ultima volta anche solo da lontano.
Non dovrei pensare alla mia vecchia vita, sto per iniziarne una nuova e, anche se non è possibile dimenticare tutto in un attimo, so che presto la nostalgia sarà sopportabile.
Gli Intrepidi escono per primi, io esito per un attimo, ma la gente dietro di me mi spinge avanti aiutandomi a muovere i miei primi passi all’unisono con quelli della mia nuova fazione.
Il mio gruppo si dirige verso le scale, sento grida e risate tutto intorno a me e decine di piedi che si muovono rimbombando a ritmi diversi.
Quando arriviamo al pian terreno mi sento carica, la corsa per le scale ha allentato la tensione che avevo accumulato durante la Cerimonia.
Seguo gli Intrepidi fuori dall’edificio e correndo tutti dubbi e le paure svaniscono. Amo correre, spingere il mio corpo fino al massimo, sentire i miei muscoli tesi e compatti, i polmoni che si gonfiano d’aria e il sudore che scivola lungo tutto il mio corpo. Mi sento viva e forte, mi sento invincibile.
Corro insieme gli Intrepidi lungo la strada, svolto l’angolo e sento il fischio del treno e so già cosa mi aspetta: saltare.
Quando ero a scuola ho visto gli Intrepidi farlo centinaia di volte e, almeno una volta, anche io ho sognato di farlo. Li studiavo attentamente analizzando ogni loro movimento.
Correre, arrampicarmi, saltare dai rami degli alberi mi ha dato una buona agilità e aiutare con il lavoro nei campi mi ha dato un minimo di forza. Solo a una cosa non sono preparata: la resistenza dell’aria nel momento in cui afferrerò la maniglia del vagone e salterò dentro. Sono allenata ma ho paura che domani le braccia mi faranno parecchio male.
Il gruppo si distribuisce in una lunga fila mentre il treno si avvicina a noi. Le porte dei vagoni sono tutte aperte. Il figli degli Intrepidi iniziano a saltare sul treno con una naturalezza che per me è sconcertante ma che per loro è normale.
In una manciata di secondi tutti i figli degli Intrepidi sono sul treno, solo noi trasfazione siamo rimasti sul marciapiede.
Cominciamo a correre e affianchiamo il vagone per qualche metro e poi ci gettiamo di lato. Non sono abbastanza allenata per saltare direttamente nel vagone, quindi decido di puntare alla maniglia vicino all’entrata.
Salto usando la mia gamba di spinta, la sinistra, in modo da poter atterrare con la destra che è quella che controlla meglio l’equilibrio ed è più abituata agli atterraggi. Mi aggrappo saldamente alla maniglia e vengo spinta dall’aria contro la parte esterna del vagone, faccio forza con le braccia e mi butto dentro.
Mi siedo contro una parete e mi guardo intorno. Sono circondata da trasfazione mezzi sconvolti e non riesco a capirli, è stata dura ma dannatamente divertente.
Cerco con lo sguardo la sorella di Caleb e la vedo seduta a terra in fondo al vagone, sta parlando con una Candida alta, con la pelle scura e i capelli corti. Il sibilo del vento che soffia sempre più forte dalle porte aperte mi impedisce di sentire quello che si stanno dicendo. Non ha importanza, sono sul treno che mi porterà alla residenza degli Intrepidi, la mia nuova vita è iniziata nel più elettrizzante dei modi.

 

