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Autore: Adeia Di Elferas    14/03/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mangia qualcosa.” intimò Lucrezia, con freddezza, ma con una decisione che sottintendeva una sincera preoccupazione.

“Non è il momento di mangiare.” la zittì Caterina, ponendosi il velo sul viso.

Bianca, l'unica dei giovani Riario presenti alla rocca che aveva deciso di partecipare al funerale, osservava tesa la madre e la nonna, sperando con tutta sé stessa che nessuna delle due dicesse qualcosa di troppo secco, scatenando un litigio proprio in quel momento.

Per quanto loro stesse sembrassero non accorgersene, la ragazzina aveva sempre notato in loro caratteristiche molto simili e, in quel caso specifico, gli spigoli caratteriali che condividevano avrebbero potuto portarle ad accendere un fuoco proprio quando meno opportuno.

Lucrezia si morse le labbra, e riprovò: “Volerai per terra, se non mangi nulla. Nemmeno tu puoi andare avanti tanto, con lo stomaco vuoto.”

La Contessa sbuffò e non rispose nemmeno.

Stavano aspettando Tommaso Feo e il piccolo Bernardino, che stavano finendo di prepararsi, e poi sarebbero scese in cortile con gli altri.

A Caterina, che pure aveva voluto personalmente delle esequie tanto pompose, sembrava di partecipare a un teatrino inutile, ma sapeva che era fondamentale mostrare alla città l'entità del suo dolore anche a quel modo.

E poi Giacomo avrebbe voluto un funerale in grande stile, con intonazioni di inni sacri e la benedizione di un numero notevole di preti.

Ormai Caterina non poteva fare più nulla per lui, se non quello. Era una misera consolazione, ma era certa che, ovunque fosse il suo Giacomo – sempre che fosse davvero da qualche parte, fosse anche l'inferno – avrebbe accolto con gioia quella premura.

Lucrezia guardava nervosamente la figlia e si chiedeva davvero come stesse riuscendo a stare in piedi dopo così tante ore e così tante fatiche senza aver messo sotto i denti neppure un pezzetto di pane.

Finalmente, accolto da un sospiro di sollievo della giovane Bianca, arrivò dal fondo del corridoio il Governatore di Imola e la sua presenza spezzò per un istante la tensione creatasi tra Caterina e sua madre.

Tommaso non guardò la Contessa nemmeno per sbaglio. C'era qualcosa di diverso, nel suo atteggiamento, dovuto non solo al risentimento per lo scontro avuto con la sua signora nel momento in cui si erano rivisti il giorno addietro.

Caterina comprese molto bene, senza bisogno di spiegazioni, quale fosse il motivo dell'avversione palpabile del cognato.

Nelle ore di isolamento, Tommaso doveva aver ragionato molto su quello che era accaduto e su come la Contessa stesse reagendo alla morte di Giacomo. La conosceva abbastanza bene per comprendere come, oltre al dolore, ci fosse un profondo senso di colpa a guidarla.

La stessa Caterina aveva ammesso con sé stessa e davanti al corpo disfatto del marito che parte, anzi, la maggior parte della colpa fosse proprio sua. Stava a lei difenderlo da pericoli di quel tipo, e invece non c'era riuscita. Aveva sottovalutato segnali macroscopici e aveva negato perfino davanti all'evidenza e alla insistenti preoccupazioni mostrate da Giacomo nel corso degli anni.

Era colpa sua, in definitiva, se quel giorno i preti della chiesa di San Girolamo avrebbero deposto dietro a una lapide i resti dell'uomo che amava.

Così, aspettando le balie con Bernardino, Caterina interpretò ogni gesto spezzato e ogni sguardo di Tommaso rivolto al soffitto o al pavimento come modi per evitare di iniziare con lei una guerra, rinviabile, forse, ma comunque inevitabile, proprio il giorno del funerale del fratello.

“Eccoci...” disse piano una delle due balie che scortavano Bernardino, noto ormai a molto come Carlo.

