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Autore: WillofD_04    26/03/2017    3 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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«Sono venuti a farti un check up completo?» chiese Marco, che nel frattempo era entrato nella tenda, indicando un punto imprecisato alle sue spalle e costringendomi a ritirare su la testa. In tutta onestà non avevo voglia di vedere nemmeno lui in quel momento, ma forse un po’ di compagnia mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe aiutato a non rimuginare troppo su tutte le cose spiacevoli successe negli ultimi giorni. Purché non avesse infierito come aveva fatto la sera prima. Per ore ed ore ero stata da sola ad annoiarmi ed ora che non volevo vedere nessuno ecco che venivano a trovarmi tutti. Davvero curiosa la vita.
«Sono venuti a scusarsi» risposi, stringendomi nelle spalle.
«Per cosa?» domandò, incuriosito.
«Dunque, vediamo...per avermi trattata come un rifiuto umano e avermi ignorata a tal punto da non essersi accorti che ero ferita e che sarei potuta morire» spiegai, in tono sarcastico.
«Ora capisco perché se ne sono andati con la coda tra le gambe» commentò il biondo, sorridendo arrogantemente.
«Ti sbagli. Io non ho fatto niente. Se se ne vanno in giro con l’aria da cani bastonati è perché si sentono in colpa, di certo non perché li ho aggrediti verbalmente. Io li ho perdonati e ho persino cercato di rassicurarli» dichiarai io. Avevo la coscienza a posto. Almeno in tutto quel caos c’era qualcosa che era al proprio posto.
Marco sorrise. «Dov’è finita la ragazzina che si infuriava ogni volta che cappello di paglia lasciava qualche briciola qua e là?» mi chiese.
Sbuffai una risata. «È andata in pensione» risposi, distogliendo lo sguardo e sorridendo nostalgicamente al ricordo dei vecchi tempi «ma qualche volta ritorna a farmi visita e ci prendiamo un tè insieme. Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio».
L’ex comandante si stese accanto a me, incrociando le mani dietro la nuca e mettendo un piede sopra l’altro.
«E per la cronaca, non era “qualche briciola”. La sua bocca ne perdeva a cascate. Rufy era uno sbriciolatore seriale» specificai divertita.
Per un po’ nessuno parlò. La tenda venne avvolta da un silenzio pacifico. Io ero troppo impegnata a ripensare ai vecchi tempi – e di conseguenza a sorridere come un’ebete – e Marco sembrava altrettanto pensieroso.
«Com’è andata la tua giornata?» domandai dopo qualche altro minuto di silenzio catartico
«Non male, la tua?» fu conciso come al solito. Non si poteva dire che la testa d’ananas fosse un tipo loquace.
«Sono bloccata in un letto da due giorni, il mio capitano probabilmente mi detesta, ho dovuto applicarmi da sola ventiquattro punti di sutura alla gamba e ho dovuto anche dare il contentino a dei medici che, a quanto ho capito, a causa della loro gelosia per poco non mi hanno lasciata morire» feci, sarcastica «quindi direi non male nemmeno la mia» lo guardai di sottecchi e gli sorrisi. E lui fece lo stesso. Quando sorrideva in maniera sincera era molto più bello di quanto non fosse quando aveva la sua tipica espressione annoiata.
«In mare la vita è più divertente, eh?» chiese – ma entrambi sapevamo che la sua era una domanda retorica – con l’aria di chi la sa lunga sull’argomento.
«Già» mi limitai a rispondere, sospirando. Nei suoi occhi c’era un velo di nostalgia che non gli avevo mai visto prima. Avrei voluto accarezzargli una guancia e dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma mi trattenni. Non riuscivo a capire perché non riprendeva il mare se gli mancava così tanto. O forse lo capivo bene ma non volevo credere e non volevo ammettere a me stessa che si fosse arreso una volta per tutte. Chissà se lui l’aveva fatto. Chissà se si era rassegnato del tutto e aveva appeso al chiodo il suo Log Pose.
Mi lasciai cadere indietro con la schiena e affondai la testa nel cuscino, prima di emettere un suono gutturale dalla gola.
«Pagherei per un bicchiere di vino in questo momento» affermai, sconsolata. «O anche per tutta la bottiglia...» feci poi, in un sussurro così da non farmi sentire da Marco.
«Non sono un esperto, ma non credo che l’alcol mischiato agli antibiotici faccia molto bene» commentò lui, divertito
«L’alcol fa sempre bene, Marco. Sempre. Non te lo scordare mai» affermai seria incastonando i miei occhi ai suoi.
