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Autore: Kim WinterNight    16/03/2017    3 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Welcome to the Skye Sun Hotel!

[Shavo]




Leah era una ragazza niente male. Non potevo certo definirla di una bellezza abbagliante, però era particolare: presentava dei lineamenti marcati, un viso spigoloso e grandi occhi scuri. I capelli corti e sottili le ricadevano disordinati sul capo e sfioravano appena le spalle; di corporatura era esile, non mostrava chissà quali forme, ma sfoggiava un look semplice e dalle tonalità scure, nonché un atteggiamento fiero e sicuro di sé che la rendeva intrigante.

O almeno, quelle furono le mie prime impressioni quando la conobbi. Si era subito offerta, notando che stavo male, ed ero certo di non aver fatto una buona impressione su di lei. Mi ero seduto sul divanetto della hall che ancora tremavo, sudavo freddo e mi sentivo tremendamente spossato.

Daron e John entrarono nell'albergo poco dopo che Leah si fu allontanata, preceduti dal tassista e dal nervoso receptionist che ci aveva accolto.

Il batterista si guardò intorno e mi individuò, quindi mi raggiunse.

«Ti senti bene?» mi domandò con le sopracciglia aggrottate.

«Di merda» bofonchiai. Avevo come l'impressione che tutto, intorno a me, stesse volteggiando.

John stava per dire qualcosa, ma proprio allora Leah si ripresentò di fronte a me con una bottiglia d'acqua da due litri.

«Ecco a te, Shavo... giusto? Che razza di nome è mai questo?» blaterò, allungandomi la bottiglia.

«Sì, giusto. È un nome armeno, ma Shavo è la forma contratta» spiegai distrattamente, per poi tracannare diversi sorsi d'acqua. Era fresca e dissetante, mi fece sentire subito meglio.

«La forma contratta di cosa?» indagò la ragazza con curiosità, accovacciandosi nuovamente di fronte a me.

Lanciai un'occhiata perplessa a John e lui sollevò le mani in segno di resa, per poi allontanarsi e raggiungere Daron al banco della reception.

«Shavarsh» risposi infine, bevendo ancora qualche sorso.

«Capisco. Da quelle parti avete tutti quanti dei nomi così... singolari?» mi interrogò visibilmente divertita.

«Non ti piace?»

Si strinse nelle spalle. «Non saprei se mi piace o non mi piace. So solo che non lo avevo mai sentito. A Las Vegas la gente si chiama Jim o Tom, forse John... e Nathan, Patrick, Samuel...»

Sollevai una mano per fermarla. «Okay, messaggio ricevuto. E comunque, il mio amico si chiama John, ed è armeno pure lui» le feci notare poi.

«Oddio, adesso mi vuoi dire che tutti e tre provenite da quel posto? Gesù, che ci fate in Giamaica?»

Sorrisi mestamente. «Abitiamo a Los Angeles.»

Leah roteò gli occhi al cielo. «Ripeto: che ci fate in Giamaica?»

«Siamo qui in vacanza, e tu? Dal Nevada ai Caraibi, mica male» osservai, per poi alzarmi dal divano con la bottiglia in mano. La superavo di almeno dieci o quindici centimetri, così dovetti chinare leggermente il capo per poter studiare la sua espressione.

«La mia storia è molto lunga e intricata» rispose evasiva.

«Fammi un riassunto» insistetti, esibendomi in un sorriso sornione.

«Ti basti sapere che il mio genitore di sesso maschile mi trascina qui ogni volta che ha due giorni di ferie» disse infine.

Annuii. «Fantastico. Ma quanti anni hai? Ancora te ne vai in vacanza con il tuo paparino?» ammiccai.

«Non si chiede l'età alle signore. Ti saluto, Shavarsh, è stato un piacere. Ci si vede in giro» concluse, poi mi diede le spalle e si diresse verso l'uscita.

«Leah!» le gridò dietro il receptionist. «Dove vai?»

Lei gli rivolse soltanto un cenno con la mano e uscì dall'albergo.

Leggermente confuso e spiazzato, raggiunsi i miei amici vicino al banco della reception.

«Si sente bene?» si preoccupò subito il ragazzo che ci aveva accolto.

Gli mostrai la bottiglia d'acqua piena per metà. «Quest'acqua è stata miracolosa» scherzai.

«Mi dispiace di averla lasciata nelle mani di quella ragazza... lei non lavora qui, sa. È una cliente abituale, considera questo posto come casa sua e spesso si impiccia in cose che...» prese a giustificarsi lui.

«Con me è stata gentilissima. Nessun problema» lo interruppi.

«Bene.» Il tizio ci guardò a uno a uno.

«Be'? Ci accompagna lei alle nostre stanze o dobbiamo chiedere alla sua amica impicciona?» sbottò Daron all'improvviso, utilizzando un tono piuttosto indisponente e acido.

