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Autore: Adeia Di Elferas    12/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano aveva la schiena madida di sudore e i suoi occhi saettavano senza sosta dalle due guardie che presidiavano la porta della stanza e il fratello Cesare, che, stringendo al petto il crocifisso, sciorinava una preghiera dopo l'altra, con una cantilena più simile al delirio di un pazzo che non alla litania di un prete.

Quando si sentirono dei passi frettolosi provenire dall'ingresso, i due Riario si avvicinarono l'uno all'altro e si prepararono a essere presi di peso e portati dalla madre.

Tuttavia, il soldato che era arrivato in casa di Paolo Denti non pareva troppo interessato ad avventarsi su di loro. Anzi, parlottò un momento con le due guardie, occhieggiando incredulo verso i due ragazzi e poi allargò le braccia, scuotendo il capo con visibile disappunto.

Allora i due che stavano sulla porta risposero con gesti simili e poi uno di loro si voltò verso Ottaviano e Cesare e annunciò: “A quanto pare vostra madre preferisce che restiate qui, per il momento. Non sembra intenzionata ad arrestarvi.”

E così dicendo, le due guardie si accodarono al soldato che era andato a riferire gli ordini e lasciarono la casa di Denti senza aggiungere altro.

Ottaviano si sentì mancare, tanto era il momentaneo sollievo dato da quella notizia. Si aggrappò a un mobile, le gambe malferme, e cercò di controllare il più possibile il respiro, che si era fatto affannoso.

Era certo che non sarebbe finita lì, che sua madre avrebbe trovato il modo di punirlo, magari stava ragionando proprio in quei minuti su come fargli patire almeno la metà del dolore che stava provando lei, ma almeno il Conte sapeva che non sarebbe morto prima di veder sorgere una nuova alba.

Cesare aveva reagito in modo più teatrale, gettandosi in ginocchio e ringraziando Dio a voce alta per la sua immensa misericordia, pregandolo di aiutare sua madre la Contessa in quelle ore di difficoltà.

Ottaviano, rinfrancato dalla consapevolezza che la sua vita non sarebbe finita quella notte, si ridiede in fretta un tono e, affacciandosi sulla porta, ordinò: “Denti! Denti! Portate a me e a mio fratello qualcosa da mangiare e del vino!”

 

Quando calò la notte i corpi di Don Domenico e Gian Antonio Ghetti vennero staccati dal gancio a cui erano rimasti appesi fino a quel momento e vennero portati al ponte dei Moratini.

Sotto gli ordini secchi di Mongardini, i due cadaveri vennero infilati su delle alabarde e sistemati con gran cura a lato del letto del Montone, lambiti dalle acque, ma non abbastanza addentro al fiume da poter essere trascinati via dalla corrente.

Il Capitano volle poi che le teste dei due morti venissero staccate dai rispettivi colli, e le fece sistemare su due picche, dando ordine che venissero esposte sulla Torre del Pubblico, affinché tutta Forlì potesse vederle.

Nel frattempo, in città continuavano le perquisizioni, le requisizioni e gli arresti. Tra i ricercati maggiori vi era anche Pietro Brocchi, che, a quanto pareva, aveva fornito le corde a Bernardino Ghetti permettendogli così di calarsi dalle mura della città senza rischiare la vita.

L'uomo, però, non si trovava da nessuna parte e così l'Auditore acconsentì alla richiesta dei soldati di metterne a sacco la casa.

Poi fu il turno di due nipoti di Giacomo Delle Selle che, quando vennero trovati nascosti in una dispensa, gridarono improperi tanto contro la Contessa quanto contro il Conte e così vennero subito portati alla rocca e buttati in mezzo agli altri prigionieri.

 

Tra le carte di Caglianello, castellano della rocchetta di Porta Schiavonia, erano state trovate parecchie lettere del Cardinale Sansoni Riario.

Malgrado si trattasse di corrispondenza ormai vecchia e apparentemente innocua, l'Auditore seguì pedissequamente gli ordini della Contessa, dando, però, il beneficio del dubbio all'accusato.

