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Autore: _Frame_    12/03/2017    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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118. I due idioti e I due indecisi

 

 

Romano ghiacciò, rimase paralizzato, travolto dal vento, le braccia pietrificate e le mani contratte lungo i fianchi, coperte dalle maniche ondeggianti della giacca di Prussia. Nel suo sguardo vitreo si rifletteva ancora l’immagine del salto di Prussia che balzava addosso a Inghilterra, che gli allacciava le braccia attorno ai fianchi, sbattendolo a terra e bloccandolo sotto il suo peso.

Prussia strinse la presa attorno al corpo dimenante di Inghilterra, gli schiacciò un gomito sul fianco, tirò su un ginocchio per bloccarglielo in mezzo alle gambe, e sollevò il viso rosso di tensione. “Romano!” Inghilterra diede un altro strattone di lato con la spalla, Prussia si tuffò di peso contro il suo torso, strisciò in avanti assieme a lui e alzò la voce. “Vai, non fermarti, corri!

Romano spostò gli occhi da Prussia a Inghilterra, da Inghilterra a Prussia, e una gettata di adrenalina gli schizzò alla testa, infiammò il sangue trasmettendogli una saetta elettrica che attraversò la schiena, discese le gambe e schioccò in mezzo ai piedi. Scattò a correre, annuì con un movimento meccanico distogliendo lo sguardo dai due corpi aggrovigliati in mezzo alle nuvole, e tornò a spalancare le mani lungo i fianchi. Le dita flesse spremettero l’aria ingrossata sotto i suoi palmi, i capelli si agitarono al vento, scossi dalla risacca che gonfiava anche le due giacche indossate una sopra l’altra.

Una prima sfrecciata di motori gli volò sopra la testa. Le sagome dei bombardieri attraversarono il cielo, lo superarono, e si gettarono fra le nuvole, seguendo la sua corsa.

Romano abbassò le palpebre, senza smettere di correre, ed evocò i fischi del vento, il ronzio delle eliche e dei motori, lo scroscio delle onde sotto i suoi piedi, e lo scoppiettio delle fiamme che già fumavano dai laceri aperti sulla portaerei.

Concentrati, si disse. Anche se in mano hai aerei crucchi... Restrinse le dita, trattenne il fiato, scossette elettriche cominciarono a pizzicare sotto la pelle e a scorrergli attraverso il sangue. Non devi farti distrarre da questo.

Le nuvole si schiusero, scivolarono come drappi di stoffa scoprendo l’indaco del mare screpolato di bianco e avvolto dalla foschia nera. Romano frenò la corsa, bloccandosi di colpo sopra il raggruppamento del convoglio Force A.

Schiuse gli occhi, il colore verde dei mirini calibrati gli tinse la vista, i due anelli si materializzarono fra le iridi, rotearono assestando la mira e chiusero il campo sull’immagine ingrandita della portaerei fumante. ‘HMS Illustrious-R78’.

Romano riprese fiato, raddrizzò la schiena allargando per bene le spalle, sollevò il mento lasciandosi investire da una bava di vento pungente e salmastro che gli scompigliò i capelli. L’aria si infilò sotto il tessuto delle due giacche sovrapposte, dentro le maniche e fra le dita tese, facendogli il solletico.

Fra le mani, si aggravò una sensazione più pesante e calda rispetto a quella di avere i suoi Savoia stretti fra le dita. Anche sul petto, all’altezza dello sterno, si accumulò una forte pressione che pulsava dentro la gabbia d’ossa, bruciando come un secondo denso e profondo battito cardiaco.

Romano sussultò, i tratti del volto irrigidirono. Che strano. Il vento che scuoteva la stoffa delle due giacche sovrapposte gli sfilò sul viso, trasportò con sé un intenso e inebriante odore di ferro, di polvere da sparo e di sangue. Questa energia... Una morsa di timore e soggezione si impresse sotto la pelle, le sue braccia tremarono e i muscoli si indebolirono, schiacciati da quel peso che gravava fra le mani. È completamente diversa da quella che sono abituato a sentire quando combatto. Chiuse di poco le dita, e fu come avvolgere un’altra volta il peso della croce di ferro, sentendone i bracci pungere sulla carne, il freddo del metallo lasciargli uno stampo di disagio sulla pelle e trasmettergli quel viscido brivido gelato che gli scivolò lungo la spina dorsale. Romano tremò. È come se... Spinse le spalle più avanti, fece scivolare le braccia attraverso l’aria abbassando le mani ristrette, e il peso fra i pugni socchiusi lo tirò verso il basso, facendolo traballare. Digrignò i denti, forzò i muscoli delle spalle a gonfiarsi e a stare dritti. È come se questa sensazione di potere mi stesse guidando. È come se fosse lei a tenere in mano me e non il contrario.

Romano sollevò un braccio tremante, chiuse le prime falangi spremendovi sotto l’energia spugnosa e bollente dei Junker tedeschi. Il calore evaporò scivolandogli fra le dita, si arrampicò su per il braccio, raggiunse la spalla, penetrò il petto e raggiunse il suo cuore, strappandogli un ansito di timore e meraviglia: lo stesso che lo aveva strozzato quando si era trovato in ginocchio, immerso nell’ombra protettiva di Prussia.

È...

Alzò anche l’altra mano, la strinse, spremendo la stessa umida e gonfia sensazione di calore, e il vento agitato dai bombardieri gli frullò attorno, gonfiò i lembi delle due giacche sovrapposte, gli soffiò sul petto, batté sul punto dello sterno dove l’energia si addensava schiacciandogli le costole. Il peso gli circondò il collo, si allacciò alla gola, penzolò formando un ciondolo a forma di croce di ferro sbattuto dall’aria.

Una sensazione...

Romano esalò un sospiro, accolse quel calore penetrato nella sua anima, abbracciò quel peso che gli pendeva dal collo. Aprì gli occhi irradiati di verde. Gli anelli del mirino ruotarono, assestandosi, e tutto il fuoco che sentiva nel sangue si rovesciò fra le sue mani.

Divina!

Stritolò un pugno spremendo il globo contro il palmo – fu come far esplodere un palloncino gonfio di acqua tiepida – e scagliò il braccio in avanti, gettandolo addosso alla Illustrious.

Un primo Junker si staccò dallo stormo, ronzò verso il mare riflettendo la sua ombra fra le onde, e inclinò il muso addosso alla portaerei. Sganciò il suo siluro. La bomba precipitò verticalmente, penetrò il fumo a centro nave, forò la piattaforma di lancio, ed esplose in una bolla bianca che tuonò in un feroce ruggito di fuoco. Romano impennò il braccio premendo un passo all’indietro e gettò subito l’altra mano in avanti, i mirini fra le iridi si restrinsero racchiudendo la prora dritta. Il secondo Junker scese di quota mentre il primo stava ancora impennando la parabola al cielo, trapassò il fumo della prima esplosione e rilasciò il suo siluro che si schiantò a prora dritta. Romano strinse i denti contenendo un gemito. Resistette al senso di vuoto che gli aveva prosciugato le energie dai muscoli e dal petto, stritolandogli il battito, e scagliò un’altra feroce pugnalata addosso alla Illustrious. Il terzo Junker mirò al fianco destro, sfrecciò sopra la portaerei e la silurò facendo esplodere una palla di fuoco all’interno della nube di fumo che già la avvolgeva come un cappotto.

Lingue di fuoco si elevarono dall’hangar, si schiusero come petali e tornarono ad arricciarsi soffiando sputi di fumo nero come carbone. Gli echi delle ultime esplosioni scoppiarono uno dopo l’altro, si mescolarono agli scricchiolii metallici del ferro che si stava sciogliendo e spezzando come legna secca e resinosa.

Romano schiuse le mani diventate sudate e bollenti, gettò le spalle in avanti, boccheggiò ad avide sorsate di fiato, i capelli gli caddero davanti alla fronte, e i muscoli svuotati presero a tremare violentemente. Un ghigno gli storse la bocca, il peso della croce lo tenne chino, imprigionato nel suo peso. Ruotò gli occhi sotto l’ombra dei capelli, puntò lo sguardo verso la portaerei, e il colore dell’incendio gli riempì le iridi.

 

.

 

Prussia distolse lo sguardo dal corpo di Inghilterra appena precipitato fra le nuvole come un burattino al quale hanno tagliato i fili, si strinse la spalla ferita, contenne un sospiro di incredulità, e gettò gli occhi appannati dalla colata di sangue verso il punto del mare da dove si elevavano i boati delle esplosioni e i ruggiti delle fiamme.

Si spinse sul gomito, trascinò le ginocchia fra le nubi, e si sporse verso il convoglio tenendo gli occhi spalancati, avvolti dalla maschera di sangue che colava dall’attaccatura dei capelli. Un sottile brivido di ansia gli attraversò la schiena. “Romano...”

Il cratere di fumo si abbassò, separandosi dallo strato di nuvole, e finì trapassato dal ronzio dello stormo di Junker che si disimpegnò dopo aver scaricato i siluri. Fiamme cremisi stavano divorando la portaerei, il colore delle fiamme si rifletteva fra le increspature delle onde, rendeva il cielo un’enorme distesa di sangue.

Uno spasmo contrasse il corpo accasciato di Inghilterra, vibrò attraverso la mano lacerata dal taglio del pugnale, e gli diede una scossetta al petto, facendo battere di nuovo il cuore. Inghilterra contrasse il viso in una smorfia di dolore, strizzò gli occhi, schiuse le labbra, riprese a respirare. “Anf, anf, anf...” Aprì l’occhio bagnato di sudore, sbatacchiò le ciglia imperlate, spannò la vista, e raccolse la mano sana contro il petto. Agitò un dito alla volta, sciogliendo la sensazione di intorpidimento che gli ingessava le falangi. Alzò il braccio dal tappeto di nuvole, il profilo della sua mano sollevata si sdoppiò, tornò a unirsi, e divenne una macchia pallida in mezzo al grigio.

Inghilterra tese l’indice sporco di sangue, tagliò una linea retta nell’aria, srotolò il pannello di comando, e scese pigiando su una delle navi accanto agli anelli rossi che lampeggiavano attorno alla Illustrious.

 

 

Hai selezionato nave da battaglia HMS Valiant, classe Queen Elizabeth, convoglio Force A. Prego, selezionare un’opzione.”

 

Trasferimento

Ancoraggio

Comandi Artiglieria

Comandi Radar

 

 

Inghilterra trattenne il fiato per non sentirsi di nuovo svenire, e sbatté la mano addosso a ‘Trasferimento’. Una luce lo avvolse, lo strappò dalle nuvole, e il lampo improvviso attirò lo sguardo di Prussia.

Prussia sgranò gli occhi e si lanciò addosso a Inghilterra, “No!”, atterrò di petto con un braccio ancora teso in avanti, ma Inghilterra era scomparso.

