Mio padre
Mio padre sedeva da solo al tavolo della cucina. Aveva allontanato il piatto di verdure miste e guardava la televisione, che trasmetteva un vecchio film comico. Ma mio padre non rideva. Mio padre aveva gli occhi velati da un sentimento insidioso e terribile, che conoscevo bene perché era anche il mio.
Mio padre non mangiò quella sera, e si addormentò sul divano del soggiorno, dove il riscaldamento non era acceso perché non vi entrava mai nessuno. Andai a coprirlo con una coperta troppo sottile, e se ne stava talmente immobile che pensavo se ne fosse già andato.
Quando mi coricai anche io, piansi penosamente per tutte quelle volte che per capriccio gli avevo voltato le spalle, e che per orgoglio lo avevo ferito con le parole. E piansi per gli abbracci stretti che non gli avevo più dato perché non c'era mai tempo, per le carezze che non avevo ricambiato perché occupata con le mie insignificanti faccende, e per i baci che gli avevo negato perché ormai ero diventata troppo grande per quelle cose.
La mattina ero arrabbiata: pensai che mio padre fosse egoista, perché non si può voler morire quando si è responsabili di qualcuno, anche se tutto precipita.
A mezzogiorno fui risentita: mi chiesi come potesse andarsene senza aver visto realizzarsi tutte quelle folli e meravigliose aspirazioni con cui lo avevo da sempre tormentato.
Alle nove mio padre non era ancora tornato a casa, ed io ebbi paura per la prima volta, e volli andare a cercarlo ma non sapevo dove andare, e intanto ripetevo: papà, se sei morto non ti perdono, non ti perdono.
Alle nove e mezza suonò il campanello di casa, due volte. Il primo suono breve, il secondo prolungato. Mio padre suonava così il campanello, cosicché lo riconoscessimo sempre, e siccome ci avevo messo un po' ad aprire entrò in casa lamentandosi perché stava tenendo una pesante cassetta di arance.
Quella sera mio padre fece la spremuta, e bevemmo insieme guardando un vecchio film comico che ci fece ridere per molto tempo.