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Autore: PawsOfFire    12/03/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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“Viva la Resistenza!”
Gridò, puntando i suoi occhi avidi e fieri verso di noi. Con portamento nobile, quasi regale, ella tirò indietro i capelli, che ricaddero gonfi di pioggia lungo le sue guance, impastandosi nella sua bocca traboccante di rabbia.
Noi, i cinque fucili in fila, avanzammo nel fango. Tremanti, ponemmo le dita sul grilletto.
Bastò una parola per far cantare le nostre armi. Passeri acquattati tra gli alberi tacquero, volando via in un muto cordoglio.
Dicono che un fucile sia caricato a salve affinché vi sia la vana speranza dell’innocenza ma, quando contarono i bossoli, ne trovarono esattamente cinque.
 
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Credo sia doveroso fare un piccolo passo indietro. Il pensiero è assurdo è folle: innegabilmente, perfetti sconosciuti vogliono ucciderci. Gente che, in altre condizioni, in un mondo migliore, avrebbe potuto sedere al tavolo e pagarti un doppio whisky, invece di pensare a come ammazzarti. Lo faccio anche io, non sono esente da questo circolo vizioso.
La nebbia era mutata in pioggia e, con essa, il duro terreno gelido era diventato mollo. I cingoli dei nostri panzer affondavano nel fango, incespicando con lunghi lamenti del motore. Mio padre quando, con la lunga pipa in bocca, mi raccontava la Grande Guerra, rammentava di asinelli testardi che si rifiutavano di camminare. Accompagnati per le briglie, gli animali piantavano i loro zoccoli nella fanghiglia, tirando all’indietro i loro grossi musi come per dire “ti prego, torniamo indietro. Questo posto non è sicuro”
Carichi fino a scoppiare, le docili bestie li accompagnavano a passo lento tra le valli ed i picchi aguzzi delle Alpi, saggi nel posare gli zoccoli più di quanto possiamo esserlo noi a guidare i carri armati.
“Capitano!” la voce di Tom risuonò flebile via radio, coperta dall’ululato dei cingoli che giravano all’impazzata.
“Ci siamo impantanati, non riesco a muovermi!” questa volta il suo acuto spaventato riecheggiò nelle nostre cuffie.
“Fermiamoci, è inutile proseguire. Dannazione…”
Provai a comunicare alla compagnia il nostro problema, ma quelli ci ignorarono, proseguendo nel loro cammino, abbandonandoci all’infausto destino.
“Stronzi!” urlai, facendo capolino dalla porticina. Il vento ululava più della mia voce, disperdendo le mie parole nell’etere.
“Come ai vecchi tempi, soldati. Da soli in mezzo al nulla. Che nostalgia”
Spegnemmo il motore e ci accasciammo a terra con indolenza, cercando una soluzione.
Nello specifico, la mia. Le altre non le ascoltai.
“Scendete tutti e lasciatemi il posto di guida. Andremo un po’ indietro. Io guido, voi spingete”
I miei uomini rimasero alquanto perplessi. Poi, sospirando, uscirono dal carro.
Tutti tranne Tom, il pilota. Saldo al volante come un novello Titanic, sbottò un “Affonderò nel fango, se necessario!” in tono decisamente aggressivo, artigliando il volante come se, effettivamente, stessimo scivolando a picco nella melma.
“Non sia così catastrofista, Weisz. Faccia il bravo e scenda a spingere il carro assieme agli altri. È il suo diretto superiore che te lo ordina”
“Mai. Posso farlo anche io”
Portai le mani avanti con diplomazia.
“Va bene” Aggiunsi, affiancandomi a lui “Comprendo la sua decisione. Ma preferisco dare la precedenza alla mia”
Lo spazio era alquanto angusto e, per quanto mi impegnassi, non riuscivo a spingerlo via.
Così, quando per un secondo mi cedette il posto ed io già cantavo vittoria, me lo ritrovai in braccio, leggero come una piuma. Era ben deciso a non mollare la presa.
“Contento lei, Capitano” Il giovane pilota sbuffò con una certa impertinenza, rigido come ferro.