Digrignò la mandibola, sentendo tutto il sapore del sangue scivolargli attorno alle labbra, e sbatté un pugno addosso a un ricciolo di nuvola. Maledizione! Si rizzò sulle ginocchia, gemette per il dolore alla spalla, si resse il braccio e riuscì a mettersi in piedi. Scosse il capo e si strofinò i capelli, stando attento a non toccare la tempia sfregiata dal proiettile, ma le dita gli rimasero comunque imbrattate di sangue. La prossima volta gli ficco il coltello direttamente nel cuore.

Un altro scoppio lo fece guardare in basso, verso il mare colorato di rosso e avvolto dallo strato di fumo nero che teneva il convoglio coperto. Prussia sbuffò. Ora che Inghilterra è tornato a scappare, sarà impossibile che io riesca a prenderlo e a ferirlo di nuovo. Sollevò un sopracciglio, tornò quella sensazione di disagio a corrergli sotto la pelle come il passaggio di un artiglio attraverso le ossa. Poi Romano...

I Junker salirono di quota, i ronzii si dispersero, le loro sagome si rimpicciolirono fino a svanire contro il sole. Gli occhi insanguinati di Prussia li seguirono fino a perderli di vista, le palpebre si strinsero, lo sguardo rabbuiò, incupendosi.

Non ha più senso trattenersi, ormai.

Infilò una mano nella tasca dei pantaloni, scavò sul fondo, pescò il modellino di un aereo diverso dagli altri.

Devo far intervenire lo stormo di Heinkel ora che abbiamo ancora una minima possibilità di abbattere la portaerei.

Estrasse la prima miniatura di Heinkel He.111, vi chiuse le dita attorno, l’energia del piccolo bombardiere gli entrò nel sangue.

 

.

 

Convoglio Force A, Bordo della nave da battaglia HMS Valiant

 

Inghilterra tese le braccia nel vuoto, come in un tuffo, e atterrò con i pugni addosso al pavimento della camera di comando, il resto del corpo scivolò giù e il peso sbatté sulla spalla. Sputò un gemito secco che uscì accompagnato da uno sgorgo di sangue, accasciò la testa nell’incavo del braccio, chiuse l’occhio, e ricominciò a tremare di dolore. Le brucianti pulsazioni alla mano, alla coscia e al fianco gli stavano mangiando la carne.

“Inghilterra!” La voce del coniglietto lo raggiunse da lontano. Gli vennero vicino i suoni di folte zampette in corsa sul pavimento e di un frullio di ali simile al volo di una libellula.

Inghilterra rotolò sul fianco dove non premeva la ferita al costato, aperta sotto i reni, ma schiacciò il peso sul lacero alla coscia. Strinse i denti e l’occhio, emise un latrato basso e vibrante, e schiacciò i pugni a terra. Una scossa di dolore trafisse di nuovo la mano ferita, la frustata risalì il braccio e gli ingabbiò la spalla. Non aveva pace.

Il coniglietto tese il muso verso il suo viso, gli fece solletico alla guancia con il nasino, la sua voce gli squillò nell’orecchio. “Stanno continuando a colpirci!”

La fatina chiuse le ali e atterrò sul pavimento. “Ma non mi dire!” esclamò.

Inghilterra rantolò un lamento e staccò la guancia da terra, sbatacchiò le palpebre dell’occhio nudo in cerca delle sagome sfocate delle due creature fatate. Esalò un sospiro. “Danni?” sbiascicò con la voce impastata dal sapore del sangue che sentiva ancora sulla lingua.

Il coniglietto ammosciò le orecchie, gli rivolse un’occhiata confusa e allarmata.

“I...” Inghilterra si sollevò sui gomiti, le spalle pesanti e tremanti, e inspirò forte. “I danni. Ditemi...” Riprese a respirare a fatica, oppresso da un costante peso che gli schiacciava i polmoni e il ventre. “Quanti danni hanno fatto alla Illustrious?”

La fatina socchiuse le palpebre, aggrottò la fronte, e un’espressione di conflitto le attraversò il volto. “Romano l’ha colpita tre volte,” disse. “Con bombe da duemiladuecento libbre l’una.” Infilò una manina fra le pieghe del vestito, estrasse un foglietto ripiegato, ne lisciò gli angoli, e fece correre gli occhi sulle righe di appunti. Stillò un elenco tenendo il conto con le dita. “Danni a prora dritta, sul fianco destro, all’angolo di tribordo, e a centro nave. E c’è stato anche un perforamento della piattaforma P-1. L’allagamento del timone poi è peggiorato, un’altra bomba ha perforato l’hangar, ha colpito l’elevatore posteriore dei velivoli ed è esplosa,” richiuse il foglietto e sospirò, “causando un ennesimo incendio.”

Inghilterra poggiò il mento a terra, boccheggiò a fatica, sentendo il petto vibrare contro il pavimento. “Dobbiamo...” Aprì la mano sana a terra, sollevò la spalla facendo leva sul braccio. “Quanto dista Malta?” Grugnì un lamento di dolore e tornò a cadere picchiando il fianco a terra. Il coniglietto gli fu subito vicino.

“Quarantacinque miglia,” rispose la fatina.

Inghilterra scivolò supino, raccolse un ginocchio, riprese a respirare ad affanni, il petto si gonfiava e si sgonfiava ritmicamente, attraversato da violenti spasmi di fatica. “Dobbiamo fermare gli incendi,” rantolò. “Dobbiamo tornare a una velocità di ventuno nodi e avvicinarci il più possibile al porto di La Valletta in modo che...” Si passò una mano sulla faccia, per togliersi di dosso il sudore, e sbavò guance e capelli con il colore del sangue. “In modo che io riesca a richiamare gli Hurricane da Malta per aiutare i Fulmar.”

La fatina e il coniglietto si scambiarono un’occhiata perplessa. La fatina sollevò un sopracciglio, incrociò le braccia al petto e vi tamburellò le dita sopra, scettica. Il coniglietto ammosciò un’orecchia, fece per parlare, ma lo squillo dei radar riempì le pareti della camera prima della sua voce.

Tutti e tre spostarono gli sguardi sulla parete dei pannelli.

La fatina piegò le ginocchia, fece ronzare le ali, e spiccò il volo. Atterrò con i piedini nudi sul pannello, le luci le colorarono ali e capelli di verde, e chinò il visetto verso uno dei quadranti, tenendosi le ciocche lontane dagli occhi. Aggrottò la fronte. “Ne arrivano altri, Inghilterra.” Estrasse di nuovo il suo foglietto di appunti, sfilò la scheggia di grafite da dietro l’orecchio e segnò qualcosa sulla pagina. “Da Trapani, a cinquanta miglia da qui.”

Il coniglietto saltellò più vicino alla parete e si posò le zampette davanti alla bocca. “Un altro stormo di Junker?” esclamò allarmato.

La fatina abbassò la pagina da davanti il viso, nei suoi occhi si specchiarono i quadranti dei radar. Aggrottò la punta di un sopracciglio. “No.” Fece un passetto avanti, tese il braccio, aprì la manina sul riquadro. “Non sono Junker,” mormorò. Un soffio di paura le arrochì la voce, strinse il cuoricino. “Sono Heinkel.”

Inghilterra sollevò la nuca da terra, si tenne una mano premuta sul fianco, una sulla fronte, e gli affanni si interruppero. Trattenne il fiato sgranando l’occhio sano. Heinkel?

La fatina tolse la mano dal quadrante, mantenne gli occhi socchiusi e rabbuiati da quell’ombra di timore, fece un passetto indietro dando un battito d’ali, e abbassò lo sguardo verso Inghilterra. “Che facciamo?” mormorò.

Il coniglietto si tenne stretto nelle spalle tremanti e deglutì pesantemente.

Inghilterra tornò con la nuca al pavimento e il viso rivolto al soffitto. Il torso fremeva di dolore e fatica sotto il braccio avvolto attorno al fianco, il sangue continuava a colare dalla mano trafitta, dalla coscia e dal costato. La pressione al petto lo soffocava, i respiri uscivano a singhiozzi, scivolavano flebili fra le labbra secche e amare. Heinkel, rimuginò. Sta per venirmi addosso con degli Heinkel.

Lasciò scivolare il braccio giù dal ventre, lo stese sul fianco come quell’altro e schiacciò i pugni a terra. Serrò i denti, tornò a sentire un bruciore combattivo ardergli dentro, e si mise seduto resistendo alle fitte di dolore al fianco. “Allagate i depositi della Illustrious.” Raccolse la gamba, premette il piede a terra e sollevò un braccio per appendersi all’orlo di uno dei pannelli. “Fermate gli incendi, e aumentate la velocità a ventuno nodi.” Sollevò anche la mano lacerata, si aggrappò con meno forza, ma riuscì lo stesso a tornare in piedi, forzando la gamba che non era stata accoltellata. Raddrizzò le spalle, si tenne chino sul pannello, e premette un passetto barcollante di lato. “Poi utilizziamo l’artiglieria contraerea della Valiant e della Warspite per contrastare l’ondata di crucchi.” Sospirò, riprese forze, si tolse i capelli bagnati di sangue e sudore dalla fronte, e alzò l’occhio al soffitto. “Non posso uscire allo scoperto, è troppo rischioso.” Gli ballarono le ginocchia, e Inghilterra soffiò una risata amara. “Non riesco nemmeno a stare in piedi.” Spostò lo sguardo sull’uscita della camera di comando, si strinse l’anca, avanzò di un passo zoppicante senza staccare le dita dal pannello, usandolo come un corrimano, e avanzò senza fermarsi. “Guiderò l’offensiva dal ponte di comando.”

Uscì dalla camera lasciandosi dietro una scia di sangue.

 

.

 

Le mani gli bruciavano, scottavano e spandevano una sottile condensa come se fossero state strette a ferri roventi. Romano continuò a respirare a bocca aperta, le spalle gobbe, il peso delle braccia a trascinarlo verso il basso, la schiena che tremava, i brividi costanti ad attraversargli i muscoli irrigiditi dagli spasmi, il cuore galoppante in gola e i polmoni che sembrava stessero per scoppiargli fra le costole. Agitò le dita, sciolse il formicolio accumulato dai bombardieri tedeschi, si ritrovò a palpeggiare il vuoto. Flesse le ginocchia, le gambe si irrigidirono di colpo, azzannato da un crampo, e Romano cadde a terra, picchiò le mani fra le nuvole e si ritrovò gattoni. Rivoli di sudore gocciolarono dalle punte dei capelli, gli bagnarono il viso.

La voce di Prussia nella sua testa superò il volume dei suoi rauchi respiri. “Romano?” Romano sobbalzò, colto alla sprovvista, come risvegliato da un sonno. “Romano, stai bene?”