Gli intimò in via ufficiosa di accorrere alla presenza della Tigre alla rocca di Ravaldino, in modo da giustificare la presenza di certe missive nel suo archivio di corrispondenza.

La reazione di Caglianello, però, parve subito a tutti quanti un'ammissione di colpa.

In una Forlì che si stava apparecchiando, tra lacrime e arresti, per il funerale che si sarebbe tenuto nel tardo pomeriggio, il castellano di Porta Schiavonia mandò a dire alla Contessa che non avrebbe per nessun motivo lasciato la rocchetta, ma che anzi l'avrebbe protetta a costo della vita, pronto a consegnarla solo ed esclusivamente al Conte Ottaviano Riario, legittimo signore e padrone dello Stato.

L'Auditore, che conosceva personalmente Caglianello e non voleva crederlo colpevole di un simile atto di alto tradimento, provò ad ammorbidirlo a modo suo, con mezze promesse e parole sagaci.

“E va bene...” cedette alla fine il castellano, guardando l'amico di sottinsù come se non gli credesse fino in fondo: “Comparirò davanti alla Contessa, se è questo che devo fare, ma sia chiaro che la mia fedeltà va a suo figlio.”

“Come vuoi.” fece l'Auditore, indicandogli con un cenno del capo il portone della rocchetta, invitandolo a seguirlo fuori: “Avanti, la nostra signora di aspetta. Prima vi chiarite, meglio sarà. Il funerale sarà in serata, quindi dobbiamo sbrigarci.”

Caglianello stava per assecondare l'altro, ma poi ci ripensò e disse, con uno strano brillio negli occhi: “La Contessa è amica di mia moglie. Che parli prima con lei. Le donne si intendono meglio, tra loro. Sono certo che la mia consorte saprà spiegarsi meglio di me.”

L'Auditore fissò il castellano per un interminabile istante e alla fine concesse, seppur poco convinto: “E sia. Falla venire qui, l'accompagnerò io stesso.”

In un lampo, la moglie di Caglianello si presentò alla presenza dell'Auditore e questi ricordò al castellano: “Resta qui, in attesa. Appena la Contessa avrà parlato con la tua donna, vorrà vederti comunque, credo.”

Caglianello fece un mezzo inchinò e seguì con lo sguardo la moglie che si avviava con il suo accompagnatore verso il centro della città. Sentì un groppo in gola, sicuro che non l'avrebbe mai più rivista.

Appena l'Auditore e la donna – che, fidandosi ciecamente del marito, si stava avviando del tutto ignara verso il suo destino – furono abbastanza lontani, Caglianello chiamò il suo servo personale e gli abbaiò contro: “Prepara un bagaglio essenziale per me e per te e prendi due cavalli! Andiamo subito a Bologna! Non restiamo qui un secondo di più!”

 

L'Auditore aveva appena consegnato la moglie di Caglianello alle guardie di Ravaldino, specificando: “Non è una prigioniera, deve solo parlamentare con la Contessa.” quando un uomo lo raggiunse, stremato dalla corsa.

Si trattava di uno dei servi della rocchetta di Porta Schiavonia e i suoi occhi erano tanto spalancati che sembrava stesse per stramazzare al suolo per lo sforzo.

“Ho fatto più in fretta che ho potuto...” soffiò in affanno: “Il mio padrone...” cominciò, ma un colpo di tosse lo zittì per qualche istante.

“Il tuo padrone?” lo incalzò l'Auditore, spronandolo a parlare, malgrado gli accessi di tosse non diminuissero.

Il servo sputò in terra e poi riuscì a continuare: “Lui è appena scappato verso Bologna con il suo domestico personale... L'ho visto con questi occhi!”

“Maledetto codardo...” masticò tra sé l'Auditore che, a malincuore, dovette chiamare a sé un paio dei soldati della rocca, ordinando loro: “Corretegli dietro e portatelo qui.”

 

Caterina stava fissando in silenzio la moglie di Caglianello da qualche minuto, quando l'Auditore arrivò trafelato nello studiolo e le riferì quello che era capitato.

