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Autore: Francine    16/03/2017    2 recensioni
Spagna, Febbraio 1979.
In un paese che si sta risvegliando dalla dittatura franchista, un giovane Shura si rifugia alle pendici dei Pirenei - lì dove è diventato Santo di Athena e dove inizia il Cammino di Santiago - per ritrovare se stesso e placare la mente dagli incubi e dai dubbi che lo tormentano dalla Notte degli Inganni.
Ma esiste davvero un angolo di pace per colui che ospita Excalibur nel proprio braccio?
Pre Episode G
Prima pubblicazione: 12.01.2006
Versione riveduta e corretta.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Capricorn Shura
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scripta Manent'
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Il Mausoleo degli Amanti
 

 
Noi cammineremo insieme, la mano nella mano, anche nel regno delle ombre.
Thomas Mann
 




Il groviglio di rovi sembra riposare attorno alla sagoma del Mausoleo. Sembra. Il ramo che ha attaccato il Capricorno osserva curioso la finestra attraverso la quale è sparito quel moscerino dorato. Visto dall’alto, assomiglia ad un gatto che piantona la buca in cui si è nascosto il topo, pensa Ruy mentre segue i movimenti del ramo spinoso attraverso le fessure degli scuri della stanza di Montserrat. 
Il ramo bussa contro il legno. Deve uscire da quella casa prima che l’arbusto decida di sfondare imposte e vetri ed intrufolarsi in cucina. Gli ha concesso quasi un’ora di tregua, passata a rimarginare i rami tranciati dalla Sacra Spada. O, più probabilmente, ad elaborare una strategia. I movimenti del roseto hanno un che di animalesco e istintuale, come se fosse una bestia in caccia, uno di quei mostri tentacolari che popolano i romanzi di Lovecraft.
Deve uscire da lì. E subito. È rischioso, ma ha un piano: attaccare il mostro dall’alto, sviando così la sua attenzione dall’appartamento della famiglia di Cristobal. Forse è l’unica cosa da fare per godere dell’effetto sorpresa. Di sicuro il roveto si aspetta che apra una delle tre finestre che si affacciano sul Calle Estéban ed esca da lì. A quel punto, la pianta tenterebbe di caricarlo con un ramo, provando a ghermirlo e ad aprirsi un passaggio all’interno della casa. Ed è una cortesia che non può farle.

Non concederle alcun quartiere, si ripete facendosi spiegare da Cristobal come raggiungere il tetto e come aprire il lucernaio.
«Chiudi bene tutto e stai lontano da porte e finestre! E tieni al sicuro tua nonna e tua sorella.»
«E se le portassi vicino alla porta di casa?»
«Assolutamente no!», lo fulmina con gli occhi. «Potrebbe decidere di attaccarvi su due fronti, passando per il portone del palazzo e sfondando la porta d’ingresso! Fai come ti dico e… tieni, prendi questa!» gli passa un’accetta scovata in un armadio all’ingresso.
Cristobal fissa il proprio riflesso sulla lama un po’ arrugginita.
«Usala solo se quel coso ti dovesse attaccare e io non riuscissi ad arrivare subito.»
«Aspetto due minuti?»
«Due minuti un corno! Tu chiamami, urla Ruy!!, capito?, a pieni polmoni e se non arrivo subito…», calca la voce sull’ultima parola, «devi difenderti con questa!».
Cristobal sente le mani stringersi attorno al manico dell’accetta sotto le dita dello strano ragazzo che gli è piombato in cucina.
«Sono stato chiaro?» Cristobal annuisce «Perfetto, io vado allora! A dopo!», e scivola via oltre la porta di casa che il bambino richiude. A doppia mandata.