Romano aprì e chiuse le labbra, sbatté le palpebre sciogliendo il ghigno sbilenco e stampandosi sul volto un’espressione smarrita. “S-sì.” Scosse il capo, si strofinò la nuca, la mano scese e toccò il petto, si aprì sulla giacca. Romano abbassò gli occhi di colpo, tastò sopra e dentro la stoffa, palpeggiò anche le spalle, la gola e il collo, e non trovò niente, solo il profilo delle ossa. Niente croce di ferro. Se l’era immaginata. Soffiò un ansito di sollievo che gli rilassò le spalle. “Quelli...” Scosse un’altra volta la testa, tenne la mano sul petto come per frenare i battiti cardiaci che gli pompavano nelle vene, e allargò il bavero della sua giacca sotto quella di Prussia per farsi aria. Sbuffò una risata inacidita. “Sono proprio dei fottutissimi aerei,” mormorò.

“Sì, ho notato che ci hai preso gusto.” La voce di Prussia suonò contrariata, gli trasmise un pizzico di nervosismo che lo punse dietro la nuca. “Ce la fai a reggere un altro giro?”

Romano sbuffò, schiacciò i pugni a terra, e fece il tono offeso. “Ovviamente.”

“Bene,” gli rispose Prussia. “Allora tieni duro. Ora Inghilterra è ridotto a un colabrodo e non interverrà, abbiamo la via libera per il bombardamento della portaerei. Guida di nuovo l’ondata, io ne faccio arrivare altre.”

Romano annuì. “Okay.” Sollevò una gamba alla volta, raddrizzò le spalle appesantite, e barcollò di due passi all’indietro prima di tornare in equilibrio. Si massaggiò il collo, frizionò le dita sui muscoli degli avambracci dolenti, e riattivò la circolazione.

Un’altra ondata. Inclinò il collo di lato, fece scricchiolare le vertebre, e sollevò un piccolo sorriso di attesa. E che sarà mai. Raddrizzò la schiena, si cinse i fianchi, tornò a sguardo alto e corrugato, volto alla linea d’orizzonte fra le nuvole. Dopotutto, chissene frega, sono aerei del mio alleato, non devo avere la coscienza sporca nell’usarli, ne ho tutto il diritto. Strinse i pugni, ricordandosi della forza brutale e inebriante che gli era entrata nel cuore durante i bombardamenti con i Junker. Sì, merda, ne ho tutto il diritto!

Ronzii soffusi crebbero alle sue spalle. Ronzii diversi da quelli dei Junker, o dei Savoia, o dei Fulmar. Ronzii che non aveva richiamato lui. Gli trasmisero un’inconscia e fredda sensazione d’ansia che si aggrappò al suo respiro, accorciandoglielo, e che gli trafisse il cuore come una spina di ghiaccio.

Romano scosse il capo, ignorò quel brivido di disagio, e tornò a distendere le braccia, ad allargare le dita per raccogliere di nuovo l’energia dei bombardieri.

Con questa potenza fra le mani...

Il suo animo si infuocò, il suo sguardo bruciò di entusiasmo, e il vento gli soffiò attorno in un abbraccio di spire che odoravano di bruciato.

Sono invincibile anch’io!

Le ombre dei nuovi aerei forarono le nuvole sopra di lui, investirono il suo corpo immergendolo in una chiazza nera e fredda, gli scivolarono sopra la pelle come una colata di acqua gelida, annaffiandolo di nuovo in quel profondo sentimento di disagio che gli torse lo stomaco in un anello di nausea.

Romano sollevò gli occhi incontro agli aerei appena passati sopra la sua testa. La vista tornò a tingersi di verde, gli anelli calibrati si strinsero, cerchiarono il bombardiere di punta alla formazione, e srotolarono la scritta in stampatello accanto al suo muso: ‘Heinkel He.111’.

Il cuore si fermò, precipitò ai suoi piedi con un tonfo, mozzandogli il fiato. Romano allargò le palpebre, le pupille si strinsero negli occhi tinti di verde, la faccia divenne grigia come quella di un cadavere, si trasformò in una maschera di terrore, le labbra si schiusero e vibrarono, non riuscirono a prendere aria.

I ricordi riaffiorarono con la prepotenza di una pentola a pressione che esplode facendo saltare il tappo sotto il getto di vapore. Negli occhi di Romano, sotto il riflesso del bombardiere Heinkel, si specchiarono le rovine di Guernica.

 

.

 

Il riflesso nero e piatto dell’Heinkel He.111 volò attraverso il lucido del suo occhio sgranato, riempiendogli il bianco fra le palpebre come era successo a Guernica. Romano tenne lo sguardo sbarrato, il fiato immobile. Il cuore fermo divenne di pietra, e il suo udito ovattò gli scrosci delle onde, il fischio del vento, risucchiandolo in una bolla.

Romano si ritrovò con i piedi immersi nella consistenza ruvida, scoscesa e dolorosa delle macerie di pietra, a fissare il cielo gonfio del grigio e del nero delle nuvole trapassate dagli ultimi stormi di bombardieri civili in ritirata. Inalò di nuovo il fumo pungente, si sentì soffocato dal calore dei vapori annodati attorno alla gola bruciante. Lo aggredì il tanfo dei fuochi estinti, delle rocce carbonizzate, del ferro sciolto, della terra bruciata.

Si ritrovò di nuovo a stringere le braccia attorno al corpo sanguinante e martoriato di Spagna, che aveva sorretto di peso fra le rovine. Riconobbe la consistenza viscida e calda del suo sangue che gli correva fra le mani, macchiandogli i vestiti, e quell’odore ferroso e pungente che poi aveva coperto con quello dei disinfettanti. Rivide quegli occhi distrutti, spenti, cerchiati dal dolore che specchiava quello di tutta la sua nazione.

Guernica. La prima pugnalata dei tedeschi.

“Non farti trovare dalla parte sbagliata, Romano.”

“Come faccio ad andare dalla parte sbagliata anche se si tratta solo di stare vicino a Veneziano?”

Romano sentì un’ondata di vergogna scaricarsi addosso a lui come una secchiata di ghiaccio. Cos’ho fatto? Fra le dita rimaneva l’impronta pesante dei Junker tedeschi che aveva appena guidato. Cos’ho fatto!

Si strinse la testa fra le mani, senza staccare gli occhi dal cielo, dagli Heinkel che gli erano già sfilati davanti agli occhi quattro anni prima, come l’ombra di uno scuro presagio di tutta la sofferenza che gli sarebbe piombata addosso.

Io sono davvero dalla loro parte. Sono dalla loro parte, sto combattendo per loro, per quelli che hanno fatto del male sia a Spagna che ha mio fratello, e ho goduto nel tenere in mano un potere del genere!

Crollò sulle ginocchia, finì travolto dalla risacca d’aria sollevata dallo stormo di Heinkel, e di nuovo ebbe l’impressione di finire scaraventato via come una cartaccia appallottolata.

Chinò il capo fra le gambe, si chiuse in quel ricciolo di dolore. “Nooo!” Il suo grido finì ingoiato dal boato dei bombardieri che sfrecciarono fra le nuvole.

Figli di puttana. Romano sbatté un pugno nel cielo, anche se non fece rumore. Sollevò il viso, la sua espressione truce a infiammargli gli occhi di un’ira nera che sentiva divorargli il cuore come una guaina di fuoco. Figli di puttana, cosa mi hanno costretto a fare!

Romano piantò il piede a terra, finì investito da un’aura nera come i fumi che evaporavano dagli incendi sulla Illustrious. Artigliate di vento gli soffiarono attorno agitandogli i capelli e le due giacche sovrapposte che sbatterono all’aria come un mantello.

Non ci vide più. L’unica cosa che sentiva era quel soffocante desiderio di vomitare tutta la rabbia che gli infiammava il corpo, rigettarla attraverso qualsiasi mezzo.

Schiacciò le mani, il vento trascinò fra le dita contratte il bruciante formicolio dell’energia dei Junker.

Qualsiasi...

Romano sollevò un braccio, l’aria ad agitargli la manica e ad addensare l’aura nera attorno al suo braccio, e ricominciò a bombardare l’oceano.

 

.

 

Prussia si infilò una mano fra i capelli scossi dal vento, li tenne lontani dal viso per non farli appiccicare allo strato colloso di sangue, e sgranò gli occhi in direzione di Romano, restando a bocca aperta. “Cosa sta...”

Le ondate delle esplosioni nascosero la vista, il forte calore trascinato dal vento gli sbatté addosso e lo fece arretrare, bruciò sulla sua pelle. Prussia digrignò i denti, si riparò con il braccio sano. Non posso farlo combattere in quella maniera. Voltò il viso all’orizzonte, e già si vedeva l’increspatura dell’isola di Malta sulla linea di incontro fra cielo e mare. Aggrottò la fronte insanguinata in una smorfia di stizza. Devo fermarlo.

“Romano, fermati!” gli urlò addosso, da lontano.

Non attese risposta.

Piegò il braccio davanti al petto, schioccò le dita, e finì spazzato via da un soffio di fumo che lo trasportò dietro Romano.

Prussia non aspettò che la nebbiolina si dissolvesse, tese le braccia, forò la coltre, e incontrò subito la resistenza del corpo di Romano, gli avvolse il torso, strinse le mani davanti al suo petto che fremeva di fatica, e lo tirò a sé. “Fermo!” gli gridò nell’orecchio.

Romano finì imprigionato dalla sua stretta, gettò due scalciate all’aria per ribellarsi, spinse le braccia in avanti, i muscoli ancora gonfi e le mani roventi, avvolte dalla condensa nera. “Mollami!” gridò.

Prussia lo tirò indietro di un passo, piegò la testa per schivare una sua gomitata, e la schiena di Romano si gonfiò contro il suo petto. “Lasciami, bastardo, lasciami! Devo...” Romano piantò un piede a terra, tuffò un braccio fra la nebbiolina grigia che ancora li avvolgeva entrambi, e la stritolò come se avesse ancora avuto il controllo dei bombardieri. Spremette fuori tutta la sua rabbia. “Devo farlo fuori!”

“No!” Prussia incrociò le braccia contro il suo petto, chiudendolo in una gabbia, e gli schiacciò i pugni sullo sterno, accostando il viso sopra la sua spalla. “Ormai non abbiamo più possibilità, Malta è troppo vicina!”

“Ma devo farlo!” Romano scalciò ancora, i piedi scivolarono, non toccarono terra, il suo corpo finì tirato su di peso da Prussia. “Devo fargliela pagare,” urlò, “devo ammazzarlo, non può finire così!”

“Piantala!”

Romano ringhiò e voltò il viso di scatto, girò un braccio per raggiungere Prussia e scollarselo di dosso. “Mollami o giuro che ammazzo pure te!”

“È finita, Romano!”

Romano irrigidì dentro quell’abbraccio, sentì il cuore svuotato, le energie si sciolsero dai muscoli lasciando un corpo teso fra le braccia di Prussia, un volto grigio forato da due occhi disperati e affogati di rabbia e dolore.

Prussia allentò la presa delle braccia, lo guardò duramente. “Ritiriamoci.” Aggrottò le sopracciglia, e i suoi occhi nascosti dal sangue graffiarono come la sua voce. “È un ordine.”