La Contessa strinse le labbra con malcelata irritazione e poi chiese: “Avete già mandato qualcuno a catturarlo?”

“Certo, mia signora.” confermò l'Auditore.

“Bene.” commentò la donna, sospirando: “Vostro marito è un vigliacco – disse, rivolgendosi alla moglie di Caglianello, che, intuendo quello che era accaduto, aveva iniziato a piangere sommessamente – ha mandato avanti voi per distrarmi e ha cercato la fuga. Pagherà molto caro questo affronto.”

La moglie del castellano di Porta Schiavonia stringeva i pugni lungo i fianchi e aveva le spalle scosse dai tremiti del pianto.

Caterina non sopportava più le lacrime. La sua apatia la rendeva insensibile al dolore dei prigionieri, ma non le permetteva di ignorare i loro lamenti che le risultavano, svuotati dal loro senso di smarrimento e panico, solo fastidiosi e senza utilità alcuna.

“Mettetela in cella. Presto suo marito le farà compagnia.” decretò la Contessa, indicando la donna che le stava davanti tanto terrorizzata da non riuscire nemmeno a chiedere clemenza: “Sempre che quel vile sopravviva all'arresto.” precisò.

L'Auditore uscì dalla studiolo e chiamò a sé un paio di armati. Riferì la decisione della Contessa e così i due presero per le braccia la prigioniera, che non riusciva neppure a divincolarsi, tanto era paralizzata dalla paura, e la portarono nelle carceri.

 

Caglianello si accorse subito di essere inseguito. Spronò con tutte le sue forze il suo cavallo e buttò giù di sella il suo misero bagaglio, per alleggerire il destriero.

Il suo servo arrancava pochi metri dietro di lui, continuando a guardarsi alle spalle e gridando a ogni colpo di zoccolo: “Sono in molti, mio signore! Ci sono vicini! Ci prenderanno!”

“Taci!” ululava di rimando il castellano: “Stai zitto!”

Ma le urla del servo si trasformarono presto da avvertimenti e a grida di dolore.

Allarmato da quella variazione, Caglianello girò la testa e vide il suo domestico cadere sotto i colpi feroci dei soldati della Contessa, che gli si erano avventati contro con tanta furia da smembrarlo prima ancora che fosse caduto di sella.

Sentendo il cuore colpire con violenza le coste, Caglianello batté ancor più forte i talloni contro i fianchi della sua bestia, ma, forse per il trambusto, forse per la fatica, l'animale inciampò in modo catastrofico nel mezzo del sentiero, spezzandosi una zampa.

Sotto al sole cocente del pomeriggio di quel finale d'agosto, Caglianello rovinò in terra, evitando per un soffio di venir schiacciato dal peso notevole del suo cavallo.

Le guardie della Contessa gli furono addosso prima che potesse accorgersene. Sperò quasi, nel profondo, che gli facessero fare la stessa fine che era toccata al suo servo.

Preferiva morire così, sul colpo, in mezzo alla via sassosa, con l'odore dei campi nel naso e il sole negli occhi, piuttosto che in una cella umida e buia dopo ore o giorni di inumane torture.

Le sue preghiere, però, non vennero ascoltate da nessun Dio e i soldati lo agguantarono, gli legarono le mani dietro la schiena e, lasciando il suo cavallo agonizzante in terra, lo presero e se lo caricarono in sella.

“La Contessa ti aspetta – lo sbeffeggiò uno, dandogli con malevolenza un inutile colpo sul fianco con l'elsa della spada – e credo che si divertirà molto con te, brutto traditore che non sei altro.”

 

Due sarti di Forlì erano stati reclutati in fretta e furia all'alba di quella mattina in modo che potessero confezionare entro sera un abito da lutto che fosse all'altezza della Contessa.

Avevano dovuto lavorare a marce forzate, basandosi su modelli di altri vestiti, data la mancanza di collaborazione da parte della loro signora, ma alla fine erano riusciti a cucire un vestito nero, ornato di pizzo e seta, degno della vedova di un imperatore.