Sale le scale di corsa, i gradini di marmo bianco sfiorati dai suoi passi veloci che sollevano un sottile strato di polvere.
La porta del solaio si apre sotto un paio di fendenti ben assestati; sfonda il legno verde ed entra in una stanza con il soffitto spiovente e delle vasche per lavare i panni. I fili a cui appendere il bucato sostengono delle lenzuola stese ad asciugare da qualche giorno, mentre un rubinetto goccia in una fontana di pietra allineata con le consorelle lungo la parete sud dell’edificio.
Trova il lucernaio con la chiusura difettosa sopra la terza fontana a destra, come gli ha spiegato Cristobal. Solleva la finestra dai cardini e l’appoggia a terra, lontano dalle altre. Il vento freddo gli bacia la pelle e s’insinua fin sotto l’armatura. Il Sole sta tramontando e fra poco scenderà la notte.
Ecco, si sporge dalla fessura e fissa i tetti di Teruel al crepuscolo, le torri mudejar che svettano contro il cielo violaceo. Tenendosi ben saldo, esce fuori e risale sul tetto dalle tegole ocra, strisciando per non farsi vedere dal roseto. La pianta, che nei due minuti in cui è salito sul tetto è rimasta a fissare la finestra della cucina, sembra non essersi accorta di nulla.
Il roseto ha sfondato tutte le finestre del Mausoleo costruendo delle complesse inferriate vegetali che proteggono il sonno dei due Amanti.
Mi spiace rompervi le uova nel paniere, ma ho un ordine di Athena. E delle persone da portare in ospedale, pensa spiccando un salto in alto nel cielo e sguainando Excalibur.

Il primo affondo penetra nel morbido della pianta.
La Sacra Lama trancia un tratto consistente del ramo principale quello che stava ispezionando con curiosità le finestre di Calle Esteban, ramo che si accascia al suolo contorcendosi e schizzando clorofilla verde scuro sui palazzi e sul selciato, come una testa decapitata che irrora di sangue il corpo decollato. Gli altri rami tentano invano di avvolgere la figura, l’ombra dorata che li sta massacrando senza posa.
Destra, sinistra, in alto, in basso.
Stoccata di prima, seconda, ottava.
Shura taglia lo spazio davanti a sé seguendo delle linee rette che si intersecano tra loro. Spazio in ascissa e tempo in ordinata, come gli ha inculcato Javier durante l’addestramento. 
Colpire prima che il nemico se ne possa rendere conto.
Finta, affondo, botta dritta, flèche.
Non dargli requie, non concedergli quartiere.
Fouet. Finta. Affondo.
Non tirare le cose per le lunghe: ci si stanca e si fornisce al nemico del tempo prezioso, tempo in cui lui può riorganizzarsi.
Botta secca. Finta. Fendente di seconda.
Precisione e rapidità. Come gli stambecchi. Saltano sulle rocce aguzze atterrando precisamente, nel punto in cui i loro occhi attenti hanno scovato un luogo ideale per i loro zoccoli. Non esiste un luogo inaccessibile agli stambecchi. Saltano, dando poderosi slanci con le zampe robuste e muscolose, vincendo con la potenza la forza di gravità che li ancora al terreno.
La vera forza di Shura non è nel braccio affilato, ma nelle gambe con cui compie dei balzi che hanno del prodigioso. E tagliano anch’esse. Javier gli ha insegnato a troncare la materia in due prima con le gambe e poi, solo all’ultimo, con le mani. Mani che adesso hanno tagliato buona parte del rovo che si è steso sulla cappella. È quasi fatta, pensa Shura quando vede i rami vibrare e poi strisciare all’indietro, cercando scampo dentro la costruzione.
«Merda!» impreca tagliando ancora qualche pezzo di rovo che cade al suolo contorcendosi: non può permettere alla pianta di riorganizzarsi, sarebbe la fine. Insegue il nemico che s’insinua dietro il portone rinforzato, lasciato socchiuso come se lo stesse invitando ad entrare.
È come tuffarsi nella bocca spalancata del lupo, si dice Shura mordendosi il labbro inferiore prima di scoccare uno sguardo alle finestre di Cristobal. Avviene tutto in un lampo: un ramo, sottile ed irto di spine, gli si avvolge attorno alle caviglie, gliele serra e lo strattona all’interno, mentre la porta pesante si chiude con un tonfo che echeggia per le calli del Borgo Vecchio.