Lo sguardo di Romano si spense, sciacquato via da tutta la furia che lo aveva tenuto acceso fino a quell’istante. Gli occhi ancora larghi e lucidi vacillarono, tornò il cristallino strato di lacrime su cui si erano riflesse le immagini degli Heinkel. Dalle labbra socchiuse soffiò un breve gemito simile a quello di un animaletto ferito.

Romano si accasciò, crollò sulle ginocchia, ai piedi di Prussia. Braccia e capo a ciondolare come se gli avessero staccato la spina della corrente dalla schiena. Non si mosse, rimase a fissare il vuoto, occhi grigi e vitrei come una finestra sporca, un ronzio a ovattargli la testa, e un peso sul cuore che non riusciva a scollarsi di dosso.

Prussia si accovacciò accanto a lui, gli strinse piano il polso, gli sollevò la mano, gli allungò l’indice e lo fece scivolare sull’aria. Guidò i suoi gesti per aprire il pannello.

 

 

Hai selezionato torpediniera Circe, classe Spica, tipo Alcione. Prego, selezionare un’opzione.”

 

Trasferimento

Ancoraggio

Comandi Artiglieria

 

 

Gli fece premere ‘Trasferimento’. Entrambi abbandonarono il campo di battaglia.

In lontananza, provenienti da Malta, i primi stormi di Hurricane si stavano avvicinando per scortare la Illustrious fino al porto.

 

.

 

Bordo della torpediniera Circe

 

Atterrarono sulla piattaforma della nave.

Prussia poggiò i piedi a terra, si piegò sulle ginocchia per ammortizzare la discesa, e strinse subito una mano sulla spalla, sotto la fasciatura fradicia e tiepida. Chinò il capo e l’ombra dei capelli sporchi di rosso gli nascose la faccia bagnata di sangue, ancora gocciolante e contratta da una smorfia di dolore. Un soffio di vento di mare gli passò attraverso, gettò una piacevole sensazione di freddo sulla sua pelle febbricitante, scossa dagli spasmi di fatica che tenevano i muscoli gonfi e le vene ingrossate.

Romano precipitò sulle ginocchia. Sbatté le gambe, schiacciò i palmi a terra, le braccia si flessero sotto il suo peso, e sbatté una spalla, cacciando un gemito. Rimase arricciato sul ponte della nave, in ginocchio, i gomiti piegati a terra e la fronte accostata al pavimento. Inspirò forte, trattenne il fiato che scivolò fino allo stomaco e si raccolse attorno al grumo di rabbia e frustrazione che gli trapassava la pancia come una coltellata conficcata nelle viscere. I pugni vibrarono, le unghie si infilarono nei palmi, sottilissimi rivoletti di sangue scivolarono fra le dita e toccarono le nocche screpolate che tremavano graffiando il ponte.

Romano digrignò i denti, stritolò di più le dita nelle quali sentiva ancora ronzare l’energia fitta e nera dei Junker tedeschi. Quell’energia che aveva scavato nel suo petto come un fitto ramo di tentacoli e che si era aggrappata al suo cuore, stritolandolo e affogandolo in un pozzo oscuro. Di nuovo sconfitto, di nuovo in ginocchio, di nuovo a piangersi addosso.   

Scosse il capo, stridette un lamento strozzato. “Non ce l’ho fatta.” Sollevò un pugno e lo sbatté a terra. “Non ce l’ho fatta!” Il vento ululò facendo da eco al suo grido di rabbia.

Prussia si massaggiò il braccio, ruotò lo sguardo sul corpo chino di Romano che aveva sottratto di peso dalla battaglia, e prese un ultimo respiro affannato. “E meno male,” commentò, acido. Raddrizzò le spalle, si strinse le mani sulle anche facendo schioccare la schiena, e flesse il collo di lato per snodare i nervi. “Combattere in quella maniera, senza controllo...” Scoccò un’altra occhiata di rimprovero a Romano. “Che cosa ti è saltato in testa?” sbottò. “Attaccare senza lucidità, pensando solo a distruggere l’avversario, danneggia più te che lui.”

Romano strinse la mandibola. “Ma tu...” Sollevò una gamba tremante, si strinse anche lui una spalla che sentiva ancora schiacciata dalla pressione dei muscoli in tensione, e ciondolò in piedi. Si morse il labbro, la voce arrochita dai bollori di rabbia gorgogliò come l’eco delle esplosioni. “Ma tu che cazzo vuoi saperne?” Incrociò un altro passo, il ginocchio tremò, Romano piantò bene il piede a terra per non tornare a cadere. “Perché...” Sollevò lo sguardo verso Prussia e gli lanciò una feroce occhiata di odio. “Perché dovrei darti retta?” gridò. “Perché dovrei dare retta a te e a tuo fratello?” Si batté una mano sul petto, dove fino a un attimo prima aveva percepito il peso della croce di ferro battergli sulle ossa. “Cosa ne sapete voi dei motivi per i quali combatto? Anche se combattessi solo per vendicarmi,” riprese fiato, “è una scelta mia, è una scelta della mia nazione.”

Prussia sollevò un sopracciglio, assottigliò le palpebre dentro la maschera di sangue che gli avvolgeva gli occhi e che gocciolava sulle guance, ma stette in silenzio.

Romano prese altri respiri affannati, strinse la mano sul petto, schiacciò il pugno premuto sul fianco, la rabbia si accese attorno a lui come una fiammata. “Chi credi di essere...” Inspirò, raccolse nei polmoni tutto il fuoco che gli bruciava nel sangue, e gettò il suo odio addosso a Prussia. “Per venire qui e dirmi come e perché devo combattere, quando voi siete stati i primi ad aver scatenato questa guerra per vendicarvi di quello che vi hanno fatto l’ultima volta?”

Lo sguardo di Prussia rabbuiò, si fece più duro. “Non è vero,” disse con voce ferma e profonda. “Il nostro è un riscatto,” fece un altro massaggio alla spalla colpita e scosse il capo, “non è una cieca vendetta fine a se stessa.”

Romano emise uno sbuffo che suonò come uno sputo, e le labbra rimasero torte in quel mezzo ringhio di ostilità. “Un riscatto.” Fece scivolare la mano dal petto, chiuse anche l’altro pugno al fianco e sollevò il mento. Il vento agitò i capelli davanti a quegli occhi scuri e accusatori. “È per questo che combatti? È questo il tuo motivo?”

Prussia tenne alto il suo sguardo di superiorità, gli occhi socchiusi splendettero di rosso da dentro la maschera di sangue dello stesso colore. Il sole bordò la sua sagoma dandole un tocco di nobiltà. “Io conosco benissimo le motivazioni per le quali combatto e per le quali ho deciso di tirarmi in piedi anche dopo la sconfitta dell’ultimo conflitto.” Girò la guancia, lanciò a Romano una furba occhiata di sbieco. “E tu?” Romano sussultò. “Tu sai per cosa combatti, Romano?”

Romano divenne di ghiaccio. L’aria che spirava contro la torpediniera gli entrò sotto la pelle, fluì nel sangue, lo fece rabbrividire come una foglia nella tempesta. Quel freddo pungente lo riportò in Grecia, fra le braccia di suo fratello, stretto al suo calore.

“Io combatto per te.”

“Allora non... non combatti per l’Italia.”

“È la stessa cosa.”

“No. No, non lo è.”

Romano restò a bocca socchiusa, incapace di parlare e di muovere la lingua. “Non...” Scosse il capo, tornò a montare la rabbia che sciolse il ghiaccio. “Non prendermi per il culo,” esclamò. “Tu...” Tornò ad alzare il viso e guardò Prussia dritto negli occhi, senza paura. “Voi lo sapete per cosa combatto. Sapete che sono dalla vostra parte e che accetto di rimanere in questa alleanza solo per il bene di Veneziano.” Storse una smorfia di disgusto, si strofinò il braccio ancora avvolto dall’uniforme tedesca che non si era tolto, grattò via quella pellicola di disagio rimasta incollata alla sua pelle come viscida bava. “Altrimenti non vi guarderei nemmeno in faccia.”

Prussia restrinse gli occhi, il suo sguardo si accese, ma il suo viso divenne nero. Il vento scosse le punte dei capelli tinti di rosso, trascinò le sue parole basse, rauche e crudeli che suonarono come una condanna. “E allora vattene.”

Romano impallidì. La sua maschera di odio cadde, snudò un’espressione bianca e spaventata. Gli occhi vacillarono, riempiendosi di smarrimento, grigi come il mare in cui galleggiavano. Quella frase gli aveva trapassato il cuore come un pugnale, affettandolo di netto e rimanendo con la lama conficcata nelle costole. Sentì la bocca asciutta. Un disgustoso senso di amarezza gli riempì le guance.

Lo sguardo di Prussia tornò a sbavarsi di luce, ma rimase duro e accusatorio. “In guerra,” disse lui, “un’alleanza è un legame tanto potente quanto fragile, e non può essere trattato con leggerezza come stai facendo tu.” Strinse le braccia al petto e sollevò il mento. Immerso in un raggio di sole, il sangue sulla sua faccia apparve ancora più rosso e lucido. “Resti di fianco a noi solo per tuo fratello?” domandò, con una punta di ironia. “E per quanto credi di poter resistere continuando a covare questo odio che non puoi sfogare? Quanto tempo credi di poter resistere prima di scomparire?”

Romano restò immobile, a labbra socchiuse, occhi sgranati e lucidi, e lingua pietrificata. Il coltello che Prussia gli aveva infilato nel cuore continuò a scendere, a scavargli nell’anima.

Prussia scosse il capo. “Non possiamo permetterci questo pericolo. Se è questa la tua motivazione,” scrollò le spalle, fece uno sguardo annoiato come se non gli importasse più, “allora vattene.”

Il labbro inferiore tremò, gonfiandosi come quando stava per scoppiare a piangere. Romano sentì il peso sul cuore sciogliersi, fluire fra le palpebre, bruciare davanti agli occhi e annacquarli, chiazzargli le guance di rosso e fargli saltare un singhiozzo in gola. “No.” Abbassò il capo e lo scosse, si prese il viso fra le mani. “No, non posso,” gemette. “Non posso abbandonare mio fratello in mano a voi.” Ingoiò un singhiozzo, senza piangere. Si strofinò le palpebre e indurì la voce. “Io devo rimanere qua.” Strizzò gli occhi, gridò. “Devo rimanere qua e proteggerlo!”

Prussia sollevò un sopracciglio. Parlò con calma. “Proteggerlo da noi, Romano?” Gli rivolse uno sguardo di complicità. “O da te stesso?”

Romano ingoiò il fiato e rimase a sguardo chino, testa bassa, rintanato fra le spalle strette.

“Perché dentro di te lo sai,” continuò Prussia. “Lo sai di essere troppo debole per proteggere Italia, e sai che noi siamo la sua unica speranza di uscire vivo dal conflitto. Se tu ci abbandonassi, lui ti seguirebbe, è ovvio che lo farebbe.” Indicò un punto alle sue spalle con un gesto del capo. “Voi diventereste nostri nemici, noi saremmo costretti a eliminarvi, e tu non saresti in grado di proteggerlo dalla nostra potenza.”