“Non faccia l’ingenuo, Weisz. Non credo fosse il posto ad essere importante...e nemmeno il suo ruolo” Feci schioccare la lingua con aria di uno che la sa piuttosto lunga.
“Lo ha fatto apposta. E la compatisco, davvero. Se fossi un altro mi desidererei intensamente. Infrangerei qualunque legge morale per avermi vicino, stretto stretto...conosco i miei uomini”
Tom cercò di obiettare. Si girò verso di me a fauci spalancate, come una bestia impaurita pronta ad attaccare, ma le parole si fermarono in gola. Ghignai ed ingranai la retromarcia.
Fortunatamente, con lentezza estenuante, riuscimmo ad uscire dal pantano. Lo considerai come un successo personale, nonostante il pilota effettivo continuasse ad insistere che quella semplicissima manovra avrebbe potuta eseguirla da solo.
“Però l’ho fatto io, Weisz. Mi riconosca il merito” Gli lasciai il posto. Il giovane balzò ai comandi con scatto felino, lanciandomi occhiatacce rancorose da sotto il cappello. Sono onnisciente, dovrebbe saperlo. Ma i suoi piccoli segreti sono al sicuro, con me. So essere anche magnanimo.
Quando finalmente ripartimmo i miei uomini erano fradici. Martin e Klaus, tremanti, apprezzarono il caldo opprimente del Tiger rombante. Maik invece non volle sapere di entrare. Arruffato nella sua pelliccia di lupo, cercava nella pioggia il legame perso con la natura.
“Gli alberi dicono cose interessanti, a sua differenza” La sua risposta impedì un qualsiasi tipo di replica.
“Sono un ufficiale inferiore, a sua differenza, Gerste. Moderi i toni” furono le mie ultime parole, rinchiudendomi nuovamente nella realtà soffocante della Furia.
Fece spallucce ed abbassò il capo, lasciando che la pioggia grondasse tra i bianchi canini e le gengive ritratte e nere del suo copricapo. Non era mai stato un tipo particolarmente collaborativo.
 Il nostro cammino procedette piano e silenzioso. Tom evitava di rispondermi, ancora offeso. Rifiutò i miei ordini, lamentandosi di essere uno spreco assieme a noi quattro. Lo accusai di insubordinazione, ma lui non ci fece caso.
Mi sottovalutava, ne ero sicuro. Per questo, dopo tanto tempo, ripresi in mano il manuale di istruzioni del Panzer VI Tiger.
I miei uomini farfugliavano alle mie spalle. “Guarda il Capitano, vecchio Klaus! Finalmente si sta applicando per davvero” si incitavano l’un l’altro, cogliendosi in occhiate di vane speranza.
Che sciocchi.
Stavo guardando le illustrazioni.
All’interno dei manualetti sono presenti deliziose figure femminili, delineate con un tratto sottile e rosato che suscitavano le peggiori fantasie nelle truppe durante i tempi di magra.
In particolare, ero follemente innamorato della figurina aggraziata che faceva il bagno in una sontuosa vasca di ceramica bianca. Anche se, tutto sommato, lo spacco nel vestito della fanciulla rossa, provvista di lunga ed avvenente gamba, mi aveva rapito il cuore.
Mentre gli allocchi si illudevano che stessi prendendo provvedimenti (che non avevo bisogno, dato che conosco la Furia come le mie tasche) io mi deliziavo gli occhi fingendomi un avido studioso. Funzionava sempre.
 
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Il tempo mutò. La pioggia battente si fece sempre più fine fino a scomparire, lasciando il posto a cumuli di nubi nere ancora gonfie d’acqua, tacite in una breve tregua.
L’aria era colma di profumi. Tralasciando l’acre tanfo del combustibile della Furia, venti boschivi giungevano a noi. Legna marce, funghi, erba bagnata e terra umida si mescolavano selvaggiamente in quelle terre immense. Gli uccelletti cantavano nascosti tra le fronde degli alberi. Sembrava tutto tranquillo.