Il piccolo, che avrebbe compiuto a novembre cinque anni, puntò i grandi occhi verso la madre velata di nero e parve averne parecchia paura.

Era spaventato da molte cose, in quei giorni. Era stato strappato senza spiegazioni dalle persone che lo stavano crescendo come figlio proprio. Gli era stato detto che suo padre – unico legame stabile che sentiva di avere con la sua vera famiglia – era morto e che a ucciderlo erano stati uomini che si reputavano amici. E ora veniva costretto a vestirsi come un bambino nobile e a stare in mezzo a un sacco di persone che non conosceva e che lo osservavano come se fosse stato una creatura mitologica.

“È lui, mio nipote?” chiese improvvisamente Tommaso, gli occhi infossati per l'insonnia puntati sul bambino.

Caterina si rese conto solo in quel momento che il cognato non aveva mai avuto alcuna interazione con Bernardino. Lui e la moglie se n'erano andati da Forlì quando il bambino non era ancora nato e poi, quando erano tornati per qualche tempo in città, il piccolo era già stato allontanato dalla rocca e quindi non c'era mai stato modo per Bernardino di incontrare suo zio.

“Sì.” rispose la Contessa, atona.

Il Governatore di Imola si chinò verso il nipotino, che ricambiò il suo sguardo interessato con un velo di timore. Nel vederli così vicini, Caterina si rese conto di quanto i loro tratti fossero simili.

Per parecchio tempo si era chiesta a chi assomigliasse Bernardino. Aveva molto di Giacomo, soprattutto nell'espressione del viso, ma crescendo aveva colori sempre più simili a lei. Però, ora che poteva fare un chiaro confronto con Tommaso, capiva bene come lo zio fosse tra tutti quello da cui il piccolo aveva preso di più. Avevano lo stesso taglio degli occhi, il medesimo naso e perfino la stessa attaccatura di capelli.

“Mi somiglia...” sussurrò il Governatore, probabilmente dopo un ragionamento simile a quello fatto in silenzio dalla Contessa.

“Lo spero.” commentò piano Caterina.

Tommaso si rimise dritto e le lanciò un'occhiata difficile da interpretare, ma non ci fu tempo di approfondire, giacché il castellano di Ravaldino, Cesare Feo, bardato a lutto, si era presentato al loro cospetto per dire che era tempo di scendere in cortile.

“Io non posso lasciare Ravaldino – disse l'uomo, al nipote Tommaso – quindi prega tu per il nostro povero Giacomo al mio posto, quando sarai davanti alla sua tomba.”

Il Governatore promise che avrebbe fatto così e, dando un colpetto burbero sulla spalla dello zio, gli raccomandò: “E tu tieni d'occhio la rocca, mentre siamo via.”

 

Pavagliotta ascoltava con attenzione Nicola Aldrovandi, che, pulendosi le dita sporche del grasso del pollo arrosto nella tovaglia, continuava a dire peste e corna della Contessa Sforza Riario e non solo di lei.

“Badate bene – riprese Nicola, dopo aver deglutito un grosso boccone di carne – io sarò anche parente coi Feo, ma non mi è mai andato giù il Barone.”

Il prete non riusciva a mangiare. Aveva riparato a Ravenna il giorno prima, rendendosi conto di non avere un posto dove andare e quando Aldrovandi, che lo aveva incontrato solo un paio di volte molti anni prima, lo aveva riconosciuto, in un primo momento era stato certo che lo avrebbe portato di persona al cospetto della Contessa.

Benché non si fosse ancora saputo di preciso che fosse accaduto a Forlì, Pavagliotta aveva pensato che l'uomo, parente acquisito dei Feo, fosse già stato informato della morte di Giacomo.

A quanto pare era davvero così, ma Aldrovandi aveva preso la notizia con uno spirito molto diverso da quello atteso dal prete.