Negli occhi di Romano, così scuri e lucidi come vetro, tornarono a specchiarsi le immagini di quando aveva provato la sensazione di sentirsi protetto dalla forza di Prussia, schiacciato da quella potenza che aveva sentito arrivargli addosso in una ventata tanto rovente da fargli salire la pelle d’oca. La sua sagoma nera e larga davanti alla luce del sole, i muscoli contratti, le braccia tese e gonfie, le dita arricciate verso i palmi, a contenere l’energia che lo circondava come un’aura di fuoco, e i fumi degli aerei a schizzargli attorno guidati dai suoi movimenti.

Romano ingoiò quell’ondata di risentimento al sapore acido della bile. “Stai zitto,” gorgogliò. Aveva lo stomaco chiuso.

Prussia aggrottò la fronte e fece un passo avanti. Non smise di far pressione sul suo coltello. “Sai benissimo che noi siamo i soli in grado di proteggerlo.”

Romano scattò, tirò su la testa di colpo. “Proteggerlo?” Spalancò un braccio a indicare il mare, e il vento agitò le maniche delle due giacche sovrapposte. “Proteggerlo come state facendo in Grecia?” esclamò, diventando rosso in viso. “Proteggerlo come avete fatto con me a Taranto? Lasciandomi sepolto sotto le bombe di Inghilterra senza muovere un dito?”

Prussia fece schioccare la lingua e roteò lo sguardo al cielo. “Smettila di lamentarti di Taranto.” Compì un passetto di lato, si strofinò il braccio ferito e sporco di sangue. Guardò Romano sottecchi, da dietro l’ombra dei capelli, e gli rivolse un’espressione cupa che arrivò come un pugno alla bocca dello stomaco. “Hai avuto comunque una buona compagnia, o sbaglio?” Questo fu un umiliante schiaffo sulla guancia.

Romano sgranò gli occhi, e in quel lampo tornò all’inizio della battaglia, subito dopo essere stato tirato su di peso da Prussia dalla torpediniera in affondamento, quando si era tatuato l’impronta viscida e disgustosa della stretta di mano nella sua, quando lo aveva guardato storto, animato da quel bruciore di sospetto che lo aveva convinto ad andare avanti, a lottare e resistere fino alla fine solo per strappargli la verità dalla lingua.

“Tu cosa ne sai di cos’è successo a Taranto?” Prussia lo aveva guardato con la stessa aria di sufficienza e superiorità. “So più di quello che dovrei sapere, fidati.”

Romano inspirò. “Tu...” Corrugò le sopracciglia, una fitta ombra nera calò anche sul suo viso, gli occhi arsero e il cuore si gonfiò di odio. “Dimmi cosa sai di Taranto.” Il vento si agitò attorno a lui, una nube scivolò davanti al sole oscurando il cielo, creò una fitta nebbia di ostilità tutt’attorno al suo corpo. “Dimmi tutto o giuro che ti cavo io le parole di bocca strangolandoti a morte.”

Prussia ricambiò lo sguardo di astio, tenne il mento alto e la sua ombra ben larga attraverso il ponte della torpediniera. “Di Taranto so quello che basta.” Abbassò lo sguardo sulla ferita alla spalla che aveva ripreso a sanguinare – rivoletti scarlatti e brillanti gocciolavano dalla striscia di stoffa allacciata al muscolo, ormai diventata nera e completamente imbevuta – e strinse un lembo della pezza, sistemandosela. “E so ben più di quello che ha potuto dirmi mio fratello.”

Gli occhi di Romano si fecero vigili e aguzzi come quelli di un falco. Romano trattenne il fiato. I muscoli in tensione, il petto rigido, le orecchie tese e le mani contratte, che già prudevano per la voglia di saltargli addosso. Sgranchì le falangi per sopprimere il formicolio.  

Prussia si girò di spalle, compì un paio di passi lontano da Romano, e usò un lembo della maglietta per asciugarsi il sangue ancora fresco dal braccio. “Non sono affari tuoi di come ho saputo tutto.” Mollò l’orlo di stoffa nera, si asciugò le mani sopra, e voltò lo sguardo. Gli occhi tornarono stretti e bui, trafissero Romano in un’altra profonda pugnalata al cuore. “Ma credimi che non vedrai Spagna in circolazione per un bel po’ di tempo.”

Romano s’impietrì come una statua, il respiro gli si mozzò in gola, in volto divenne bianco come gesso, gli occhi vitrei e larghi, le guance cineree, e il cuore attraversato da quella coltellata di dolore elettrico.

L’ultimo sguardo di Spagna, sfumato di rosso dalle saette che correvano fra di loro attraverso il campo di forza sollevato da Inghilterra, i suoi occhi che anche sotto il cielo notturno e illuminato dagli incendi e dai riflettori non avevano mai smesso di trasmettergli quel senso di calore, le sue labbra avevano continuato a sorridergli, la sua mano aperta sulla barriera gli era sempre stata accanto. Le sue ultime parole continuavano a echeggiargli nella testa. “Sarò qui ad abbracciarti se vincerai, e sarò qui a sostenerti se perderai.” E invece non c’era stato.

Romano guadagnò un sospiro tremolante. Gli occhi annegarono in un lucido velo di angoscia, il peso al cuore risalì accumulandosi fra le palpebre, gonfiandole e rendendole rosse. Lacrime cristalline sgorgarono fra le ciglia e rimasero in bilico, in gola si gonfiò una bruciante voglia di scoppiare a piangere. Risucchiò tutto con un respiro profondo. Lo sguardo rimase rosso di rabbia, lucido di un odio nero che stagnò nel cuore come una ferita lacrimante di sangue. Romano schiacciò i pugni, le braccia tremarono. Aggrottò la fronte trasformando il viso in una maschera di disprezzo e raccapriccio, gli occhi bruciarono come tizzoni, violenti tremori gli attraversarono il corpo ardendo nelle vene e facendo fiorire la voglia di sentire il sangue di Prussia scorrere fra le sue dita e le ossa spezzarsi sotto i suoi pugni.

Romano gli scattò addosso, gli strattonò una spalla facendolo voltare e gli agguantò la maglia. “Che cazzo gli avete fatto, bastardi?” gridò. “Dimmelo o ti spacco la faccia!”

Prussia mantenne l’espressione di ghiaccio sotto la pellicola di sangue che gli colorava il viso. Gli occhi alti e fieri a specchiarsi in quelli furenti di Romano, le spalle larghe nonostante il dolore al braccio e le mani dell’altro a stringergli sotto la gola. Sbuffò con indifferenza. “Gli abbiamo fatto quello che si meritava.”

Romano non ci vide. Staccò una mano dalla sua maglia, stritolò il pugno, caricò il colpo piegando il gomito, e scagliò il colpo mirando alla sua guancia. Prussia aprì una mano e gli raccolse il pugno, bloccò il colpo. Romano grugnì di frustrazione, gonfiò il muscolo e tirò indietro il braccio. Prussia strinse la presa facendo scricchiolare le dita sulle sue nocche, gli flesse il polso, lo imprigionò nella sua presa. Romano fece stridere i denti, tirò su l’altro braccio staccando la mano dalla maglia di Prussia, caricò un altro pugno, e perforò l’aria mirando allo stomaco. Prussia aprì le dita. Le nocche di Romano schioccarono contro il suo palmo, il pugno vi rimase incastrato. Romano sbuffò ancora, fumante di rabbia, le guance rosse e gli occhi neri, e tirò su un piede, flesse il ginocchio per caricare un calcio. Prussia roteò lo sguardo. Sollevò anche lui un piede, glielo incastrò dentro la caviglia, diede un colpetto di lato, e gli sbilanciò le gambe.

“Wha!”

Romano sbatté il fianco a terra, ingollò un gemito che lo schiacciò come un cazzotto nei polmoni, e cadde schiacciandosi il braccio sotto la spalla. Boccheggiò come dopo una corsa, i fumi di rabbia gli ronzavano ancora attorno alla testa, dandogli l’impressione di star galleggiando in una fitta nebbia grigia, sottili goccioline di sudore piovvero dalle punte dei capelli scompigliati, caddero sulle guance ancora rosse di rabbia. Fece leva sulle braccia, rimanendo chino, forti brividi gli scossero i pugni, risalirono i muscoli e gli flessero le spalle, ingobbendolo. Tutti i pugni e i calci che aveva indirizzato a Prussia ora avrebbe voluto tirarli a se stesso, fino a farsi mancare il respiro e fino a far diventare la pelle viola di lividi. “Gli abbiamo fatto quello che si meritava.” Strinse i denti, trattenne i singhiozzi, e si schiacciò una mano sulla faccia. “No,” guaì, senza spandere lacrime.

Prussia si lisciò la maglia sgualcita e sporca di sangue, e rivolse un’occhiata bassa a Romano. “Perché ti disperi tanto?” Si strinse nelle spalle. “Quello che è successo a Spagna non è colpa tua, se l’è meritato.”

Romano scosse il capo. “No,” stridette contro le dita aperte sul viso. “Perché...” Un altro macigno di sensi di colpa gli piovve addosso alla schiena, facendolo piegare ancora più in basso. “Se io avessi vinto... Se fossi riuscito a vincere, a non farmi buttare in mare come un idiota, lui...” Singhiozzò. “Lui...” Inspirò fra i denti e lasciò di nuovo sgorgare la rabbia fuori dalla gola arrochita. “Lui è sempre stato l’unico a starmi accanto, in qualunque situazione.” Ruotò gli occhi verso l’alto, fece scivolare via la mano dal viso dandosi una strofinata alle palpebre, e tornò ad aggrottare la fronte in quella feroce espressione di odio. “E ora dovrei avercela con Spagna anziché con voi?”

Prussia fece spallucce. “E allora scappa da lui, no?” gli fece. “Se è questo che volete tutti e due, statevene pure nel vostro angolino, mentre noi continuiamo a combattere e a portare avanti il mondo.”

Romano scosse il capo. “Non posso,” esclamò. “Come posso...” Sollevò un pugno, tornò a sbattere le nocche sul ponte della torpediniera, e guardò in basso. “Come potrei andare da lui? Io l’ho messo nei guai, lui è venuto a salvarmi e io non sono comunque riuscito a fare nulla. Perché sono debole!” Si accasciò stando sui gomiti, la fronte a toccare il pavimento, la punta del naso a sfioro dell’odore di salsedine e di metallo. Soppresse un singhiozzo più flebile, scosse di nuovo la testa in un gesto più disperato. “Io non me lo merito.” Singhiozzò ancora. “Non mi merito di essere salvato da lui.”

Prussia aggrottò un sopracciglio, rimanendo con lo sguardo posato su quel corpo straziato e chino nella sua ombra, e un barlume di ricordo gli brillò nella testa, dandogli un’espressione perplessa.

Ma che idioti, si disse.