Hernán e Gregorio si fissano l’un l’altro non appena sentono il ton di bronzo portato dal vento che soffia per le strade deserte.
«Che cosa pensi sia successo?», chiede Hernán all’altro, che ha preso a lisciarsi il barbone da frate cappuccino con maggior frequenza e minor cura.
«Ma cosa vuoi sia successo?», domanda a sua volta Gregorio dando aria alle corde vocali. «Qualcuno ha chiuso un portone. Probabilmente, il nobile Shura ne avrà trovato uno aperto ed ha pensato fosse il caso di accostarlo.»
Hernán decide di lasciar perdere quel dialogo tra pazzi e si rivolge al pupazzo in grigio-verde che ha più galloni sul petto. «Mi scusi, avete sgombrato tutto il borgo? Casa per casa?», chiede timidamente l’uomo di Ibiza all’ufficiale che lo fissa con disprezzo e alterigia.
«Lei lo sa chi sono io? Io sono Esteban Pérez García, comandante del 4° Battaglione Stella delle Asturie di stanza presso…», e il militare continua a sciorinare tutte le sue cariche in un rosario che fa saltare la mosca al naso del mite Hernán.
«Signor Pérez García… a me non interessa conoscere quali siano le sue mansioni o i suoi gradi per intero. Lo vede questo?», prosegue l’uomo cavando dalla sacca una copia del documento mostrato in precedenza. «Voi dovete fornire collaborazione totale, al nostro signore e a noi. Ordini di Sua Maestà Re Juan Carlos I. È scritto qui, vede?»

L’ufficiale freme. Ha voglia di prendere il collo secco di quell’uomo e farlo scricchiolare sotto le sue dita, lentamente, ma sa che non può torcergli nemmeno un capello. Non davanti a dei testimoni, almeno. 
Grugnisce qualcosa ad un suo sottoposto e si allontana, rientrando nel blindato grigio-verde su cui è installata un’antenna per le radio-comunicazioni. Hernán fissa il nuovo arrivato: statura media, corporatura robusta, baffetti neri e volto sudato.
«Sergente Jesús José García Real», si presenta sbattendo i talloni fra loro. «In cosa posso esservi utile?»
«Vorremmo sapere se avete fatto evacuare tutto il borgo», ripete Hernán. «Abbiamo sentito…»
«Attenda solo un istante!», e il sergente García trotterella via come se fosse un picchio di legno. Dieci minuti dopo, l’uomo riappare con un foglio di carta piegato in quattro, il fisico che barcolla sui piedini da fata che Madre Natura gli ha donato. 
Sembra uscito da un quadro di Botero, pensa Gregorio lisciandosi la barba e attorcigliandone la punta attorno all’indice destro.
«Manca la famiglia Gómez Hidalgo», ammette García. «Sono tre persone: la nonna e due nipoti. Quando siamo passati a rastrellare casa per casa non li abbiamo trovati e abbiamo pensato fossero partiti.»
Rastrellare?, commenta Hernán tra sé e sé prima di rispondere: «Sa, credo che li abbia trovati il nostro signore…», sotto lo sguardo dubbioso di Gregorio.
Speriamo bene!, pensa l’argentino lisciandosi il barbone.


L’interno della cappella è oscurato. I vetri, invasi dai rovi senzienti, lasciano filtrare flebili scie di luce, del tutto insufficienti per potersi muovere senza sbattere in ogni dove. Riconosce le sagome delle candele votive disposte lungo i muri e sul fondo, davanti alle nicchie in cui, solitamente, sono ospitati i cadaveri dei due Amanti.
Contro cosa ho sbattuto?, si chiede tastando il pavimento ed incontrando dei cocci umidi. Vetri, a giudicare da come tagliano facilmente i suoi polpastrelli. 
C’è puzzo di muffa, di acqua stagnante, lo stesso identico odore che aleggia nei cimiteri e nei vivai. Incontra anche qualche fiore, margherite forse, grandi e provate dalla forza che ha sconquassato la Cappella pochi giorni prima. E il Mausoleo non sembra trovarsi in condizioni migliori. 
Riconosce varie forme davanti a sé, come sagome accatastate l’una sull’altra a formare un groviglio pulsante.  Shura decide di temporeggiare quel tanto che gli consentirà di capire il da farsi. Il ramo è ancora attorcigliato intorno alle sue caviglie, orientate verso l’ammasso centrale, la testa piegata a destra, a stretto contatto con candele votive spente e vetri rotti.