Per un po’ riuscimmo a seguire le orme fangose lasciate dai nostri compagni. Ci guidarono fino ad un piccolo raggruppamento di umili casupole di pietra. Forse un tempo era una fattoria, con le sue stalle per le vacche ed il terreno smosso che ancora ospitava qualche minuscolo cavolo.
Decidemmo di fermarci.
Nulla ci vietava di ispezionare il casolare alla ricerca di un pezzo di pane raffermo o un formaggio stagionato. I suoi abitanti dovevano essere andati via da parecchio tempo o, come constatò Fiete latrando furiosamente nelle stalle, uccisi brutalmente e gettati ai corvi da qualche soldato meno scrupoloso di noi.
Mentre i miei uomini cercavano, io mi dedicai alla manutenzione della Furia. Era quasi incredibile che nessuno fosse riuscito ancora ad abbatterla. Mentre facevo scivolare la benzina nel serbatoio mi complimentai mentalmente con me stesso, chiedendomi se quel sopravvalutato Barone Nero fosse riuscito a far di meglio. Voci di corridoio lo vedevano impegnato sul fronte russo a compiere miracoli.
“Se solo avessero conosciuto la Furia, bah! Forse dovrei essere più riconoscibile. Come simbolo voglio un cervo nero incoronato d’oro che bramisce alla tempesta. Si! Nostra sia la Furia!”
“E’ davvero convinto che i cervi davvero ci rappresentino, Capitano?” La voce di Tom, soffocata, proruppe dal nulla.
Avevamo scavato un fosso, di quelli fatti apposta per scivolare sotto ai carri ed evitare una morte tragica e disgustosa. Dovevamo controllare la pancia ed evidentemente mi ero dimenticato di lui, l’unico davvero desideroso di collaborare. Sbuffai.
“Non ho detto assolutamente nulla”
“Oh, sì, invece” mi rispose, sgusciando da sotto il carro come un grosso verme nerastro.
“Ha pensato tutto il tempo. Ad alta voce” Sul suo volto comparve un sorriso sbeffeggiante. Gli feci cenno di lasciar perdere, ma lui continuò.
“Sa cosa le dico? Lasci agli altri gli animali da pascolo. Cervi, arieti...nobilissimi, ma non siamo fatti di zinco. Siamo di acciaio nobile, predatori. Tigri”
“Lei è un sognatore, Weisz” replicai. “Per quanto mi spetta, non ho mai visto davvero una tigre. Sono bestie così lontane, esotiche, talmente belle da essere mitologiche per un povero uomo vissuto nella periferia di Monaco.
Ho visto i cervi, si! Con le corna che paiono corone, che leccano il muschio nei tempi di magra e brucano il grano nei tempi di grassa. Per quanto possa essere magnifica la tigre, è sola, destinata a soccombere sotto la moltitudine del branco, delle corna, di noi. Ed è questo quello che siamo”
Il pilota rimase decisamente interdetto. Boccheggiò un paio di volte, come se stesse divorando aria.
Poi tornò nelle viscere della terra, sommergendosi sotto il peso dell’acciaio freddo.
 Fu una perdita di tempo. La fattoria era stata completamente ripulita da coloro che erano passati prima di noi. Ci rimanevano solo alcuni piccoli cavoli intorpiditi dalla pioggia. Ne raccogliemmo un paio e li caricammo con noi. D’altronde ora non servono più. Ripartimmo a manutenzione finita.
Ironia della sorte, riuscimmo in breve a riunirci con la nostra compagnia che, qualche ora prima, ci aveva abbandonato.
“Il terreno era troppo friabile” il comandante sbuffò aria dalla pipa vuota, quando finalmente riuscimmo a parlare con lui.
“Da voi avevamo imparato la lezione. Se ci fossimo fermati, probabilmente, sarebbero affondati anche gli altri carri”
Sapevo in cuor mio che avevano tentato di lasciarci indietro. Eppure, fino ad oggi ci siamo comportati in maniera esemplare. Perfetta come sempre. Il solo Maik ha debellato la piaga dei lupi e fornito cibo a tutti i suoi uomini! È anche merito mio. Dovrebbe essermi riconoscente.