Anche lui rivide il volto di Spagna, distrutto, ferito, e nascosto nell’ombra. “Io non merito Romano,” disse il ricordo. “Io non merito niente.”

Prussia mantenne quell’espressione incredula, sbatacchiò le palpebre umide di sangue. Spagna non vuole più avvicinarsi a Romano perché non è riuscito a salvarlo, e Romano non vuole più avvicinarsi a Spagna perché non è riuscito a farsi salvare. Sbuffò. Che razza di...

Lo sguardo gli tornò a cadere su Romano, e la visione di quel corpicino chino e tremante infagottato nella sua giacca troppo grande gli strinse un nodo di compassione attorno al cuore.

Prussia sospirò, abbassò le palpebre, si passò una mano fra i capelli impastati di sangue per scollarli dalle guance. “Ritira gli stormi in Sicilia.” Si girò, sfregò un altro massaggio al braccio ferito. “E poi tornatene da tuo fratello.”

“Fermati.” La voce di Romano lo fermò per davvero.

Prussia sbirciò con la coda dell’occhio da sopra la spalla, e incrociò lo sguardo di Romano celato dalle punte delle ciocche spettinate e cerchiato dal nero delle palpebre gonfie di stanchezza.

Romano raddrizzò le braccia, forzò le spalle tremanti ad allargarsi, e sollevò la fronte, rivolse a Prussia un’espressione straziata ma ancora lampeggiante di rabbia. “Dimmi perché,” sbottò. “Tu... tu la pensi come me, anche tu mi disprezzi, anche voi non volete avermi come alleato, eppure sei venuto lo stesso qua a proteggermi.” Restrinse lo sguardo, la voce assunse un tono minaccioso. “Dimmi la verità.” Il vento fischiò trascinando le sue parole. “Perché sei venuto?”

Prussia allontanò gli occhi, li rivolse al mare, all’orizzonte sul quale si specchiava il disco bianco di quel sole freddo e cristallino sbavato dal fumo nero delle esplosioni che non era ancora calato. Quell’immagine gli trasmise un tiepido senso di pace. “Perché anche io ho fatto una promessa a qualcuno.” Tornò a voltarsi, gli camminò lontano. “E ho intenzione di mantenerla.” Passò sotto un traliccio metallico, scese un primo gradino del ponte, e mormorò con voce più bassa. “E comunque non è vero che ti disprezzo.”

Romano non lo sentì. Rimase di nuovo solo, piccolo e impotente, schiacciato dal peso dell’ennesima sconfitta.

 

.

 

Isola di Malta, porto di La Valletta

Convoglio Force A, Bordo della nave da battaglia HMS Valiant

 

La fatina fece correre la punta del mozzicone di grafite lungo gli appunti che teneva davanti al visetto. Socchiuse le ciglia. Le luci verdi della camera di comando formarono fitte ombre attorno ai suoi occhi tesi e concentrati, si incresparono fra le punte dei capelli bruciacchiati dall’incendio in cui si era immersa quando era volata fra i corridoi della Illustrious, ed evidenziarono il sottile ricciolo all’angolo della bocca torta in un’espressione di ansia. Stava trattenendo il respiro.

Sollevò lo sguardo, la luce dei radar le bagnò il viso, e segnò un ultimo appunto in fondo alla pagina già scribacchiata dalla sua grafia. “Attracco effettuato,” annunciò. “Ore due-uno-zero-zero. Arrivo della portaerei HMS Illustrious al porto di La Valletta.” Infilò il mozzicone di grafite dietro l’orecchio, lo nascose sotto una ciocca di capelli, e tenne il foglietto di appunti fra le dita.

Scrollò un ronzio d’ali spargendo una nube di polverina lilla, spiccò il volo dall’ovale del radar e si posò su una spalla di Inghilterra, chino su uno dei pannelli – le braccia incrociate, la fronte premuta nell’incavo dei gomiti, la schiena piegata e tremante di dolore e fatica, e le ginocchia traballanti che non ce la facevano più a stare in piedi. La fatina richiuse le ali sul dorso, stese un sorriso gioioso e batté un applauso accanto al suo orecchio. “Congratulazioni, ciurma!”

Anche il coniglietto volante sorrise di sollievo e batté le zampette. “Congratulazioni!”

Inghilterra inspirò tenendo la fronte bassa, strinse i pugni tremanti sul pannello, irrigidì le spalle, ed emise un profondo e rauco sospiro che sciolse tutta la fatica accumulata sui muscoli. L’adrenalina scivolò via lasciandogli un denso senso di pesantezza a gravare sulle ossa, gli spasmi di dolore cessarono spandendo un senso di calore simile a quello umido del sangue che gli scorreva sulla pelle. Sollevò un piede, lo riappoggiò, il ginocchio cedette, il polpaccio divenne di pietra, e le braccia mollarono il pannello. Inghilterra crollò. Sbatté una tempia sull’orlo del quadrante, ingoiò un gemito soffocato, picchiò l’anca addosso a uno spigolo, e cadde seduto sul pavimento. Le gambe molli stese davanti a lui, le braccia abbandonate sui fianchi, le mani sporche di sangue e immobili, le dita gocciolanti ricurve verso i palmi, il capo chino di lato, i capelli sudati sparsi sul viso, la tempia a toccare la spalla, e le labbra socchiuse, secche e avide di fiato.

L’odore di sangue cominciò a impregnare l’abitacolo della camera di comando, una chiazza rossa si allargò attorno al corpo martoriato di Inghilterra, alimentata dalle ferite che continuavano a sgorgare.

La mano trafitta dalla coltellata ebbe uno spasmo. Il fremito contrasse le dita, il taglio nero spurgò grumi di sangue denso e colloso che si raccolse nel palmo e colò sul pavimento fluendo dalle nocche. La stoffa sulla gamba colpita dalla pugnalata era diventata nera. La ferita continuava ad allargare la chiazza spanta sotto la coscia, la espandeva come un’ombra. Inghilterra raccolse la mano sana, la premette sul fianco ferito, sotto il costato, all’altezza dei reni, e strinse un gemito di dolore fra i denti. Rivoli di sangue attraversarono le dita, caldi e umidi, e tinsero il tessuto della giacca. Reclinò il capo sfregando la nuca sulla parete, boccheggiò ancora, sentendo la gola bruciare e riempirsi del sapore del sangue, e i capelli scivolarono via dalla fronte, snudarono la benda nera che gli tappava l’occhio sinistro. Tre gocce di sangue si ingrossarono sull’orlo della pezza, spesse e rosse come bacche mature, e si sciolsero. Lacrimarono attraverso la guancia e raggiunsero il mento.

Inghilterra staccò la mano dal fianco insanguinato, sollevò a fatica il braccio – la spalla gli faceva troppo male – e infilò le dita tremanti sotto l’elastico della benda. Lo slacciò dalla nuca, chiuse la benda fradicia di sangue nel palmo, e scoprì il rettangolo di garza fissato sull’occhio malato con i nastri di cerotto. Il sangue imbeveva la garza che era diventata nera e spugnosa. Spessi rigagnoli di sangue si sciolsero dalla fascia e gli bagnarono la faccia, rendendola una maschera rossa a forma di mezzaluna.

Il coniglietto zampettò vicino a Inghilterra, tinse le zampette nella pozza di sangue e la pelliccia latte e menta si colorò di rosso. Gli posò il musetto sulla mano ferita abbandonata lungo il fianco e gli scosse il polso. “Ti senti un po’ meglio?” Anche il musetto si sbavò del colore del sangue.

Inghilterra esalò un altro sospiro. Infilò la mano fra i capelli sporchi di sangue, si massaggiò la fronte e le tempie, scacciando l’anello di vertigini che premeva sul cranio, insabbiandogli la testa di un senso di nausea. Schiuse l’occhio sano – da quello malato non vedeva nulla – e sbatacchiò le palpebre sul panorama appannato che brillava di verde. Un altro affanno, e i muscoli ripresero a tremare. “Danni?” sbiascicò.

La fatina si sedette sulla spalla di Inghilterra, lisciò la gonna lungo le gambe ciondolati e tornò a riaprire la pagina di appunti. Arricciò un angolo delle labbra, restrinse la vista e si grattò dietro l’orecchio. “Dunque,” rimuginò. Raggiunse con l’indice l’elenco e vi picchiettò sopra con l’unghia. “Danni alla piattaforma P-1 e alla corazza laterale, attraversamento del ponte di volo, incendiamento dell’hangar, allagamento del timone, danneggiamento parziale dell’artiglieria contraerea, di un cannone Pom-Pom S-2.” Girò la pagina e continuò a dettare dall’altra facciata. “Poi danni alla piattaforma di lancio, sull’angolo a tribordo e sul vano di corsa. Radar fuori uso, motori in avaria, compresi quelli a vapore.” Si strinse nelle spalle, volse le manine al cielo tenendo chiusa la pagina fra le dita, e gettò un’occhiata sbieca a Inghilterra. “Concludendo...”

“È un miracolo che non sia affondata,” finì per lei il coniglietto.

La fatina annuì. “Già.” Schioccò le dita, il foglio svanì in una nuvoletta viola. La piccola infilò una manina fra gli sbuffi del vestito ed estrasse un fazzolettino lilla. Si sporse verso la guancia di Inghilterra e picchiettò il lenzuolino lungo il profilo dello zigomo, fino al mento, raccogliendo il sangue che continuava a lacrimargli dall’occhio che si stava gonfiando come una susina. “Dovremo tenerla a Malta per un bel po’ prima di ripartire per Alessandria.”

Inghilterra soffiò un sospiro, fece scivolare le dita dalla fronte e tornò a infilarle dietro la schiena, raggiunse la ferita al fianco e massaggiò tutt’attorno la consistenza della stoffa fradicia e tiepida. Rivoli di sudore colarono dall’attaccatura dei capelli, si mescolarono al sangue correndo lungo il viso. Ondate di dolore premevano e si ritiravano come se Inghilterra avesse ancora avuto la lama seghettata del pugnale d’assalto infilata nella carne, a rigirarsi fra i muscoli e a scheggiare le ossa. Le vertigini gli rendevano appannato anche l’occhio sano, debole e socchiuso.

Il coniglietto si appoggiò con le zampette sulla sua coscia, stando attento a non premere sul lacero, e tese il musetto sporco di sangue rivolgendogli uno sguardo preoccupato e intristito. “Anche tu poi hai bisogno di riposare,” gli disse.

La fatina staccò il fazzoletto imbevuto di sangue dalla guancia di Inghilterra e gli sventolò l’indice contro. “Vedi: così impari a non avere alleati. O amici.”

Il coniglietto le inviò un’occhiata di rimprovero. Lei lo ignorò.