Montserrat e Cristobal sono ancora in casa, percepisce la loro presenza esattamente dove li ha lasciati. Chiamare Hernán e Gregorio per chieder loro di portarli in ospedale è fuori discussione. I rami potrebbero decidere di attaccare anche loro. 
Meglio non rischiare, decide saggiando con le gambe la stretta della pianta. La morsa si serra fin quasi a triturargli le ossa. Se non avessi l’armatura sarei diventato zoppo, commenta stringendo denti e pugni mentre cerca di rizzarsi in piedi. Il groviglio sembra aumentare le pulsazioni e muoversi verso di lui. 
Jabba the Hutt, ecco cosa gli ricorda l’ammasso vegetale non appena acquista un aspetto vagamente umanoide. O quasi.
Lo fissa. Sì, quei rami ammassati l’uno sull’altro a formare una grottesca creatura lo stanno fissando come una fiera farebbe con la preda terrorizzata prima di balzargli alla gola.
Non mi piace per niente, si dice Shura espandendo il cosmo dorato, che rischiara il buio della cappella.
Cose da fare oggi: debellare la minaccia dei rami e portare Montserrat in ospedale.
E ho perso fin troppo tempo!, decide rompendo la stretta che gli serrava i polsi con la semplice apertura delle braccia. Un secondo netto, e Shura di Capricornus è nuovamente in piedi, ritto con la luce del Cosmo che risplende contro la cupa oscurità della cappella. Come un faro che illumina la via ai naviganti.
L’ammasso aggrovigliato sembra sorridere, ammesso che sia tra le sue facoltà.
«Non so chi tu sia, né perché ti sia destato, ma adesso è ora di smetterla!», e Ruy pone la Sacra Spada di taglio davanti al viso. «Ho una ragazza da portare in ospedale!», e la lama che riposa nel suo braccio fende l’aria e sconquassa i rami che la creatura gli invia contro a tutta velocità, sempre di più, sempre più veloce. 
Devo farmi più vicino, si dice avanzando pian piano verso la creatura; rotti tutti i tentacoli, dovrebbe avere il tempo sufficiente per menare un paio di fendenti ben assestati ed uccidere il mostro.
Ma i tentacoli non si rompono; non tutti almeno: come ne cade uno, se riforma subito un altro.
Come i denti degli squali o le teste dell’Idra!,  pensa Shura, sporco di clorofilla da capo a piedi. Il mantello sta sventolando appeso al muro della casa di Cristobal.
Quale attacco porterà la pianta? Attaccherà da destra o da sinistra? E sarà un attacco singolo o multiplo, su due fronti o su uno solo?
Pensa, Ruy, pensa!, si dice mentre esamina con la mente tutti i movimenti fatti da quell’essere bizzarro durante gli scontri precedenti. È senziente, anche se i suoi attacchi sembrerebbero volti ad difendere qualcosa, più che ad attaccare lui.
Non vuole che io vada oltre la soglia della cappella: ma allora perché farmi entrare di peso?
Shura fissa il roveto e non sa cosa rispondersi. Deve ritrovare i due fidanzati, sempre che non sia troppo tardi.

Un ramo scatta nella sua direzione, e la Sacra Excalibur lo taglia come se fosse carta. Il Cosmo di Capricornus arde costante, senza picchi estremi.
Non sono venuto qui per fare giardinaggio!
I rami cadono sotto i colpi di Excalibur, contorcendosi sul pavimento.
Avanza piano, verso il centro dell’ammasso che si dilata e contrae, come un enorme cuore vegetale.
Ecco!
Ecco, lo vede! Vede il punto debole di quell’intrico di rovi, una specie di foro, di spazio tra un ramo e l’altro, come la maglia allentata di un pullover ai ferri. Ed è lì che Excalibur colpirà.
Salta verso l’alto, caricando il braccio, e la lama scende di fendente a tagliare in due l’ammasso verde, come se fosse un coltello riscaldato alle prese con un panetto di burro.
Il rovo esplode.
Shura fa appena in tempo a pararsi il viso con le braccia e a scartare indietro. Il mostro vegetale si dimena frustando l’aria con i rovi come se fossero delle braccia. Non emette un lamento, ma si agita come fosse un essere vivente a cui hanno tagliato in due il busto.
Un ultimo movimento, un guizzo disperato, e il roveto collassa su se stesso.
Tutto qui?, si chiede Ruy pulendosi alla bell’e meglio la clorofilla dal viso. Possibile che bastassero solo dei colpi ben assestati per risolvere la questione?
Shura non si fida. Resta a fissare la forma vegetale, ormai ridotta in poltiglia putrescente, da cui cola del liquido verde scuro denso come sangue. Non si muove, e questo non è necessariamente un buon segno: i suoi sensi abituati al combattimento gli urlano di non fidarsi delle apparenze, che il nemico è ancora lì dentro. Che non è finita. E infatti, il groviglio si disperde, come se l’acqua contenuta al suo interno fuoriuscisse per intero, spandendosi sul pavimento scuro del Mausoleo.
Il mostro si scioglie, come cera al fuoco, colando fino al portone in fondo alla stanza. I rovi che infestavano le finestre cadono a terra, liberando i vetri da cui filtra la luce delle stelle e dei lampioni già accesi sul Calle: poco, ma sempre meglio del buio innaturale in cui era costretto a muoversi prima.
È così che vedono i ciechi?, si chiede osservando con sollievo la luce argentata illuminare l’ambiente.
E quel che vede gli fa gelare il sangue nelle vene.