“Guardi, Faust. Quei gentili contadini ci hanno aiutato a trovare la strada. La mappa in mio possesso non era aggiornata. Rischiavamo di perderci” con la lunga pipa indicò un paio di giovani dall’età compresa tra i sedici ed i venticinque anni. Vestiti di stracci, parlottavano tra loro una lingua bastarda, facendo fuoriuscire un forte accento russo nelle loro parole.
“Comandante...” Lo presi da parte.
“Non vorrei mancarle di rispetto, ma non sono davvero sicuro che quei tipi siano affidabili”
“Si sforzi di usare il cervello, per una volta” Brontolò l’uomo, inspirando il non-fumo dalla pipa.
“Li ricompenseremo adeguatamente per averci aiutato. Non possono farci nulla”
Detto da uno la cui minaccia principale furono dei lupi, non riuscivo proprio a concepire come quella fosse una buona idea. Decisi di fidarmi, non potendo fare altro.
“Ripartiremo al più presto. Solo una piccola manutenzione ai carri, una sosta per questi poveri uomini dai piedi colmi di vesciche...”
Non seguivo le sue parole. Piuttosto, notai come quegli esemplari contadini guardassero in su, nel fitto degli alberi sotto cui ci eravamo fermati. Non ero il solo ad averlo notato. Un paio di fanti alzarono lo sguardo al cielo. Un giovane senza decori sparò tra le fronde. Silenziosamente un corpo spirò, cadendo pesantemente al suolo. Al collo portava un fucile.
“E’ un’imboscata!” qualcuno urlò. Le armi riposte nel momento di pace vennero issate nuovamente in segno di guerra, ma non furono abbastanza veloci da sfuggire alla pioggia di proiettili.
Una sfacciata fortuna mi salvò la vita. Con la mia divisa nera ero un bellissimo bersaglio da centrare. Riuscì ad entrare nel carro per un soffio. Fiete mi salutò scodinzolando, ma quello non era il momento dei giochi.
Da solo, nell’immobilità della Furia, guidai il suo cannone verso gli alberi, sperando di poter respingere quel maledetto gruppo di resistenza organizzata che voleva le nostre teste. Decisamente inferiori di numero ma ben organizzati, la Resistenza ci colse completamente alla sprovvista. I quattro che avevano guidato quello stolto comandante nel luogo dell’imboscata morirono sul posto. Quando ritrovammo i corpi i loro volti erano oramai irriconoscibili, ridotti a spesse maschere di sangue e cervella.
Per un momento fiutai il panico. Ero solo, in ritirata nel mio grosso regno di acciaio, con il cannone che puntava troppo in basso, la mitraglietta a tiro troppo breve. Mi si gelò il sangue al pensiero di uscire dalla mia posizione salvavita.
Silenziosissimo, feci uscire solo la canna dal portello del pilota. Non vedevo oltre il mio naso. Intorno a me tutto si ovattava. I proiettili rimbalzavano contro il carro, sempre più radi, sempre più fiochi ed io non capivo se fosse una mia impressione oppure lo scontro stesse cessando.
“Cosa cazzo sto facendo” mi ritrovai a mormorare, sospeso nel limbo della disperazione.
Là fuori c’erano gli altri, i miei uomini. E qua c’ero io, vigliaccamente rinchiuso nella vana speranza di poter fare qualcosa. Non ho forse detto prima che la tigre muore da sola? Questo dannato mezzo da solo non può fare nulla, solo opprimermi tra le sue spesse lamiere.
Trattenni il fiato ed uscii allo scoperto, maledicendomi con tutto me stesso.
Sperai con tutto il cuore che nessuno avesse notato la mia assenza.
 
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La situazione fuori non era certo rosea, ma nemmeno così tragica. Quando vennero sparati gli ultimi colpi, io contribuii a levare spari al cielo, cercando una vana redenzione.
L’attacco a sorpresa ci costò alcuni uomini e molti feriti. Appollaiati sui rami il gruppo partigiano poteva contare su una buona visibilità ma una mira instabile, dettata dal vento e dalla pioggia che, lentamente, era tornata a dissetare un terreno gonfio d’acqua, lavando il sangue dalle ferite.