Inghilterra spremette le dita sul dolore che lo mordeva al fianco, fece ciondolare il capo sull’altra spalla, e sollevò un indice al soffitto. “Forse...” Annaspò, si bagnò la lingua sul palato che sapeva di sangue, aspettò che un’ondata di vertigini si ritirasse. “Forse dovrei...” Boccheggiò ancora. Un respiro più profondo. Espirò. I polmoni svuotati e la voce rauca come un soffio di vento. “Iniziare a...” Scosse il capo e tornò a reggersi la fronte. “A prendere in considerazione l’idea di avere qualcuno ad aiutarmi,” mormorò, “se dovessi compiere un’altra operazione del genere.”

Il coniglietto si sedette sulle zampine posteriori, fuori dalla chiazza di sangue, e fece spallucce. “Già, ma chi?” chiese. “Tutta Europa è in mano all’Asse.”

“Mhm.” La fatina picchiettò l’indice sul labbro inferiore, sollevò un sopracciglio. “America?”

Inghilterra girò di scatto il viso verso di lei e sollevò la spalla su cui era seduta. “Neanche per idea!” gracchiò.

La fatina mostrò i palmi in segno di resa e volse lo sguardo in disparte. “Proponevo.” Batté le ali, si alzò in piedi e ronzò via in una scia di polverina viola, tornando a posarsi su uno dei pannelli.

Inghilterra guadagnò un respiro profondo, l’aria passò nei polmoni, gli gonfiò il ventre, lo trapassò come un’ennesima coltellata, e lui dovette piegarsi in due, il braccio attorno alla pancia, per non gridare di dolore. In viso divenne bianco, poi di nuovo rosso, sporco di sangue e abbagliato della luce verde dei radar. Strinse forte i denti e le labbra tremarono. “C-ci penserò,” sibilò con un filo di voce. Sollevò il braccio, tastò l’orlo del pannello lasciandovi un’impronta rossa, si aggrappò con le dita all’orlo, vi fece stridere le unghie, e forzò il braccio a tirare il corpo su di peso. “Ma per ora...” Raddrizzò le gambe, dondolò in avanti, picchiò le ginocchia di nuovo a terra, ma rimase appeso con il braccio. Inspirò. Espirò. “Credo che mi...” Uno sciame di vertigini gli riempì la testa, le orecchie fischiarono, si tapparono in uno schiocco, la faccia divenne calda e formicolante, macchie nere si allargarono nell’occhio sano. “Che mi...” Schiuse le dita, scivolò di lato, cadde sul fianco con uno splash! nella chiazza di sangue e rimase immobile.

Svenne.

 

♦♦♦

 

11 gennaio 1941

Valona, Albania

 

Italia richiuse i lembi della tenda da campo alle sue spalle, tenne le mani strette sulla tela e voltò lo sguardo verso Romano che era entrato prima di lui. Gli rivolse un’occhiata allarmata e apprensiva. “Non ce l’avete fatta a fermarlo?”

Romano si sbottonò la giacca, se la sfilò dalle spalle e la lanciò sul tavolo al centro della tenda. “No,” sbottò. Premette le mani sul banco e si diede una spinta, si sedette sull’orlo con un balzo, le gambe a ciondoloni, e piegò i gomiti sulle ginocchia. Prese il capo fra le mani e puntò lo sguardo in mezzo ai piedi dondolanti. Aggrottò la fronte, il viso nero di rabbia, e strinse le dita tremanti fra i capelli. “Lo abbiamo mitragliato,” ringhiò, “abbiamo divorato metà portaerei a forza di bombardamenti.” Sbuffò e si diede una strofinata alla nuca, come per scacciare il prurito d’irritazione. “Ma è arrivato lo stesso a Malta.”

Italia lasciò andare i lembi della tenda da campo chiusa, avvilì lo sguardo, si strinse un pugnetto sul cuore, e si avvicinò a Romano con passi cauti.

Romano voltò lo sguardo di lato, premette le nocche sotto il mento per sorreggere il capo, il braccio piegato sulla coscia, ed emise un profondo sospiro di sconforto. “Poi da lì riorganizzerà i convogli per fare tappa ad Alessandria,” scosse le spalle, “e allora andremo tutti a farci fottere.”

Fuori dalla tenda, una spazzata di vento gettò una frustata d’aria e di neve addosso al telo, fece traballare le pareti. Romano rimase rigido, a muso duro, gli occhi bui, i capelli spettinati davanti alla fronte e i pugni stretti, senza nemmeno sussultare, come se non si fosse trovato lì.

Italia chinò lo sguardo avvilito, restrinse il labbro inferiore, scosso da un lieve fremito. Gli occhi stanchi e lucidi di tristezza rimasero a terra, ombreggiati dalle punte della frangia, e luccicarono di dolore. Si strofinò le palpebre e si avvicinò di un altro passetto a Romano, riacquistò un piccolo sorriso che gli ravvivò l’espressione abbattuta, nonostante il costante luccichio agli occhi tristi. “Be’, ma l’importante è che non vi siate fatti male, no?” Strinse una mano a suo fratello, la chiuse fra i palmi e gli fece una piccola carezza sul dorso.

Romano sbuffò, fece roteare lo sguardo frustrato, ma non si sottrasse.

Gli occhi di Italia tornarono a ingrigirsi, preoccupati e impauriti. “Prussia sta bene?” gli domandò, e la presa sulla mano si fece più rigida. “Non è rimasto ferito?”

Romano strinse i denti e strappò via il braccio, scagliò a Italia un’occhiataccia di traverso. “E chi cazzo se ne frega!” Un’altra spazzata di vento ululò contro la tenda, facendo da eco alla sua voce furiosa.

Italia strinse il pugnetto e lo portò davanti al petto, tenne gli occhi alti, più fermi. “Lui ti ha aiutato, Romano,” disse con tono di rimprovero. “Volevo solo...” Si rosicchiò il labbro, stropicciò un angolino della giacca fra le dita, gesti rapidi e nervosi, e guardò di nuovo in basso, in mezzo ai piedi. Non riuscì a terminare la frase.

Un altro soffio di vento fece vibrare la parete di tela della tenda, il vento ululò fra le montagne, rombi più gravi e profondi borbottarono in lontananza, simili a quelli che echeggiavano nella testa di Romano, ovattata da quella nebbia di rabbia, frustrazione e raccapriccio che gli facevano tremare l’animo.

Romano inspirò, restrinse il labbro inferiore, trattenne l’aria, e gorgogliò con voce bassa e rauca. “Aiutato...”

Davanti ai suoi occhi proiettò le immagini della battaglia. Erano grigie e sfumate come fotografie. Prussia che lo acchiappava al volo quando stava per cadere dalla torpediniera, il suo braccio teso e il suo viso contratto di fatica; le sue mani che gli afferravano la spalla e che lo buttavano a terra per fargli schivare gli spari di Inghilterra, la sua giacca sanguinante, le dita aggrappate alla ferita, rosse e umide; la sua ombra ingigantita davanti al sole, a proteggerlo; e la sua presa che lo tratteneva durante l’ultima sfuriata, che lo sosteneva quando aveva solo voglia di buttarsi a terra, in ginocchio, di prendersi la faccia fra le mani e di scoppiare a piangere di rabbia.

Nonostante tutto, Romano non riuscì a provare alcun senso di gratitudine.

“Ti consiglio...” Romano annodò le braccia al petto e tenne lo sguardo distante da quello di Italia, le sopracciglia aggrottate e quel senso di odio a opprimergli il petto. “Ti consiglio di iniziare a mettere in seri dubbi quest’alleanza, Veneziano.”

Italia sobbalzò, sgranò gli occhi. “Cosa?” Tornò vicino a Romano di un passetto, gli posò le mani sul ginocchio, tese lo sguardo per cercare il suo. “Ma perché?” piagnucolò, gli occhi già umidi di tristezza, bui di incomprensione.

Romano schiacciò i pugni. “Perché...” Gli scagliò addosso un’occhiata truce. “Perché non è sicura.”

Italia sussultò, rimase a labbra socchiuse, lo sguardo incredulo, e le dita tremolanti strette al ginocchio di suo fratello.

Romano gettò lo sguardo al pavimento, si strinse una spalla e strofinò il braccio. “E perché loro non vogliono il tuo bene, vogliono la nostra nazione.”

Lo sguardo di Italia tornò a inumidirsi. “Non...” Scosse il capo, si spinse di un passetto all’indietro, si strinse nelle spalle e anche lui guardò a terra, facendo aria offesa. “Non è vero.” Accostò un pugnetto al petto, chiuse le dita dove sentiva il rassicurante rigonfiamento della croce di ferro premere sulla giacca. Socchiuse le palpebre, abbassò la voce. “Germania mi vuole bene.”

Romano sbuffò. “Già.” Sollevò lo sguardo e spalancò il braccio a indicare la parete della tenda. “Così tanto bene da farti strisciare fino al Brennero invece che degnarsi di portare lui il culo qua da noi.”

Italia si morse il labbro, la bocca vibrò, un’espressione di sofferenza gli attraversò il viso. Chinò la fronte, i capelli caddero davanti agli occhi, e rimase stretto nelle spalle, la mano accostata al petto, sopra la croce di ferro e accanto alla cicatrice bendata che riprese a pulsare di dolore e a bruciare, infiammandogli il cuore.

L’immagine così abbattuta di Italia, il suo sguardo basso, le spalle chine e l’aura di sconforto ad avvolgerlo come una nebbiolina nera, trasmise anche a Romano una spina di dolore che gli penetrò nel petto. Sciacquò l’odio dal suo cuore, lasciò però una macchia di rabbia che continuò a fargli ribollire il sangue. “Datti una svegliata, Veneziano.” Balzò giù dal tavolo, il pavimento della tenda emise uno schiocco secco sotto le suole. “E veditela da te.”

Italia sollevò lo sguardo, Romano gli passò davanti buttandogli un’occhiata di sbieco. “La prossima settimana, quando sarai davanti a lui,” restrinse le palpebre in uno sguardo minaccioso, di sfida, “inizia a chiederti se davvero ti vuole così tanto bene come credi.”

Italia fu scosso da un brivido di ansia. Strinse le mani sulle spalle, in un abbraccio triste e solitario, e l’angoscia tornò a ingrossarsi come l’onda di una marea – la prossima settimana –, gli fece sentire freddo, lo rese pallido – quando sarò davanti a lui –, annodò lo stomaco e gli fece ballare le ginocchia – tanto bene come credi.

Un’ondata di ansia gli travolse il cuore, lo fece sprofondare in un baratro di indecisione.

 

♦♦♦

 

11 gennaio 1941, Berlino

 

Prussia immerse il muscolo dell’avambraccio bagnato di tintura di iodio sotto il fascio della lampada. Illuminò la ferita del proiettile attraversata dal lacero del pugnale che si era infilato nella carne per estrarre la pallottola, e indirizzò la punta dell’ago per suture su un labbro dello squarcio. “Giuro,” si lamentò, “ormai si sarebbe dovuto sciogliere come un ghiacciolo a forza di sanguinare.” Infilò la punta a uncino dell’ago sotto la carne, lo inclinò facendogli attraversare la ferita, e l’estremità acuminata riemerse dalla pelle. Prussia tirò l’ago, fece scorrere il filo, e nascose la sottile smorfia di dolore corrugando un ringhio innervosito fra le labbra. “Ma quel bastardo non va giù nemmeno a segargli le gambe, merda.” Fissò il punto, diede un piccolo strattoncino con l’ago accostando le due labbra della ferita tenute legate dal filo di sutura, e tornò a inclinare l’ago, spinse la punta nella carne e affondò un altro movimento ricurvo.