Tra gli ex voto sparpagliati sul pavimento, candele cadute e statue esplose in cocci ovunque, Shura nota due figure emergere alle spalle del groviglio di rovi che si sta disfacendo da sé.
Restano in piedi, la figura più massiccia a proteggere la più esile; che siano Isabel e Diego?, si chiede Ruy avanzando lentamente, le mani lungo il busto pronte a scattare.
«Non abbiate timore! Sono venuto per aiutarvi!», dice loro con voce ferma e sicura: non immagina come potrebbero reagire, né che paura abbiano provato. Meglio andarci con i piedi di piombo. Le ombre non si muovono, sente solo singhiozzare e riconosce l’inconfondibile brillare di una lama.
Avanza e la spada si alza a difendere chi la impugna, mentre i singhiozzi aumentano. Che sia Isabel? E Diego? Che fine ha fatto?
«Isabel? Sei tu, Isabel?», domanda a voce alta, cercando di coprire i rumori di lei. La figura annuisce titubante, mentre l’altra la spinge all’indietro e parte all'attacco.
Shura lo scarta all’ultimo per poterlo vedere bene in viso. È giovane. Venticinque anni al massimo. Indossa una corazza panciuta che gli copre solo il busto. Le mani sono protette da guanti d’arme e le gambe sono racchiuse dentro un paio di schinieri malandati.
La spada è ben bilanciata e proporzionata, e il filo è fatto di recente: frutto dei mastri spadai di Toledo, ci scommette la testa.
L’uomo lo supera e gli si piazza alle spalle: Shura ruota il busto quel tanto che occorre per fronteggiare il nemico faccia a faccia. La spada si alza di scatto, brilla all’incontro con la luce della luna e cade giù. Si ferma solo quando incontra sulla sua strada la mano destra di Shura che la ferma, e i due si fissano occhi negli occhi.
Lo sguardo dell’altro è un fuoco castagna che vorrebbe incenerirlo all’istante. Prova a spingere la spada contro il guanto d’arme dorato: ha una forza bestiale, superiore alle umane possibilità.
Che sia posseduto?,  pensa il Capricorno sostenendo una pressione che, se non fosse per l’armatura e l’addestramento solerte a cui l’ha sottoposto Javier, gli avrebbe fatto volar via il polso, spezzandolo in mille frammenti.
L’altro digrigna i denti e lui decide che ha perso fin troppo tempo a giocare; spinge indietro la spada brandita dal nemico e sferra un paio di affondi con Excalibur, tanto per saggiare le capacità dell’avversario.
«Chi sei tu?» gli chiede fissandolo dritto negli occhi. L’altro non risponde, persistendo a fissarlo truce, la spada in pugno. «Sei forse Diego Peñareal Mendoza?»

L’uomo sbatte le palpebre un paio di volte, come se una luce avesse colpito i suoi occhi e poi più nulla. Shura sente dei movimenti alle sue spalle; si volta un secondo, giusto il tempo per vedere una donna, i lunghi capelli d’ebano raccolti in complicate trecce, portarsi le mani al viso e gridare: «Diego! No!», prima che la lama impugnata dall’altro fischi vicinissima al suo orecchio.
«Merda!» impreca il giovane Capricorno scartando di lato, mentre il nemico lancia fendenti a tutto spiano nel tentativo di colpirlo. Rotola di fianco, sulle candele rovesciate e i cocci rotti, fino a raggiungere il muro che dà sull’entrata del mausoleo. Poi si gira. E salta.
Compie un balzo a parabola e all’apice esatto ruota su se stesso, portandosi oltre le spalle dell’avversario. Insinua i piedi sotto le braccia del nemico e poi il Jumping Stone scatena tutto il suo potere. Shura ruota nuovamente ed atterra, sapendo che il nemico giace riverso alle sue spalle.
Come potrebbe essere altrimenti? Il suo colpo consente di provare come se si fosse una pietra che, cadendo nel vuoto, rimbalza da una roccia all’altra. Il Capricorno è saltato e il masso sotto di lui si è sgretolato.