Caterina era passata nella stanza in cui si erano messi all'opera i sarti solo a lavoro finito. Aveva osservato l'abito e ne aveva lodato a voce alta la rifinitura, anche se in realtà non aveva nemmeno notato la precisione degli orli, né la finezza dei tessuti.

Se non fosse stato per rispetto a Giacomo, che era sempre stato molto attento alle etichette del vestire, Caterina si sarebbe messa addosso il primo abito che le fosse capitato per le mani.

Ben lungi dal voler attirare gli sguardi della folla, come invece aveva fatto alla morte di Girolamo, mostrandosi in pubblico vincente e agghindata con colori sgargianti, quella volta alla Contessa bastava vedere che il vestito appena finito era nero, adatto al suo smisurato lutto.

E, cosa ancor più importante, notò con sollievo il pesante velo di pizzo che i sarti avevano abbinato alla loro composizione. Con quello in testa, nessuno avrebbe potuto guardarla in viso e quindi avrebbe anche potuto piangere o decidere di non farlo, senza dover badare troppo a quello che avrebbero pensato i suoi sudditi e gli stranieri che sarebbero accorsi alla cerimonia.

Prima che arrivasse la sera e con essa il momento delle esequie, a Caterina restava ancora una cosa molto importante da fare.

Aveva passato la giornata a seguire interrogatori inutili di prigionieri e complici dei congiurati e aveva dato una mano agli aguzzini nell'estorcere confessioni piene e spesso intrise di patetismo o di aperte minacce, ma non aveva trovato l'occasione di andare a parlare con sua figlia Bianca.

Sapeva solo che, dopo che era stata ritrovata dalla guardie, era stata vista dal medico di corte e poi si era ritirata in una delle stanze di solito usate per gli ospiti senza più uscirne.

Così, dopo essersi ripulita il viso da alcuni schizzi di sangue che testimoniavano la sua parte attiva nelle torture che si perpetravano nelle segrete della rocca, Caterina passò prima dalla camera in cui riposava sua madre e poi da quella in cui era stato temporaneamente recluso Tommaso. A entrambi parlò attraverso la porta chiusa, ricordando loro di prepararsi per il funerale, vestendosi in modo consono e presentandosi per tempo nel cortile, da dove sarebbero partiti assieme verso la chiesa.

Poi era passata dalle balie e aveva pregato le donne di sistemare come si doveva Bernardino. Se Sforzino, Galeazzo e Livio preferivano non presenziare, le stava bene, ma il figlio di Giacomo doveva stare al suo fianco, durante il funerale.

Dopo questo giro di raccomandazioni, la Contessa si trovò davanti alla porta della camera in cui si era ritirata Bianca. Sentiva dentro di sé la stanchezza ritornare prepotente e si chiese se fosse necessario prendere un po' della sua pozione, prima di incontrare la figlia.

Alla fine si risolse dicendosi che non era il caso. Voleva essere lucida, durante l'ultimo saluto alle spoglie mortali di suo marito. Sarebbe stata male, sarebbe stata un'azione spietata contro se stessa, ma sentiva che era la cosa giusta da fare.

Così, rinunciando al beneficio che le avrebbe dato l'oppio, raddrizzò le spalle e chiuse un momento gli occhi. Si passò la lingua sulle labbra secche e deglutì molte volte, prima di trovare il coraggio di entrare.

Lo fece senza bussare e trovò Bianca stesa su di un letto dalle lenzuola ancora perfettamente risvoltate, in abiti da camera, immobile, gli occhi fissi al soffitto.

Quando si accorse di sua madre, la ragazzina scattò in piedi, come se avesse visto il diavolo.

Caterina sentì il cuore sanguinare per quella reazione repentina e automatica. Tutti quanti la temevano e sembravano volerla tenere a distanza.

“Verrai anche tu al funerale?” chiese la Contessa, restando sulla porta, come a dimostrare di essere innocua.

Bianca, pallida e tesa, si aggrappò alla colonnina del letto e non disse nulla.