Così il ravvenato lo aveva convinto a seguirlo in casa sua, gli aveva dato abiti puliti e lo aveva rifocillato.

Pareva, insomma, ben disposto ad aiutarlo e a proteggerlo: “Perché quella là, amico mio, lasciatemelo dire – erano state le prime parole di Nicola – se vi vede di nuovo nelle sue terre, sicuro che come minimo i fa giustiziare.”

Facendo intendere di non sapere quasi nulla dell'accaduto, se non, appunto, che Giacomo Feo era morto durante una strana imboscata, Aldrovandi fece in modo che Pavagliotta, quasi senza accorgersene, gli raccontasse tutto quanto, fin nei più piccoli dettagli.

Così mentre cenavano di buon'ora, quella sera Nicola insistette di nuovo: “E dunque era davvero il Conte Ottaviano, a capo di questa congiura?”

Pavagliotta, bevendo un sorso di vino, nella speranza che gli aprisse la gola a un po' di cibo, annuì e rispose: “Esatto. È stato il Conte a organizzare tutto quanto e a convincere la maggior parte dei congiurati a seguirlo in questo piano. È stato il Cardinale Sansoni Riario a mandare me e Don Domenico in aiuto del cugino, il Conte.”

“Comunque – riprese Nicola, guardando sconsolato il piatto vuoto dinnanzi a sé – Ravenna è troppo vicina alle terre di quella donna, per potervi ritenere al sicuro. Meglio spostarsi altrove, l'ideale sarebbe a Ferrara.”

Pavagliotta parve interessato e, rinunciando una volta per tutte a mangiare, allontanò un po' il petto di pollo ancora intatto da sé e disse: “Sì, Ferrara sarebbe abbastanza lontana e là non credo che qualcuno mi cercherebbe o mi riconoscerebbe. Però non ho con me denaro per il viaggio. E non saprei chi cercare, una volta giunto là...”

“Vi ci porto io.” fece subito Nicola: “Non c'è problema. Anzi, meglio anche per me andarmene a Ferrara. Dio solo sa che ha in mente quella Tigre...”

Il padrone di casa si alzò da tavola e, con un sorriso bonario e ottimista, concluse: “Dormite bene, stanotte. Domattina all'alba partiremo. Ora scusatemi, devo scrivere a un mio amico ferrarese, in modo che la lettera ci preceda. Ci ospiterà sicuramente volentieri e poi vedremo come fare.”

Pavagliotta ringraziò di cuore e provò a bere ancora un po' di vino, sentendosi improvvisamente molto più rilassato.

Nicola Aldrovandi restò con il suo miglior sorriso da buono stampato in faccia fino a che non fu al sicuro da solo nella sua stanza.

Solo allora, sedutosi alla scrivania, permise al suo volto rubizzo di assumere l'espressione iraconda e terribile che aveva dovuto reprimere fin dal primo momento in cui aveva incontrato Pavagliotta nel mezzo del mercato.

Prese con furia carta e inchiostro e scrisse, con tanta irruenza che la sua grafia, di norma molto bella, ne risentì tanto da divenire quasi illeggibile: 'Illustre Contessa Sforza, vi scrivo per annunciarvi che io medesimo ho presso la mia casa catturato senza farlo accorto Pavagliotta, il traditore. Domani mattina, d'ora buona, partiremo da Ravenna. Avendogli fatto credere che noi si vada a Ferrara, necessito imboccare quella strada, ma, vi prego, fate sì che vostri uomini si trovino in su la via per tempo, e lo avrete in rocca prima che possiate sperare. Fedelmente vostro alleato, Nicola Aldrovandi, vicino nel lutto per il nostro compianto congiunto.'


 

All'imbrunire, all'ora del vespro, dopo un segno dato dalle campane di tutte le chiese di Forlì, si riunirono nella piazza principale le confraternite religiose della città e tutti i parroci, finanche i canonici del Duomo, che mai avrebbero voluto essere tacciati per la seconda volta di insensibilità e mancata lealtà nei confronti della Contessa Sforza Riario.