Il comandante era morto con un unico colpo in fronte. Stringeva ancora la pipa tra le mani.
“Avevo ragione io” mormorai, chinandomi sul suo corpo, gli occhi ancora sbarrati per la sorpresa.
Non era di certo la frase più intelligente che fossi riuscito a formulare, ma era l’unica che potessi dire. Il senso di colpa mi mordeva lo stomaco. La colpa era anche un po’ mia, della mia tragica ed umana paura.
Riuscii a trovare i miei uomini. Maik si era arrampicato su un albero ed aveva mietuto una vittima a mani nude. Era alquanto ironico vedere come un uomo possente come lui fosse capace di agilità felina. Forse era dettata dalla pazzia. Chi, infondo, non aveva perso una rotella, quaggiù?
Klaus e Martin li ritrovai dopo una buona mezz’ora. Il primo aveva il berretto bucato, mentre il secondo era solo terribilmente spaventato. Mi sentii alquanto sollevato dal fatto che avessero tentato la fuga. Sono gli errori degli altri a dimezzare i miei.
Con Tom le cose andarono diversamente. Ricoperto di fango, lo ritrovai moribondo sul dorso della Furia. Un proiettile gli aveva forato le carni, conficcandosi nella scapola. Lo rigirai supino, pulendogli il viso sporco di fango.
Il senso di colpa per averli abbandonati mi annebbiò la vista. Trattenni i visceri per non vomitare.
“E’ solo una ferita superficiale, passerà, passerà...” Mandai i miei uomini a prendere il kit medico mentre io stesso faticavo a stare in piedi.
“Lo ha detto lei, Capitano” Sorrise, stringendo il pugno.
“Assieme siamo imbattibili, giusto? Come i cervi”
Per un attimo rievocai i bei ricordi. Le lettere che profumano di casa, di caldo e di fiducia mal riposta, che faticavo ad assimilare.
Vomitai bile ai piedi del carro, colto da spasmi di disperazione.
 
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Eccoci al punto di partenza.
Avevamo fatto una manciata di prigionieri. Speravamo davvero di poter estorcere loro alcune confessioni. Ci sputarono in faccia. Nei loro volti la scaltra fierezza di chi mai avrebbe confessato, preferendo la morte al tradimento.
Li fucilammo spalle al muro, seppellendo i loro corpi lontani da noi, schifati.
 
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La fortuna ci baciò ancora una volta.
Caricammo i feriti sui carri, offrendo loro un primo soccorso.
Perché dico fortunati? Riuscimmo a trovare un ospedale da campo. Un vecchio edificio fatiscente, dalle finestre rotte, carico di soldati fino a scoppiare.
E di certo non avrebbe fatto piacere loro ospitare una nuova sfilza di feriti.
Almeno, in quella che doveva essere una magra consolazione, ritrovai il vecchio Biermann. Lo avevano trasferito lì, dove sicuramente avrebbe dato un aiuto più concreto rispetto a prima. Lo vidi di sfuggita mentre fumava malinconicamente sugli scalini del palazzo. Quando lo chiamarono, spense la sigaretta sotto le scarpe, sospirando malinconico. Il suo volto, sempre più scavato, si accartocciò in una stanca espressione, alzandosi a fatica da quegli scalini.
Diedi una mano a scaricare i feriti. Misero Tom in una brutta barella ed aspettammo assieme le procedure burocratiche di smistamento.
“Non giocarmi brutti scherzi, eh?” un sorriso forzato sfilò dalle mie labbra.
“Due parole, Capitano...venga qua” Mi fece cenno di avvicinarmi. Tesissimo, gli porsi l’orecchio.
“Si fotta. Non posso lasciare che il nostro Tiger perda il suo uomo migliore” Ghignò, mentre due infermiere finalmente lo portavano via, pronto a ricevere le giuste cure.
“Al diavolo!” gli risposi. Lui approvò da lontano.
Era un buon segno. Sarebbe andato tutto bene.
   
 
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