Lancia un’occhiata al nemico, e lo trova ben saldo sui piedi. «Ma come…?», si domanda stupito, fissando l’altro che mostra un sorriso ironico sulle labbra sottili. «Che prodigio è mai questo?»
Chi è quell’uomo per rialzarsi incolume dopo aver assaggiato il Jumping Stone?
«Diego! Adesso basta, per l’amor del Cielo!»
La donna dai capelli agghindati con perle e nastri dorati lo implora, le braccia strette e le mani serrate attorno ad un fazzoletto celeste.
«Taci, Isabel!», tuona lui con voce cavernosa.
«Sei tu Diego Peñareal Mendoza, sì o no?», insiste Shura cercando di venire a capo di quella faccenda.
«No», risponde la voce con un ché di sdegnato. «Come osi paragonarmi a quell’imbelle?»
«Chi sei, allora?»
«Chi sono io? Ma come? Entri nella mia tomba e non sai il mio nome?», lo schernisce, prima di concedersi una grassa risata. «Io sono Juan Diego Martinez de Mancilla, lo sfortunato Amante di Teruel.»
«Sei morto più di sei secoli fa», ribatte Shura, «devo credere che ti sei risvegliato e che il tuo corpo si sia sanato per magia?».
 «Nossignore! Nossignore!», tuona don Diego. «Quest’ammasso di carne e umori non è che un prestito, un alloggio temporaneo per il mio spirito. Ben altre fattezze ebbi a possedere in vita! Alto, spalle larghe e solide, mani grandi e abili a maneggiare le spade. Viso maschio, occhi intelligenti; questo era Juan Diego Martinez de Mancilla, devoto figlio e tenero innamorato della bellissima Isabel de Segura.»
«E a chi appartiene il corpo che stai occupando?», insiste il Capricorno senza distogliere lo sguardo dal guerriero medievale.
«È il mio, in attesa di prenderne uno più giovane e sano.»
«Quello di quel ragazzo che hai…»
Diego lo interrompe. «Quello stupido, sciocco pusillanime! Uno stolto che era entrato in questo luogo per litigare con la sua fidanzata. Litigare! Dinnanzi a noi, che morimmo per dolore e tenerezza l’uno dell’altra; noi che non abbiam potuto vivere e godere il nostro amore! E loro si sono concessi il lusso di dileggiarsi ed insultarsi dinnanzi alle nostre tombe!» Diego fa una pausa, come se volesse riprendere fiato per placare l’ira che gli sconvolge il petto. «Avevano bisogno di una lezione e noi gliel’abbiamo impartita! Sta’ pur tranquillo, donzello: il mondo non rimpiangerà gente di tale sorta!»
«Bene. Ora immagino che li lascerete liberi.»
«Stai scherzando, non è vero donzello? Non tediarmi con queste celie! Non vedi che son desto? Non vedi che posseggo un corpo giovane e non corrotto dal tempo in cui prendere dimora? Non ho alcun’intenzione di lasciarmi sfuggire quest’opportunità!»
«Chi vi ha destato? Lo sapete, almeno?»
Diego ride. «No, non so il suo nome. E non m’interessa, se non per ringraziarlo di questa nuova vita.» 
«Vita? La vita è una e una sola, e non può essere riprodotta!», tuona Rodrigo e la sua voce riempie la cappella, coprendo il singhiozzare della donna. «Per questo motivo è così preziosa! Lo capite? Se la vostra…»

La spada di Diego indica con un guizzo il petto di Shura.
«Taci, donzello…», e la lama s’illumina di sinistri bagliori, come se fosse viva e avesse sete di bere il suo sangue. Il Capricorno si chiede su che basi poggi questa sua convinzione, ma non riesce a rispondere: lui sente il desiderio quasi animale di quell’acciaio che vuole passare carni, muscoli, vene e ossa del forestiero che si trova di fronte.
«Diego, basta!», lo implora la ragazza con gli occhi ricolmi di lacrime.
«Isabel, che dici? Suvvia, non aver paura e fidati di me!», le risponde don Diego scattando in avanti e alzando la spada per colpire quel moscerino d’oro che è penetrato nel loro rifugio. Shura di Capricornus fa appena in tempo a scansarsi; l’attacco portato da Diego trancia a metà l’unico supporto rimasto in piedi su cui erano disposte alcune candele ormai consumate. Al contatto con il legno, la lama si è illuminata di una soffusa luce cremisi, che si è fatto più intenso man mano che la spada si apriva un varco.
Cosa ha animato questi esseri? Chi?, si chiede Shura smarcandosi elegantemente dal nemico. E deve trovare una soluzione: gli spiriti sono quelli degli amanti, ma i corpi tra breve no; i corpi che occuperanno, appartengono ad una coppia litigiosa del Ventesimo secolo, con la sola colpa di essere capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Devo liberarli… Ma come?, si domanda passando ad un vaglio veloce la figura del nemico: a prima vista sembra un avversario di poco conto facilmente soggiogabile con un paio di colpi ben piazzati. E allora perché si è rialzato dal Jumping Stone come se niente fosse?