Vi si aggiunsero i forestieri giunti in gran numero, grazie agli inviti spediti dalla rocca il giorno prima, e praticamente tutti i cittadini e i contadini delle terre vicine.

Si contavano ben trentatré croci, tra la folla, e una miriade di fiaccole, tenute alte da ogni partecipante alla veglia funebre.

Molti notabili di Forlì – quelli, per lo meno, che non erano stati né arrestati né accusati di alcunché in quelle ore – si recarono alla rocca assieme alle mogli, per accompagnare il corteo che sarebbe partito da Ravaldino.

Tra questi c'era anche Luffo Numai e fu tra loro l'unico a trovare il coraggio di avvicinarsi alla Contessa, quando la vide a capo della fila che si preparava a lasciare la rocca.

La donna era coperta da capo a piedi da un vestito nero di foggia finissima, ricamato e abbellito da preziosissimi pizzi. Il volto era celato da uno spesso velo da lutto, che rendeva impossibile vedere ciò che vi stava sotto.

Luffo allungò le mani e la Contessa lasciò che l'uomo le stringesse la sua, dicendo: “Non sapete quanto sono addolorato per il vostro lutto... È stata una cosa orribile, ancora non posso crederlo vero...”

Il Consigliere fu certo di sentire il tentativo di un ringraziamento uscire da sotto il pesante velo, ma nessuna parola intelligibile uscì dalle labbra della donna. Se Luffo avesse dovuto indovinare, avrebbe ipotizzato che la Tigre stesse piangendo.

Dopo qualche momento di scambio di saluti e condoglianze, soprattutto a Tommaso Feo, fratello dell'ucciso, si misero tutti in ordine per partire.

Il primo a uscire dalla rocca fu il Vicario del Vescovo, Paolo Dall'Aste, seguito a brevissima distanza da Bernardino Carlo Feo, impacciato nel suo abito nuovo, spalleggiato da due balie, con alle spalle la Contessa.

Dopo di loro si poteva vedere Giovanni Dipintore, Auditore di Sua Signoria, e poi tutti gli altri notabili che, sentendo la coscienza a posto, avevano ardito presentarsi a Ravaldino per seguire il corteo funebre.

Assieme alle donne dei nobili, spiccavano Bianca Riario e Lucrezia Landriani. Si tenevano sottobraccio, avanzando a fatica, entrambe piegate su loro stesse, penitenti quasi fossero parenti di sangue del povero defunto.

Appena dietro seguiva Tommaso Feo, i cui occhi scuri erano dritti all'orizzonte, apparentemente insensibili ai commenti curiosi di molti forlivesi che si chiedevano come mai sua moglie non fosse al suo fianco.

Infine c'erano ben dodici paggi, scelti per la loro particolare bellezza, vestiti a lutto, e altri tre, a chiudere, coperti d'oro e d'argento, in sella a purosangue splendidamente bardati. Di questi tre, il primo recava con sé la spada e gli speroni d'oro massiccio, il secondo aveva per le mani l'elmo e il terzo ostentava la corazza. Come prevedeva l'etichetta più stretta, quei tre figuri erano stati scelti per ricordare a tutti quanti che Giacomo Feo in vita era stato anche un cavaliere e un Capitano.

Appena passati per le prime vie della città, vennero seguiti da intere schiere di fanti, accorsi dal quartiere militare.

Non era stato deciso così, ma Caterina apprezzò più d'ogni altra cosa quella manifestazione di fedeltà che arrivava proprio dall'esercito.

I soldati si erano presentati in armatura completa, lucidi e impettiti come se fossero lì per rendere l'onore delle armi a un valoroso comandante e alla Contessa poco importava se lo facesseo solo in rispetto a lei e non a Giacomo. L'importante era che tutti quanti li vedessero e capissero che l'esercito l'avrebbe sempre appoggiata, a qualunque costo e in qualunque situazione.