«Allora un giorno potremmo berci un bicchiere insieme» propose, facendomi sorridere e annuire con vigore. Glielo avevo già proposto io il giorno prima, ma sentirlo da lui aveva tutto un altro effetto.
«Ovviamente offri tu» gli imposi, facendogli l’occhiolino.
Lui si tirò su e si mise a sedere sul bordo del letto.
«Solo se mi batti a Machiavelli» mi rispose dandomi le spalle, chinandosi e tirando fuori da sotto il materasso un mazzo di carte. C’era da dire che era ben equipaggiato per il tipo di vita spartana che si era scelto. Forse giocare a carte era uno dei pochi modi decenti per passare il tempo su quell’isola ostile. Mi chiesi se sotto il letto non nascondesse anche una scacchiera. No, sarebbe stato meglio non saperlo. Se mi avesse costretto a giocare a scacchi non avrei nemmeno potuto darmela a gambe, visto che ero bloccata in un letto.
«Me la vuoi servire su un piatto d’argento, eh?» replicai, passandomi la lingua sul labbro superiore e sfregandomi le mani.
«Non sarà così facile, stavolta» dichiarò lui, con lo sguardo fermo. Entrambi stavamo ghignando arrogantemente. A breve avremmo visto chi l’avrebbe spuntata tra di noi.
 
«Sarò anche debole fisicamente, ma caro mio, ti ho battuto di nuovo» gli annunciai, mentre effettuavo la mossa che avrebbe messo fine alla partita.
Marco scosse la testa sconsolato, gettando le carte che aveva in mano al centro del letto, che ci aveva fatto da campo di gioco. Alzai un sopracciglio e incrociai le braccia. Se non altro gli avevo dato prova che c’era qualcosa che ero capace di fare. Non che saper giocare a Machiavelli fosse utile in quell’universo, ma tutto faceva brodo.
«Se vuoi domani ti concedo la rivincita» gli proposi, con una punta di scherno nella voce.
Non mi rispose. Era intento ad osservare il cielo, che si era tinto di un meraviglioso arancione fiamma. Stava tramontando il sole. Lo guardai per qualche minuto fissare l’immensa distesa dai toni aranciati. Aveva un’espressione indecifrabile. Era pensieroso, ma allo stesso tempo aveva lo sguardo sereno. Se solo avessi avuto il telefono con me gli avrei fatto una foto.
«A che pensi?» mi azzardai a chiedergli, sapendo che non mi avrebbe risposto; o comunque, non in maniera sincera. «Guarda che se ti sei offeso perché ti ho battuto, te l’ho detto, ti concedo la rivincita» provai a sdrammatizzare dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
Il biondo si girò a guardarmi. Mi squadrò da capo a piedi e si soffermò piuttosto a lungo sulla coscia destra, all’altezza delle garze che coprivano la ferita. Non sapevo cosa gli stesse passando per la testa, con lui era sempre un’incognita, ma dallo sguardo che aveva sembrava quasi che stesse valutando le mie condizioni.
«Che ne dici di fare un giro turistico dell’isola?» chiese, dopo un po’ che mi osservava. Avvicinai ed abbassai le sopracciglia, stupita dalla sua domanda.
«Non so se ti sei accorto, ma in queste condizioni ci metto un po’ a camminare. E poi, non vorrei avere un altro incontro ravvicinato con quel maledettissimo insetto» risposi, scettica. Avrebbe dovuto saperlo bene, soprattutto lui, che era uno a cui non sfuggiva niente.
Il suo volto si illuminò. «Chi dice che dobbiamo farlo camminando?» rispose a sua volta, con un’altra domanda. Alle sue parole aggrottai ancora di più la fronte. Non capivo dove voleva andare a parare. Ci arrivai solo quando iniziò ad avvolgermi nella coperta del letto. Notai di nuovo le macchie di sangue sul lenzuolo e mi un brivido mi scese lungo tutta la schiena.
«Che stai facendo?» domandai, perplessa.
«Forse non è il modo migliore per trattare la ferita, ma ti assicuro che è il modo migliore per passare il tempo» dichiarò, cingendomi le spalle con un braccio e facendo passare l’altro sotto alle mie ginocchia. Mi sollevò come se fossi una piuma, il tutto sotto i miei occhi increduli.
«I tramonti e persino quest’isola visti dall’alto non sono affatto male» annunciò.