Il receptionist sussultò e io dovetti sforzarmi in maniera disumana per non scoppiare a ridere. «Daron, su, sii gentile» finsi di rimproverarlo.

«Col cazzo.»

«Oh, be'... seguitemi, prego» farfugliò il ragazzo, facendosi goffamente carico di alcuni dei nostri bagagli.

Daron sbuffò e afferrò qualche altra borsa, così anche io e John lo imitammo.

«Possibile che in questo albergo ci sia solo tu, ragazzino?» domandò bruscamente il chitarrista, mostrandosi profondamente irritato. In realtà se la stava spassando alla grande, lanciava a me e John occhiate complici e si tratteneva a sua volta per non ridere.

L'altro trasalì e premette in fretta e furia il pulsante di chiamata dell'ascensore. «Il fatto è che il signor Samuel Skye è in città per alcuni affari, lo stagista è in infortunio e io...»

«Molto interessante, ma ti rendi conto che noi dobbiamo portarci dietro i bagagli da soli?» sbraitò Daron.

«Ve li avrei recapitati io più tardi, avrei fatto un secondo viaggio, non...»

«Lasciamo perdere» tagliò corto il mio amico, rinchiudendosi in un silenzio carico di risentimento.

Forse quella sua tendenza a darsi un atteggiamento antipatico e piuttosto snob poteva sembrare fuori luogo e spesso gli avevo detto di non esagerare, però era troppo divertente notare quanto le persone rimanessero disarmate e disorientate da quel suo modo di comportarsi.

Non appena l'ascensore panoramico prese a salire verso il terzo piano, guardai fuori dal vetro e mi soffermai sul paesaggio all'esterno: il sole del tardo pomeriggio tingeva di arancione l'acqua calma della baia, la quale riluceva di mille riflessi multicolore. La spiaggia, sulla destra della scogliera, sembrava cosparsa d'oro fuso e una leggera brezza agitava le poche palme presenti lungo la costa.

Rimasi a bocca aperta. Le foto che avevo visto su internet non rendevano assolutamente giustizia a quel luogo magico e suggestivo.

Poco dopo uscimmo dall'ascensore e il ragazzo ci guidò lungo un corridoio ampio. Così come le pareti esterne della palazzina erano dipinte di bordeaux, anche quelle interne riportavano la stessa tonalità, così come le mattonelle che ricoprivano il pavimento: era tutta una lucida e infinita scacchiera che alternava il bianco alla più cupa sfumatura di rosso.

«Questa è la stanza numero 22, la doppia» annunciò il nostro accompagnatore.

Mi feci subito avanti e gli sfilai di mano le chiavi. «Grazie. John, hai tu la mia valigia.»

Il batterista annuì e mi si accostò.

«Prego, mi segua. La sua stanza è più in fondo.» Il receptionist si era rivolto a Daron con timore.

Lui non replicò e si limitò ad andargli dietro.

«Andiamo» sospirò il batterista, e io infilai la chiave nella serratura.


Io e John non avevamo avuto alcun problema a dividerci una stanza, ma Daron era molto diverso da noi. A parte il fatto che era disordinato in una maniera impressionante, diceva sempre di aver bisogno dei suoi spazi. Aveva una personalità particolare, il chitarrista, ed era spesso difficile capire cosa gli passasse per la testa.

Se nel gruppo c'era qualcuno che si poteva definire estremamente chiuso e riservato, be', quello era senz'altro Daron, anche se nessuno avrebbe immaginato che lui fosse così; i fan e seguaci della band, infatti, lo conoscevano come il più pazzo, il più scatenato e il più fuori di testa della formazione. Sul palco ne combinava davvero di tutti i colori, ma nella vita privata era estremamente diverso, ed erano davvero poche le cose in grado di scatenare il suo entusiasmo.

«Sei pensieroso, bassista?» mi domandò John, riportandomi bruscamente alla realtà. Era appena uscito dalla doccia e stava frugando dentro la valigia alla ricerca dell'outfit perfetto. Poi, stanco di tutto il disordine che regnava sul suo letto, cominciò a disfare i bagagli e a sistemare ordinatamente tutti i vestiti dentro l'armadio, senza neanche preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso.

«Stavo ripensando al modo gentile e carino con cui Daron si è rivolto al povero receptionist» sorrisi. «Ma tu sei patologico, Johnny! Che diamine fai? Non ti vesti?»

«C'è troppo disordine, non trovo i miei vestiti» si giustificò, continuando a portare fuori diversi abiti dalla valigia.