“Se preferisci restare alla rocca, è lo stesso.” fece Caterina, muovendo un passo indietro, quasi già decisa a rinunciare a trovare un punto di contatto con la figlia.

Quel retrocedere un po' avvilito diede la forza a Bianca per aprir bocca: “Se vi può far piacere, verrò.”

La Contessa annuì, lievemente rinfrancata dalla voce della ragazzina. Le due si guardarono per un po', entrambe desiderose di trovare una linea d'incontro, senza sapere come fare.

“Bianca...” la voce di Caterina le uscì dalla gola come un rantolo.

La figlia era certa di non averla mai vista tanto abbattuta. Era letteralmente distrutta. Il suo viso era sformato dal pianto e dall'orrore, le occhiaie che le appesantivano le palpebre erano tanto scure da rendere livido l'intero volto e i suoi occhi erano coperti dal velo silente della più profonda perdizione.

“Sì, madre?” chiese la giovane, accogliendo la difficoltosa richiesta di aiuto della donna.

“Voglio sapere una cosa.” riprese Caterina, temendo quello che le sue orecchie avrebbero sentito.

Per incoraggiarla, riscoprendosi più ardita di quel che si credeva, Bianca si avvicinò alla madre tanto da riuscire a sfiorarle con delicatezza un braccio con la punta delle dita: “Chiedete e risponderò.”

La Contessa sospirò a fondo, apprezzando più di quanto sapesse esprimere il tocco leggero della figlia: “Quanta parte hai avuto in tutto questo?”

Bianca sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, prima o poi. Aveva intenzione di essere del tutto sincera, perché già avrebbe dovuto convivere con la consapevolezza di aver portato moltissimi innocenti alla tomba con la sua tacita accondiscendenza, quindi non poteva sopportare di sapersi anche capace di mentire alla madre su un argomento tanto importante.

“Erano anni che Ottaviano diceva di voler fare qualcosa contro...” la voce di Bianca si ruppe, ma la ragazzina riuscì a continuare quasi subito: “Aveva convinto anche Cesare, facendogli credere che voi sareste anche arrivata a farci del male, pur di tenere messer Giacomo con voi. Volevano che anche io divenissi loro complice. Ottaviano voleva fargli del male solo per far soffrire voi, ma a me e a Cesare voleva far credere che uccidere messer Giacomo era l'unico modo per noi per restare al sicuro.”

Caterina scrutava le iridi dal colore sorprendente della figlia e si chiedeva come avesse fatto a tenere dentro di sé una cosa simile senza mai tradirsi nemmeno una volta. Perché non aveva mai trovato il modo o incontrato un attimo di debolezza, tanto da essere portata a confidarsi con lei su un segreto così grave?

“Io provavo rabbia, nei vostri confronti, madre.” confessò Bianca, gli occhi che iniziavano a farsi lucidi: “E verso messer Giacomo, perché non volevo accettare che per lui provaste l'amore che non avete mai provato per mio padre.”

Ogni parola di Bianca si stava rivelando un macigno per Caterina, che era sul punto di interrompere la figlia, che invece continuò imperterrita: “Così alla fine ho detto a mio fratello Ottaviano che potevano fargli quello che volevano, ma che io non ne volevo sapere nulla.”

“Ed è stato così? Eri all'oscuro di tutto?” chiese la Contessa, dilaniata dal dubbio.

Era il caso di credere a Bianca, oppure avrebbe mentito per paura di incappare nella sua vendetta?

Se per anni era riuscita a tenerle nascoste le intenzione di Ottaviano e Cesare senza mai destare i suoi sospetti, significava che sapeva come fare, sapeva mentire bene, dissimulare come una vera donna di potere. Saperla capace di una cosa così utile per una nobile era una ben magra consolazione per una madre.

“Sì, non ne sapevo nulla.” confermò Bianca: “Ma avevo intuito che stessero per fare qualcosa e non ve ne ho mai parlato.” si accusò spontaneamente.

Caterina aveva la bocca secca e la luce ormai quasi crepuscolare che entrava dal finestrino di quella stanza isolata le rendeva difficile perfino battere le ciglia senza cedere al pianto.