Diffida delle soluzioni troppo facili, sono le più pericolose!, gli ha sempre raccomandato Javier durante l’addestramento. Desiste dal portargli un attacco diretto, e gli gira attorno, cercando di evitare i colpi che si fanno sempre più vicini e decisi. Dove sono i due ragazzi?
Non può continuare così, si dice trovando rifugio dietro una panca rovesciata. Forse una soluzione c’è. La spada. Deve mirare alla spada che Diego stringe tra le braccia e farla andare in mille pezzi; o quanto meno, fargliela cadere a terra. Poi lo stordirà, ma prima deve disarmarlo, e renderlo meno pericoloso.
La Giustizia non tentenna! Athena guiderà la mia mano!
Spazio in ascissa, tempo in ordinata e la Sacra Spada taglia ortogonalmente tutto ciò che incontra sulla sua strada. Rodrigo espande il Cosmo e un chiarore dorato si spande nel Mausoleo vincendo le tenebre della sera di Teruel.
Don Diego grida, mentre la spada che stringeva con forza gli cade di mano e scivola sul pavimento lontano da lui.
«Diego!», gli fa eco Isabel, sovrastando le grida straziate dell’amato, la mani contratte sul volto e gli occhi neri sgranati dal terrore.
Quando Shura abbassa il braccio destro, il corpo di Diego è a terra, privo di sensi.
«Diego! Diego!», urla Isabel accorrendo, prendendolo in grembo e dandogli dei buffetti sul viso per farlo destare. «Diego!», e la sua voce si diffonde per le vie del borgo vecchio come il lamento stridulo di una strega portato dal vento gelido. Shura si ripara le orecchie con le mani, voltandosi verso la donna, dall’altro capo dell’ambiente. I capelli scarmigliati di Isabel le ricadono sul viso e sul collo in ciocche scomposte quando rialza il viso e sibila un «maledetto!» che gelerebbe anche il sole di Agosto.

«Che tu sia maledetto!», urla lei raccogliendo la spada, e l’arma, al contatto con le dita sottili della donna, si illumina di bagliori rosso bordeaux. Comprende, allora, che è l’odio e il rancore a muovere le mosse di quegli spiriti. Chi li ha risvegliati deve aver sentito la frustrazione di don Diego al vedere come due fidanzati sprecassero il loro tempo, mentre lui era costretto a dormire un sonno eterno accanto alla donna amata.
Shura alza il braccio destro ed espande il Cosmo.
Isabel stringe la guardia e gli lancia uno sguardo in cui racchiude tutto il suo livore. Bellissima, pensa Ruy, rendendosi conto di quanto sia folle quell’annotazione ora che è in gioco una posta così alta.
Isabel sorride, le labbra rosse che s’incurvano all’insù, e scatta in avanti, verso di lui. Si muove come se sapesse che quel ragazzo non la colpirà, limitandosi a difendersi; ed infatti, il Sacro Capricorno tiene la posizione, pur costretto a voltarsi per tenere sotto controllo i movimenti di Isabel. E lei, dopo tre o quattro affondi sgraziati, il peso della spada a sbilanciarla, si concede una risatina sommessa.
È troppo tardi quando Shura si accorge che Diego si è alzato.