Arrivato in piazza, il corteo si unì alla confraternite e ai religiosi che stavano in attesa davanti al palazzo dei Riario e tutti insieme, con passo cadenzato e in un silenzio surreale, andarono alla chiesa di San Girolamo.

Quando furono a poca distanza dal portale, dai ranghi militari si alzò un gran risuonare di tamburi da guerra e molti soldati iniziarono a battere le proprie armi contro gli scudi.

Rinfrancata da quel suono così familiare, che le riportava alla memoria tutte le volte in cui i militari non l'avevano abbandonata, Caterina seguì chi la precedeva fin dentro San Girolamo.

Le esequie furono solennissime e solo una piccola parte di forlivesi riuscì a entrare in chiesa, tanto era stato l'afflusso di fedeli.

Davanti all'altare stava il feretro di Giacomo che, come da precisa richiesta della Contessa, era già ben chiuso, celando al pubblico la vista vergognosa del corpo straziato del ventiquattrenne Barone di Francia.

Mentre il prete intonava uno degli ultimi canti, seguito da un coro di voci bianche, Lucrezia, che stava al fianco della figlia, provò ad allungare una mano verso di lei, per darle conforto.

Caterina, però, si scansò, impercettibilmente, ma abbastanza repentinamente da far capire alla madre che quel gesto non era ben accetto.

Incassando il rifiuto senza fare nemmeno una piega, Lucrezia giunse le mani sul petto e chiuse gli occhi, facendo capire che si era messa a pregare.

Bianca, in piedi all'altro fianco di Caterina, aveva notato quella scena e così non provò nemmeno a sfiorare la madre, per quanto fosse certa che la Contessa avesse bisogno come non mai di qualcuno che la rassicurasse.

Malgrado il suo viso fosse coperto dallo spesso velo nero che i sarti avevano ben pensato di confezionare apposta per l'occasione, era palese, per Bianca, quello che stesse attraversando la mente della madre in quel momento.

La rabbia e il dolore, nell'ovattata e surreale quiete della chiesa colmata dai canti diafani dei religiosi, erano stati accantonati per un attimo, ma così facendo nella testa di Caterina era rimasto abbastanza spazio per far entrare un sentimento ancora peggiore: la paura.

Finito il funerale, fra Ludovico da Forlì, responsabile del convento dipendente da San Girolamo, salì in pergamo e recitò un'incantevole orazione funebre in onore di Giacomo Feo, di cui, però, Caterina non sentì nemmeno una parola.

La tumulazione di Giacomo Feo avvenne sotto gli occhi di molti, ma altrettanti si erano già riversati fuori dalla chiesa, per lo più con la scusa di dare un momento di privatezza ai parenti presenti e alla Contessa.

Mentre i frati adempivano all'ingrato compito di posizionare la bara nel loculo prescelto all'interno della cappella privata dei Feo, Caterina si fece vicina a Tommaso e attirò la sua attenzione con un lieve tocco della mano.

Il Governatore, che teneva le braccia rigide lungo il corpo, coi pugni chiusi per trattenere il dolore e la furia che gli si erano riaccesi nel vedere il feretro del fratello adagiato in un buco ricavato nel muro, voltò appena il viso verso di lei, come a permetterle di parlare.

Coperta dalle lacrime – non tutte sincere – delle mogli dei nobili di Forlì che stavano alle loro spalle, Caterina sussurrò: “Appena torneremo alla rocca, ordinate una riunione generale del Consiglio degli Anziani e di quello cittadino per domani mattina.”

Tommaso strinse il morso, rimettendosi a guardare i frati che, intonando canti in latino, cominciavano a chiudere il loculo, e si domandò come potesse la Contessa pensare a certe cose mentre l'uomo che aveva sempre sostenuto di amare veniva chiuso tra quattro tralci di muro.