«Stanno saltando giù!» grida qualcuno.
Mi alzo di scatto e mi sporgo da una delle entrate del vagone. Gli Intrepidi stanno saltando giù dai vagoni anteriori, mentre il convoglio passa accanto al tetto di un edificio di sette piani.
Sapevo che avrei dovuto saltare ma non pensavo di farlo a una quarantina di metri dal suolo. I binari non scorrono attaccati al tetto, sono distanti qualche metro. Non è una distanza enorme, devo solo ignorare che in quei pochi metri c’è un baratro di sette piani e se manco il tetto e ci finisco dentro morirò di sicuro.
È largo quanto il canale che c’è dopo l’ultimo campo vicino alla recinzione, l’ho saltato senza problemi decine di volte.
Mi ripeto per evitare di concentrarmi troppo sulla profondità invece che sulla distanza.
Concentrazione, questa è la parola chiave, devo ignorare il baratro e visualizzare nella mia mente tutte le fasi del salto.
Rincorsa, stacco, salto, atterraggio.
Se cerco di atterrare perfettamente in piedi, la botta sarà troppo forte e comunque finirei a terra, magari rompendomi un braccio o una caviglia. Devo solo ammortizzare l’atterraggio, lasciarmi rotolare e me la caverò al massimo con qualche graffio.
Faccio qualche passo indietro fino a quando sento la parete del vagone. È il momento. Faccio un profondo respiro e scatto verso l’uscita del vagone. Salto.
Per un momento mi libro in aria, senza peso, vorrei potermi godere questa sensazione così piacevole ma non posso, devo affrontare la fase peggiore del salto. I miei piedi toccano il suolo, mi sbilancio in avanti e mi lascio rotolare, una semplice capriola ma che la ghiaia del tetto e la velocità rendono dolorosa. Quando mi fermo sono piena di graffi, il mio vestito è lacerato in più punti ma sto bene. Sono sul tetto, ce l’ho fatta.
Alle mie spalle sento un lamento e delle urla. Qualcuno è caduto nel baratro, non mi serve voltarmi e andare a vedere, so che è così. Mi guardo intorno sperando di vedere la sorella di Caleb ma non la trovo.
Non può essere lei… fa che non sia lei…
Mi alzo e la vedo allontanarsi dal cornicione, tiene la testa bassa e sembra sul punto di piangere. Sta bene, è viva, non era lei. Tiro un sospiro di sollievo.
Dovrei essere turbata da quello che è appena accaduto e un po’ lo sono, ma non quanto mi aspettavo. Dentro di me sembra essersi svegliato qualcosa che mi sta dicendo di abituarmi, di iniziare a costruire la mia corazza e di farla bella robusta perché ne avrò bisogno. Non sono più nei Pacifici, sono negli Intrepidi. Compiamo azioni pericolose e la gente muore e noi non possiamo fermarci perché dobbiamo passare all’azione successiva. Prima me lo faccio entrare in testa e maggiori saranno le possibilità di superare un’iniziazione che si preannuncia dura e difficile.
«Attenzione! Mi chiamo Max e sono uno dei capi della vostra nuova fazione!» urla un uomo a pochi metri da me.
È più vecchio degli altri, la pelle scura del suo viso è segnata da profonde rughe e ha i capelli grigi sulle tempie. Passeggia sul cornicione come se niente fosse, come se oltre non ci fosse un altro baratro.
«Diversi piani sotto di noi c’è l’entrata del nostro complesso residenziale. Se non riuscirete a trovare la forza di saltare, questo non è il posto per voi.»
Dobbiamo saltare di nuovo? Mi mordo il labbro inferiore per evitare di ridere al pensiero di essere finita in una fazione di cavallette.
Un’Erudita con i capelli di un castano spento chiede a Max se sul fondo c’è qualcosa, tipo dell’acqua, ma lui è deciso a non rivelare nulla su quello che ci attende sette piani sotto di noi.
Nessuno pare intenzionato ad essere il primo a scoprire cosa c’è la sotto, tutti evitano lo sguardo di Max, tutti tranne la sorella di Caleb.
La vedo andare verso Max e sporgersi, dubito che riesca a vedere qualcosa. La osservo mentre si slaccia la camicia e la lancia addosso al Candido spocchioso che ho odiato dal primo momento che ha aperto bocca.
Sale sul cornicione e non esita un attimo, la vedo saltare e sparire.
Gli iniziati si raggruppano vicino al cornicione sperando di vedere, o almeno capire, su cosa è atterrata. Io non mi muovo, so che è una tattica per spaventarci e, qualsiasi cosa ci sia là sotto, attutirà la caduta.
Lascio saltare qualche altro iniziato e poi decido che è il caso di abbandonare quel tetto da dove riesco a vedere la recinzione e so che oltre ad essa ci sono i campi dei Pacifici.
Saltare da quel tetto sarà l’ultimo colpo di forbice che reciderà per sempre il legame con la mia vecchia fazione.
Mi sporgo oltre il bordo e guardo giù. L’edificio su cui mi trovo forma una piazza insieme ad altri tre palazzi, al suo centro c’è una voragine così profonda che non riesco a vederne il fondo. Un salto nel vuoto, un salto dalla luce all’oscurità. Morte e rinascita. Si deve prima morire in una vita per poter nascere in un’altra.
Mi metto in piedi sul bordo, guardo verso la mia vecchia fazione come per dirle addio e poi salto.
Sebbene stia cadendo mi sento leggera, espiro in modo da rendere meno sgradevole la sensazione della caduta. Tutto è così bello ma purtroppo anche veloce, l’oscurità della voragine mi inghiotte, non vedo altro che buio e sento il mio corpo atterrare su qualcosa di rigido sul quale rimbalzo più volte prima di fermarmi. È una rete.
Simbolicamente parlando avrei preferito dell’acqua, ma l’impatto sarebbe stato più doloroso visto che sono atterrata di schiena, buttarmi di testa mi sembrava una follia.
L’oscillare della rete inizia a farmi girare la testa, devo scendere e mettere i piedi sul solido terreno.
Rotolo verso il bordo ma non riesco a scavalcarlo. Dal buio vedo due mani allungarsi verso di me e afferrarmi per le spalle. La rete continua a oscillare e sono certa che finirò per cadere fuori e farmi più male di quando sono saltata giù dal treno. Sarebbe una cosa davvero imbarazzante essersi fatta solo qualche graffio saltando da un treno in corsa ma rompersi un braccio cadendo da una rete a pochi metri da terra.
Un ragazzo alto, con splendidi occhi nocciola e che sembra più grande di me solo di pochi anni, mi aiuta a scendere e a mettermi in piedi.
«Il tuo nome?» mi domanda prima che io possa ringraziarlo.
«Theia» rispondo con voce tremante non di paura ma di qualcosa che non riesco a decifrare.
Non so cosa sia, ma è lo sguardo di quel ragazzo a scatenarlo. Ha uno sguardo severo ma allo stesso tempo dolce e sensuale. Non sono fisicamente attratta da lui, ma stargli accanto e guardarlo negli occhi, mi fa sentire uno strano calore dentro.

   
 
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