«Pensavi sul serio che sarebbe stato così semplice, donzello?»
 Gli occhi di don Diego ardono di rabbia. Lo vuole schiacciare, come se fosse una mosca fastidiosa, che di quello che danno il tormento ronzandoci attorno in estate, e che riescono sempre a fuggire.
Shura carica il colpo, chiedendosi cosa abbia in mente di fare. Adesso dovrebbe urlare, dire qualcosa che suoni come «Adesso ti faccio vedere io!», o qualcosa di simile.
Invece no.
Diego si limita ad alzare il braccio e a sorridere.
Un sibilo alle sue spalle, ma è troppo tardi: qualcosa gli afferra braccia e gambe prima di inglobarlo dentro di sé.
Prova a lottare. A tenere la testa lontana da quella gelatina umida e calda che gli sta aderendo addosso come fosse fango liquido. Tutto inutile.


 
 

 









Note:  quinto capitolo, di giovedì, come un bel piatto di gnocchi al sugo!
Mudejar, dall’arabo Mudajjan, che significa “reso domestico” è un aggettivo che si riferisce agli arabi cui fu consentito di rimanere in Spagna dopo la Reconquista (1492), e la conseguente conversione (coatta) al cattolicesimo. L’arte mudejar è quella arabeggiante che definisce Toledo, Siviglia e Saragozza.

Il picchio di legno è un gioco di strada di una volta. A Roma il picchio è una trottola da lancio, in legno, con delle scanalature lungo il corpo, attorno al quale si arrotolava una corda. Per maggiori informazioni, potete dare un'occhiata qui.
Sì, Il sergente García è una fusione tra il Sergente García di Zorro e Chico di Zagor.

Gli Amanti di Teruel è una leggenda della città di Teruel che vede per protagonista lo sfortunato amore tra Isabel de Segura e Juan de Marcilla (che durante il Siglo de Oro è stato ribattezzato con il nome più caliente di Diego). Perché vi pare a voi che la Spagna si sarebbe lasciata scappare l'occasione di avere un'autoctona coppia à la Tristano e Isotta? Essù...

Donzello, che ci crediate o no, è un termine che esiste per davvero. Recita la Treccani: "dal provenz. donzel, lat. *dom(ĭ)nĭcĕllus, dim. di domĭnus, «signore»,  In particolare erano così detti i giovinetti nobili che si apprestavano a diventare cavalieri e destinati in genere a far corte, in qualità di paggi, a re, cavalieri, baroni; sicché il nome assunse poi il significato generico di domestico d’un signore (o anche d’un magistrato) e quello di usciere del municipio."
Ovviamente, Diego lo intende nel significato originale del termine, apprendista cavaliere. E se sia per scherno nei confronti di Shura, o per la giovane età di Ruy, io questo non lo so...

Una buona base per capire come si tira di scherma, mi viene da un romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Il maestro di Scherma (Marco Tropea Editore, Milano, 1999), consigliatissimo per avere un'idea di come si impugna una spada. È più tecnico de Il Capitano Alatriste, e quindi fornisce, en passant, qualche nozione in più.
Diciamo che sto ancora cercando di capire quali siano le esatte posizioni (Prima e Ottava sono posizioni basse, Terza e Quinta, invece, alte), ma la lettura di quel romanzo mi ha aperto un mondo.

Jabba the Hutt appare in tutta la sua magnifica lardosità solo in Il Ritorno dello Jedi (1983) anche se è citato nei due film precedenti [Guerre Stellari (1977) e L'Impero colpisce ancora (1980)]. Mi sono presa comunque questa libertà poetica (???) perché l'altro possibile paragone con il roveto senziente sarebbero state le creature uscite dalla mente malata e distorta del Solitario di Providence, H.P. Lovecraft (cosa che Shura, in effetti, fa), di cui in questi giorni ricorre l'ottantesimo anniversario della sua morte. Ma inserire Dagon, Cthulhu e qualsiasi altra cosa che fosse incommensurabilmente, indescrivibilmetne, ineffabilmente, oniricamente straniante - qualcosa che la mente umana rifugge, nascondendosi nelle pietose braccia distorte della Follia - mi avrebbe costretto a rendere Shura qualcosa di più di un lettore distratto, ed è una cosa che mi sono imposta di non fare. Sì, non mi piace Lovecraft e la sua prosa bizantina; inoltre, la Capra è già contorta di suo, non mettiamo altro pathos sul fuoco!!

In tutto ciò, ho aperto una pagina Facebook dedicata a quest'account.
Non sono un animale tecnologico, quanto un vetusto rudere analogico; ma, semmai usaste Facebook, semmai foste incuriositi, e semmai vorreste tenervi aggiornati, fate pure un salto a trovarmi (qui). Vi aspetto, non siate timidi!!  
   
 
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