“Tornando da Cassirano, Ottaviano mi ha chiesto di far qualcosa per far sì che voi steste sul carretto assieme a me, ora capisco che è stato per isolare messer Giacomo, e io avevo intuito che fosse per qualche motivo del genere, ma ho comunque...” riprese Bianca, con la chiara intenzione di arrogarsi di nuovo qualche colpa, ma la madre lasciò che l'istinto prevalesse su tutto il resto.

Con uno slancio tanto repentino da far quasi spaventare la figlia, Caterina la strinse a sé con forza, in un abbraccio esasperato: “Basta, non dire più nulla, ti prego. Basta così. Non aggiungere altro, non lo voglio sapere. Non voglio che ne parliamo mai più.”

Bianca restò incredula dinnanzi al tono conciliante seppur affranto della madre, che pareva davvero intenzionata a perdonarla in un colpo per tutto quanto.

La ragazzina accolse il calore della madre e la sentì tremante e stremata tra le sue braccia, come un pulcino spelacchiato in fuga dalla tempesta, all'estrema ricerca di un posto dove andare a nascondersi.

Trovando solo nella figlia il barlume di una consolazione, Caterina si abbandonò per qualche istante alla confortante sensazione di tepore che l'abbraccio le stava dando, ma poi, quando sentì le campane suonare in lontananza, si rese conto che il tempo di affrontare di nuovo i suoi sudditi era giunto.

Passandosi il dorso della mano sulle labbra e sotto al naso, la Contessa si allontanò da Bianca e le disse, con la voce piccola piccola: “Se vuoi venire anche tu al funerale, è tempo che ti prepari.”

“Non ho un abito da lutto che mi stia, però...” fece Bianca, colta dall'improvvisa consapevolezza di avere un unico vestito nero, ormai troppo piccolo per le sue forme da adolescente.

“Indossa quel che preferisci. I miei sarti ti daranno uno scialle scuro, basterà.” disse Caterina.

“Allora verrò con voi in chiesa.” confermò a quel punto la ragazzina.

La madre la ringraziò con un sorriso fugace e poi se ne andò per prepararsi a sua volta.

Bianca, di nuovo sola, si dovette sedere sul letto. La scarica emotiva di quei pochi attimi l'aveva stremata. Era stata tanta la paura prima e la sorpresa poi da averla sconvolta.

Rimettendosi in piedi, la ragazzina decise di andare nelle sue stanze e indossare l'abito più semplice in suo possesso. Poi avrebbe messo lo scialle di cui aveva parlato sua madre. Non sarebbe stato un lutto completo, ma a quel punto chi avrebbe badato all'etichetta? Forlì era in balia di una mezza guerra civile, di certo l'abito indossato dalla figlia della vedova dell'assassinato non sarebbe stato l'esatto centro delle attenzioni dei forlivesi.

Forse, a mente più fredda, si disse Bianca, sua madre avrebbe cambiato idea e si sarebbe abbattuta su di lei come una scure sul condannato.

Non le importava più di tanto. Il momento che aveva condiviso con lei quando si erano abbracciate le aveva dato forse per la prima volta la sensazione di avere con sua madre un contatto diretto, una comprensione totale, capace di trascendere le parole e le convenzioni.

Se anche un giorno la Contessa avesse davvero deciso di punirla per tutte le sue colpe – e Bianca si sentiva in colpa come se lei stessa avesse martoriato le carni del povero Giacomo con pugnali e roncole – alla giovane sarebbe bastato sapere che, anche se per poco, era stata in grado di dare a sua madre l'appoggio di cui aveva bisogno, per misero che fosse.

Nel raggiungere la sua stanza, la ragazzina ripensò alle ore di angoscia vissute nell'attesa della visita di sua madre e si chiese cosa stessero vivendo in quel momento i suoi fratelli maggiori, Ottaviano e Cesare.

“Che Dio abbia pietà anche di loro...” sussurrò tra sé, mentre apriva la porta della sua camera.

 
   
 
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