Sulla via del ritorno alla rocca, Caterina rimase in disparte. Non voleva parlare con nessuno e, da come Tommaso aveva reagito al suo ordine, temeva di essere fraintesa, se avesse osato condividere le sue osservazioni con qualcuno.

Se era vero che fino alla fine del funerale non era riuscita a fare altro che a provare paura per quello che l'aspettava, soprattutto per la consapevolezza della solitudine infinita che l'attendeva, dopo l'ultimo discorso di fra Ludovico, la Contessa aveva sentito rinascere in sé l'antico spirito di autodifesa che l'aveva sempre accompagnata e i suoi occhi, da dieto il pesante velo di pizzo, avevano indagato su tutti i presenti.

Non c'era nessun rappresentate di Faenza, città che, se non altro per vicinanza, aveva di certo ricevuto per tempo l'invito al funerale. Niccolò Castagnino, in quanto tutore di Astorre Manfredi, avrebbe dovuto mandare come minimo un drappello di rappresentati a presenziare alle esequie.

Aveva anche notato la totale assenza dei Marcobelli. E come poteva essere altrimenti? Si stavano ancora nascondendo in città, ne era certa, e non vedeva l'ora di averli sotto le sue grinfie.

Nella sua mente aveva registrato i volti di tutti i presenti e aveva cercato di studiarli tutti quanti, in modo da capire chi potesse avere qualcosa da nascondere, per quanto fosse pressoché impossibile capirlo a quel modo.

Quando il corteo, ormai mezzo disfatto, era quasi alla rocca, Caterina vide Luffo Numai parlare con un uomo vestito da viaggio. Il Consigliere annuì più volte e poi, con le sue gambette un po' storte, corse verso la Contessa, portando in mano una lettera.

“Il messo dice di venire da Ravenna, che ha corso come un pazzo per arrivar presto e che è questione di massima urgenza.” spiegò Numai.

Caterina si tolse dal viso il velo, per vedere meglio e prese il messaggio, spezzò la cera e lesse in fretta le parole vergate con rabbia da Nicola Aldrovandi.

Con un moto di trionfo nel pensare che anche quell'assassino avrebbe presto trovato la sua fine, chiamò a sé Mongardini, che stava alla testa di un manipolo di guardie che avevano partecipato alle esequie e gli ordinò, in fretta, porgendogli la lettera: “Partite subito, o mandate qualche soldato di cui vi fidate. Che arrivino sulla strada che da Ravenna porta a Ferrara prima che sorga l'alba di domani. Voglio che mi portino Pavagliotta vivo, siamo intesi? Devo interrogarlo, prima che venga giustiziato. Deve essere vivo e cosciente, chiaro?”

Lucrezia Landriani, abbastanza vicina da sentire lo scambio di battute, riservò alla figlia uno sguardo severo e scosse leggermente il capo, contrariata.

Caterina si lasciò ricadere il velo sul volto e disse, rivolta alla madre: “Se non ti sta bene il modo in cui difendo me stessa, la memoria di mio marito e il mio Stato, allora puoi anche tornatene subito a Imola. Qui nessuno ha bisogno di te.”

Ma, come a smentire subito le parole avvelenate della Contessa, il piccolo Bernardino, scappato chissà perché dalle balie che lo tenevano con loro, corse da Lucrezia e tese le piccole mani affinché la donna lo prendesse in braccio.

La donna non disattese le aspettative del bambino e lo sollevò da terra, riempiendogli le guance di baci, mentre Bernardino puntava le iridi della stessa sfumatura di verde di quelle della Contessa sulla madre. Caterina vi lesse le sue medesime paure e tanto le bastò per sentire il bisogno di fuggire ancora una volta da se stessa.

Accelerò il passo e attraversò il ponte levatoio di Ravaldino prima di tutti gli altri, per andare poi a ritirarsi nella sua spelonca da strega, lasciando detto ai servi che non avrebbe mangiato nulla nemmeno quella sera.

 
   
 
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