«Ripeto: sei patologico» conclusi, lanciando un'occhiata fiera al mio bagaglio abbandonato ai piedi del letto, sul pavimento. John era l'opposto di Daron sotto diversi punti di vista: era fin troppo ordinato e meticoloso, colpa forse della precisione con cui sapeva di dover suonare il suo strumento. Tutto doveva essere al suo posto, seguire un ordine logico e preciso, così come ogni formula matematica che si rispetti.

Dal canto mio, mi sentivo semplicemente tra due fuochi, ma tendevo a conciliare maggiormente con il batterista; era silenzioso, ma sapeva sempre quando era il momento di dire la sua. Quando parlava, non era mai per caso; era intelligente e colto, io un po' lo invidiavo per la voracità con cui divorava un'enorme quantità di libri. Era sicuramente un esempio da seguire e, cosa molto importante, non era invadente o sfacciato.

«Ora va meglio.» John pareva soddisfatto mentre osservava il suo operato: aveva impilato con minuzia i suoi vestiti sui ripiani dell'armadio e si era preso la libertà di occuparli tutti, perché sapeva che io non avrei sfruttato quello spazio. Mi conosceva fin troppo bene. A quel punto, afferrò un paio di jeans neri e una camicia dello stesso colore e se li infilò, poi indossò anche gli anfibi e mi lanciò un'occhiata.

«Sei pronto?» gli chiesi.

«Sì, possiamo andare. Ho fame» replicò, avviandosi verso la porta.

Io rabbrividii. Non avevo alcuna intenzione di buttare giù qualcosa, ero ancora un po' scombussolato dal viaggio in aereo. Però avrei comunque accompagnato i miei amici a cena, forse avrei preso qualcosa di leggero, giusto per non farli preoccupare.

Seguii John fino alla camera di Daron. Rimanemmo in attesa per un minuto, poi il chitarrista venne ad aprirci. Stava in equilibrio precario sul piede destro, mentre tentava di infilare l'altro nei pantaloni della tuta. Aveva ancora i capelli fradici e dentro la stanza regnava un caos apocalittico. John si astenne dal commentare quello scempio, ma non poté evitare di sospirare.

«Sei ancora così?! Ti dai una mossa?» esordii.

Daron fece spallucce. «Ehi, abbiamo gli sbirri alle costole?»

«Sei assurdo.» Alzai gli occhi al cielo. «Sbrigati, John ha fame!» lo incitai.

«Sì, sì...» Daron rientrò, lasciando la porta spalancata. Pescò una maglietta a caso dalla valigia e se la infilò, poi afferrò la felpa abbinata ai pantaloni e mise su anche quella. Inforcò i suoi fidati Ray-Ban dalle lenti scure e ci raggiunse in corridoio, tirandosi dietro la porta.

Solo allora mi resi conto che ai piedi portava un paio di infradito rosse.

Scoppiai a ridere. «Quelle dove le hai prese? Cristo, sono orribili!» commentai, avviandomi insieme ai ragazzi verso l'ascensore.

«Siamo in vacanza o no? Vuoi che vada in giro conciato come John?»

«Cosa c'è che non va in John?» gli chiesi.

«Siamo in Giamaica, cazzo, e lui va in giro con gli anfibi!» strillò, e la sua voce acuta rimbombò per tutto il corridoio.

«E allora?» insistetti.

«E allora io vado in giro con le infradito rosse. Sono stilosissime» concluse il chitarrista con aria soddisfatta.

John premette il tasto per chiamare l'ascensore. Quando le porte si aprirono, notai una figura all'interno.

Leah sgusciò svelta in corridoio, riuscendo a passare tra me e Daron.

«Guarda un po' chi si rivede» la apostrofai con un sorriso conciliante.

«Ciao, Shavarsh.»

Daron sghignazzò e squadrò la ragazza da capo a piedi, poi annuì e sollevò il pollice. «Carina la tua amica impicciona» commentò poi, dando di gomito a John.

«Malakian, ti giuro che...»

«Tu, nanerottolo, non sei per niente carino. Quelle infradito sono disdicevoli!» ribatté Leah senza scomporsi. «Be', è stato un piacere. Ci vediamo in giro» aggiunse, poi girò sui tacchi e si avviò lungo il corridoio.

Una volta all'interno dell'ascensore, Daron parve riprendersi all'improvviso e piagnucolò: «Perché ce l'avete tutti con le mie deliziose scarpette? Non sono disdicevoli!».

John, che lo stava fissando sbalordito, spostò l'attenzione su di me e diede voce alla domanda che gli ronzava in testa da un po': «Com'è che ti ha chiamato Shavarsh?».

Feci un gesto noncurante con la mano. «Lascia perdere» sibilai.

Leah, in fondo, sembrava interessante. Se era riuscita a zittire Daron in men che non si dica, doveva possedere un carattere bello tosto.

La vacanza si faceva intrigante.

  
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