Capitolo 27
Il frutto della verità
- Prima parte
-
“Preferiamo
ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti
diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi”.
Massimo
Gramellini
Immagine dal film “Padre e figlio”
Sarebbe
stato molto meglio non sapere e andare avanti restando nell’oblio, piuttosto
che fare i conti con un passato così doloroso, disperato, devastante, quasi
surreale nella sua crudezza. Una delle pagine più buie della storia
dell’umanità non era più muto inchiostro sui libri di scuola ma adesso aveva
voci e mani tremanti, volti inquieti e occhi velati di lacrime. Le immagini
sfocate viste alla televisione diventavano carne e respiro attraverso le parole
di coloro che fino a qualche giorno prima erano i loro genitori. Parole che nei
loro giovani cuori alimentavano sentimenti opposti di compassione e
risentimento. Il tragico racconto del loro vissuto, dal quale non riuscirono
neanche a cogliere il sottile filo di speranza che lo attraversava, non fu
sufficiente a spazzare via la rabbia e la delusione per le tante bugie dette e
le verità taciute per troppo tempo. Verità al cui ascolto i due giovani
avrebbero voluto tapparsi le orecchie, urlare, sparire. Ma per Andrej la verità
più difficile da metabolizzare, il boccone più amaro da ingerire fu la scoperta
del passato nazista di suo padre. Werner, che fino a due giorni prima credeva
suo padre, il suo eroe, il dottore buono che aiutava i pazienti più bisognosi,
era in realtà un medico della morte e il suo vero nome sapeva di paura e
angoscia, di prigionia e ingiustizia, di vite crudelmente spezzate. Günther
era un sinonimo di Aktion T4, di programma nazista di eutanasia, di
duecentomila vittime tra le persone più deboli e indifese. La maschera si era
sciolta al calore di una verità che bruciava, rivelando che quell’uomo non era
suo padre e soprattutto non era la persona che conosceva. Anzi faceva parte
della foltissima schiera di criminali che molto probabilmente lo avevano reso
orfano. A quest’ultimo pensiero, Andrej non riuscì più a trattenere il senso di
nausea che gli aveva attanagliato la gola, lo stomaco, le viscere in quegli
interminabili e strazianti minuti. Corse in bagno. Le sue certezze non erano
altro che bugie mascherate, i suoi genitori dei perfetti sconosciuti che
avevano recitato in modo impeccabile una parte lunga diciassette anni e lui non
sapeva più chi fosse. Intanto, Brigit sollevò le ginocchia sul divano e vi
nascose il viso scoppiando in un pianto dirotto, disperato, inconsolabile. Mai
come in quel momento si era sentita così sola e smarrita, privata della più
piccola, scontata e fondamentale certezza: essere figlia di un padre e una
madre di cui fidarsi, in cui credere, a cui appoggiarsi e da qui, dalle sue
stabili radici, avere la consapevolezza di se stessa. Tutto era perso, lei si
era persa.
Brigit
adagiò il mazzo di fiori sul marmo grigio. Chinandosi, un ginocchio ne sfiorò
il freddo e una lacrima fuggitiva vi trovò riposo. I pensieri rallentarono la
loro corsa, lì dove il tempo si ferma per continuare nell’eternità. Lì dove sua
madre e suo padre, Anja e Karl, sarebbero stati per sempre quei due ragazzi di
sedici e diciotto anni, coraggiosi e testardi, generosi e imprudenti, sognatori
ribelli con la speranza e la pretesa di poter cambiare il mondo. Ragazzi, come
lo era anche lei con i suoi diciassette anni, ma con una maturità diversa, con
ragionamenti, espressioni, atteggiamenti, gesti diversi, ben lontani dalla
spensieratezza e i capricci di una vita le cui maggiori preoccupazioni erano
prendere bei voti e indossare bei vestiti. Il velo di lacrime divenne più
spesso, impedendole di fissare in modo nitido i nomi e le date incisi sulle
targhette bianche, scurite dal tempo e, in uno scatto veloce, cercò le mani dei
due angeli che la affiancavano, Engel e Kurt, i suoi genitori. Una
richiesta di conforto, uno slancio di affetto, di riconoscimento, di rimorso
verso coloro che l’avevano cresciuta, guidata, supportata dandole il meglio e
anche il superfluo. Le lacrime scivolarono veloci sul suo viso stanco e, lì
dove tutto sembra finire inesorabile e senza speranze, un abbraccio infinito,
che sapeva di riconciliazione e consapevolezze rinnovate, diede vita ad un
nuovo inizio.
I
nazisti erano tutti scomparsi, dissolti nel nulla. Gli 8,5 milioni di iscritti
al Partito nazista si nascondevano alle coscienze, complice la collettiva ed
euforica speranza nella democrazia, nella ricostruzione, nel boom economico, in
un divertimento che era solo di facciata. Presi dal presente e protesi verso il
futuro, nessuno si poneva domande sul passato, nessuno ricordava. D’altra
parte, anche lui non si era mai posto domande sul passato di Werner, convinto
della sua estraneità ai crimini nazisti. Per Andrej suo padre era sempre stato
un cittadino inconsapevole, un medico innocente, o tutt’al più un oppositore
travestito da conformista. La scelta di sposare una ragazza ebrea sopravvissuta
a un campo di concentramento non aveva fatto altro che confermarlo nella sua
convinzione. E i suoi pensieri andarono a lei, a Nadine: come aveva potuto
accettare di trascorrere il resto della propria vita accanto ad un nazista,
pentito ma pur sempre colpevole, donarsi a mani complici delle crudeltà subite
e degli affetti strappati? Come poteva l’amore andare oltre i ricordi, le
sofferenze, il rancore, le brutture dell’altro, le proprie origini … oltre se
stessa? Questi interrogativi riavvicinarono Andrej a sua madre adottiva e capì
che la risposta era racchiusa nella domanda stessa, nell’inesplorabile mistero
dell’amore. Sfogliare tra le pagine del cuore di Nadine, pur non comprendendo
appieno, entrare nell’intimità dei suoi sentimenti, fu la prima toppa su un legame
strappato e gli permise di aprirsi di nuovo con lei. “Ho deciso di mettermi
alla ricerca dei miei genitori. Tu, Kurt, Edith, Yonathan e tanti altri ce
l’avete fatta e posso ancora sperare di trovarli in vita e conoscerli …” le
confidò ma Nadine non ne rimase sorpresa, aspettandosi da giorni questo colpo
“… Mi aiuterai?” Aiutarlo significava rischiare di perderlo e il suo cuore di
madre piangeva di tristezza. “Non posso farlo da sola.” rispose e, proprio in
quel momento, Werner si affacciò alla porta della stanza. Andrej gli rivolse
uno sguardo più rabbonito: aveva bisogno anche di lui.