Germania abbassò le palpebre, soffiò un sospiro di sconforto, camminò avanti e indietro lungo la parete della camera, e si massaggiò le tempie. “L’importante è aver danneggiato la portaerei a sufficienza in modo che sia fuori uso per parecchio tempo,” disse.

Prussia schioccò la lingua, un gesto di stizza, e gli occhi si accesero di rabbia. “Fuori uso,” brontolò. Fissò un altro punto sulla ferita, aggrottò la fronte sotto la benda che gli avvolgeva il capo – il rigonfiamento della garza a tappargli lo sfregio del proiettile sulla tempia – e affondò di nuovo l’ago nella pelle che luccicava, bruna del disinfettante mescolato alle goccioline di sangue. “Doveva affondare, quella stronza, altro che danneggiata.”

Un frullio d’ali attraversò la camera, passò di fianco a Germania, planò verso il tavolo su cui era seduto Prussia, e il piumino color giallo limone atterrò accanto alla cassetta del pronto soccorso scoperchiata accanto alla boccetta di tintura di iodio. Gilbird richiuse le ali sul dorso, zampettò fra i rotoli di garza, e saltò sul ginocchio di Prussia. Inclinò la testolina e cinguettò per chiamare l’attenzione del padrone. “Pyo, pyo!”

Prussia fermò la mano che stava cucendo un altro punto sulla ferita, abbassò lo sguardo, e incontrò gli occhietti neri di Gilbird che lo scrutavano dalla luce della lampada. “Uh, che c’è, piccino?”

Gilbird rimbalzò sul suo ginocchio, diede un frullio d’ali, e cinguettò di nuovo. “Pyo, pyo!” Allontanò il musetto dall’intenso e acre odore di disinfettante spanto dal braccio di Prussia.

Prussia gli sorrise, il suo sguardo riacquistò un tono di arrogante superiorità. “Vuoi vedere la mia ferita di guerra?” Abbassò la spalla, poggiò il gomito sul ginocchio, aprì e strizzò la mano per gonfiare le vene sul muscolo ferito e sporco di disinfettante. Ghignò di orgoglio. “Guarda, guarda, vedi che magnifica ferita di guerra? Il Sottoscritto è stato bravo o no?”

Gilbird tese la punta del becco verso la ferita ricucita a metà e diede un’altra frullata d’ali “Pyo!” Prussia tese un indice e gli grattò una carezza in mezzo al piumaggio della testolina.

Germania scostò lo sguardo, scosse il capo tenendo le dita premute sulle tempie, ed emise un altro sospiro. Il viso sollevato, ma le palpebre ancora cerchiate di tensione. “Romano stava bene?”

Prussia sfilò l’indice dalle piume di Gilbird e tornò a stringere l’ago di sutura. Scosse le spalle. “Neanche un graffio.” Indirizzò la punta dell’ago verso la ferita, assottigliò le palpebre, e affondò un altro punto, tese il filo con piccoli strattoncini, accostò le estremità del lacero.

Germania annuì. “Bene.” Si avvicinò all’orlo del tavolo su cui erano posati i bollettini di guerra, i rapporti, e il resoconto della battaglia. Socchiuse le palpebre, distolse lo sguardo dai documenti, sbottonò il bavero della giacca, allentando la pressione che sentiva schiacciargli il respiro e si massaggiò il collo. “Almeno questo,” sospirò con voce grave.

Prussia fermò di nuovo la mano stretta all’ago ricurvo, sollevò un sopracciglio increspando la fronte sotto la benda celata dalle ciocche spettinate, e scoccò una rapida occhiata di scetticismo a Gilbird. Alzò lo sguardo, sospirò anche lui, e lo rivolse a Germania. “West.”

Germania gli rivolse un’occhiata stanca, ma il tono fermo e serio con cui suo fratello lo aveva chiamato gli accese un campanello d’allarme nella testa, gli fece trattenere il respiro.

Prussia si strinse nelle spalle, fece roteare lo sguardo e si strofinò la nuca stando attendo a non sgualcire la benda stretta fra i capelli. “Non per fare allarmismi, ma...” Un’ombra gli annebbiò lo sguardo, gli occhi di Prussia si animarono di una luce tesa e fitta, nella sua mente rievocò le ultime parole che Romano gli aveva rivolto sulla torpediniera – “Voi lo sapete per cosa combatto. Sapete che sono dalla vostra parte e che accetto di rimanere in questa alleanza solo per il bene di Veneziano. Altrimenti non vi guarderei nemmeno in faccia.” Prussia sospirò. “Ti consiglio di iniziare a rivalutare il ruolo che ha Romano in questa alleanza.”

Germania irrigidì, strinse un pugno sul tavolo, in mezzo alle carte, e sollevò quello sguardo incupito verso quello di Prussia. Gli lanciò un’occhiata interrogativa, ancora ombreggiata dalle dita premute sulle tempie. “Perché rivalutarlo?”

Prussia guardò in disparte, raccolse la garza imbevuta di tintura accanto ai rotoli di bende, e si spalmò dell’altro disinfettante sull’avambraccio. “Perché Romano è pericoloso,” disse.

Germania rimase in silenzio, ma non riuscì a nascondere la ruga di preoccupazione che gli aveva attraversato il viso.

Prussia diede un’altra sfregata alla pelle e raccolse un rivoletto di sangue picchiettando la garza fradicia di disinfettante attorno alla ferita non ancora ricucita del tutto. “Lui ora sta combattendo per Ita solo in quanto fratello, e non in quanto nazione.” Porse la garza sporca a Gilbird, e il canarino la strinse nella punta del becco. “E questo rischia di essere sia la sua rovina che la nostra.” Gilbird volò a gettare la garza sporca nel cestino sotto il tavolo.

Germania non parve convinto. “Anche io e te combattiamo in quanto fratelli,” disse.

“Ma nessuno di noi due dimentica la sua identità da nazione,” ribatté Prussia, “senza contare il fatto che Romano e Ita rappresentano lo stesso paese.” Scosse il capo. “Io e te no.”

Germania raddrizzò le spalle, tenne i pugni sul tavolo. “Cosa cerchi di dirmi?” Di nuovo quel barlume di allarme gli attraversò la tensione del volto. “Che Romano potrebbe scomparire?”

Prussia sbuffò dando una scrollata di spalle. “Nah, Romano è troppo orgoglioso per farsi sparire da solo.” Rivolse di nuovo l’attenzione al taglio sulla spalla, toccò un’estremità della ferita con la punta dell’ago, inclinò lo strumento affondando l’uncino nella pelle, e restrinse le palpebre. “È questo il problema.” Scavò la carne con l’ago, trapassò la ferita, curvò la punta e la fece emergere, luccicante di sangue e disinfettante. “Lui ha un forte orgoglio, un orgoglio che forse nemmeno lui sa di avere perché lo tiene soppresso. Ma prima o poi finirà per scoppiare.” Estrasse l’ago, tirò il filo sporco, l’ultimo punto. “Romano sta tirando una corda molto fragile.” Diede un piccolo strattone, raccolse le forbicine dalla cassetta del pronto soccorso, e aprì le due lame sul filo. “Una corda che prima o poi si spezzerà.” Zac! Tagliò il filo in un colpo netto. “E che forse nemmeno il suo legame con Italia saprà ricucire.” Rimise le forbicine nella cassetta d’acciaio, assieme alla boccetta di disinfettante, e Gilbird usò il becco per spingergli vicino uno dei rotoli di benda.

Germania lo guardò con occhi scettici. “Perché ne sei così sicuro?”

Prussia prese in mano il rotolo di garza spinto dal suo canarino e guardò Germania in viso, l’espressione buia e seria. “Perché il richiamo da nazione è sempre più forte del richiamo da essere umano,” disse. “Prima o poi, Romano si accorgerà che nemmeno lui sarebbe disposto a morire fisicamente per qualcun altro.” Posò un’estremità della garza sulla ferita e iniziò ad arrotolarla attorno al lacero appena ricucito e ancora sporco di tintura. “Si renderà conto che se vuole far sopravvivere quella parte di nazione che rappresenta, dovrà rinunciare a suo fratello, dato che ora stanno arrivando a simboleggiare due ideologie differenti. Se Romano dovesse mettersi contro Italia, per noi potrebbe rivelarsi un avversario fin troppo pericoloso, proprio per il legame che li accomuna.” Gilbird volò sulla sua spalla e fermò un punto sulla garza, tenendogliela ferma. Prussia la fissò, fece correre le dita tutt’attorno per assicurarsi che aderisse bene alla forma del muscolo senza staccarsi, e srotolò la manica della maglietta, coprendosi il bendaggio. “Dobbiamo finire la guerra prima che accada questo.” Tornò a sollevare lo sguardo su Germania, rivolgendogli un’espressione profonda, e gli parlò a voce bassa e ruvida. “Dobbiamo concluderla prima che Romano abbia la possibilità di mettersi contro di noi.”

Germania strinse forte i pugni contro i documenti, i suoi occhi sfilarono sulle scritte battute a macchina senza leggerne nessuna. Il suo sguardo e i suoi pensieri erano lontani, la mente aggredita dal dubbio, lo sguardo contratto dalla tensione. Si strinse di nuovo la fronte fra le dita e massaggiò le palpebre, cercando di alleviare la pressione che continuava a martellargli sul cranio.

Prussia balzò giù dal tavolo, passò vicino a Germania, Gilbird volò da una spalla all’altra e si mise appollaiato accanto alla guancia del padrone. “West.”

Germania gli rivolse lo sguardo di profilo, e Prussia gli strinse una mano sulla spalla. Lo scrutò a fondo, penetrando quei freddi e impassibili occhi azzurri. “Non perdere di vista l’obiettivo,” disse. “Ricorda perché lo stiamo facendo.”

Germania si indurì sotto il suo tocco, trattenne il respiro e gli mostrò lo stesso sguardo, specchiandosi nel rosso dei suoi occhi. “Cosa vuoi che faccia?”

Prussia gli sfilò la mano dalla spalla, incrociò le braccia al petto, sotto la croce di ferro. “Italia deve sapere come stanno le cose.” Lo sorpassò, dirigendosi verso l’uscita della camera, e si passò una mano fra i capelli, scostando la frangia dalla benda allacciata alla fronte. Parlò con tono più morbido. “Decidi tu come comportarti la prossima settimana.” Prese la porta e uscì, lasciando Germania da solo, in silenzio con i suoi pensieri che continuavano a frullargli in testa e che non smisero di dargli pace fino al giorno dell’incontro.

   
 
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