Avrei tanto desiderato volare con lui ancora una volta e di certo avrei voluto vedere il tramonto insieme a lui, dall’alto. Avrei desiderato sentirmi libera e lasciarmi alle spalle tutte le mie preoccupazioni e i miei brutti pensieri, che in quei giorni erano senz’altro lievitati, almeno per quella mezz’ora. Lo avrei voluto più di ogni altra cosa al mondo in quel momento, ma non potevo. Mi divincolai dalla sua presa salda.
«Mi dispiace tanto, ma non posso. Non solo è rischioso in termini medici, ma ne va anche della mia reputazione già abbastanza distrutta. Se Law vedesse che non sono nel mio letto mi detesterebbe ancora di più e la mia posizione sociale all’interno della ciurma cadrebbe più in basso di quanto non sia già. Non posso rischiare» gli comunicai, a malincuore «e poi, devo vederlo. Devo guardarlo negli occhi e capire quanto mi odia su una scala che va da uno a Doflamingo» aggiunsi, seria e amareggiata.
Marco, dopo un primo momento di sbigottimento, allentò la presa su di me e mi lasciò sul letto. Poi sorrise, stavolta sembrava un sorriso più tenero, sebbene riuscissi a percepire sempre una punta di arroganza.
«Non ti facevo così responsabile» disse, quasi come se quello fosse stato un test per giudicare la mia idoneità a qualcosa.
«Sei tu che sei diventato irresponsabile, Marco» ribattei, quasi rimproverandolo. Non sapevo come altro rispondere. Ero cambiata, era vero, ma anche lui lo era. Non sembrava più se stesso, era totalmente un’altra persona rispetto a come lo avevo conosciuto. In risposta lui scosse la testa ghignando, in disaccordo con me. Mi appoggiò una mano sul capo, con abbastanza forza da farmi abbassare il collo.
«Il pulcino è uscito dall’uovo» dichiarò divertito, avviandosi poi verso l’uscita della tenda.
Allargai le braccia in segno di resa, poi alzai le spalle e sbuffai una risata mentre lo guardavo varcare la soglia. Che assurdità. Era cambiato, ma le sue frasi incomprensibilmente criptate non le avrebbe mai abbandonate.
«Credi che il tuo capitano ti odi?» mi chiese dopo qualche secondo, fermandosi appena fuori della tenda e girandosi a guardarmi.
Sospirai, non sapendo cosa rispondere. «Beh, rispetto alla scala che ho nominato prima, direi che siamo al livello “pane”» replicai dopo averci pensato un po’.
Corrugò la fronte. «Sei sicura di stare bene? Non stai delirando, vero?» domandò, fingendosi preoccupato per la mia salute mentale.
No. Non stavo delirando. Purtroppo sapevo bene cosa stavo dicendo. E anche lui avrebbe dovuto saperlo, visto che nel mese di convivenza forzata aveva avuto modo più volte di notare il profondo odio che il chirurgo nutriva per pagnotte e derivati. Gli tirai il cuscino che avevo sotto la gamba, che lui prese al volo e non si risparmiò di lanciare indietro. Ci fu un istante, un istante solo, in cui ridemmo tutti e due e fu come se fossimo due vecchi amici che si erano rivisti dopo tanto tempo e insieme avevano dimenticato le loro preoccupazioni, ricordando i tempi andati con nostalgia, ma anche e soprattutto con allegria.
Sollevai il braccio fino a portarmi l’indice davanti al viso. Iniziai a scuoterlo lentamente, ghignando ed alzando un sopracciglio.
«Non ci si accanisce contro i feriti, non è leale» lo rimproverai scherzosamente.
Sbuffò una risata, poi si rigirò e continuò a camminare. «Buonanotte, Cami» disse semplicemente.
«Ehi, dove vai?» mi informai. Non volevo che se ne andasse, non così presto almeno.
«I feriti hanno bisogno di riposare» affermò arrogantemente, senza degnarmi di uno sguardo e salutandomi di spalle con la mano. Adesso che volevo che rimanesse con me, se ne andava via. Davvero assurda, la vita.
 
Ero rimasta di nuovo sola. Marco se n’era andato, giustificando il suo lasciarmi a morire di noia con un semplice “Vista ha sentito la mia mancanza stanotte, non può stare senza di me e tu devi riposare”. Law non si era proprio fatto vedere, almeno non nel periodo di tempo in cui ero stata sveglia e cosciente, mentre gli altri medici erano capitati giusto un paio di minuti per portarmi la cena – che consisteva in un pesce cucinato allo spiedo e un’arancia – e per accertarsi che stessi bene. Avevo provato a trattenerli un po’ di più, giusto per fare un paio di chiacchiere, ma dovevano andare al campo ad occuparsi dei malati, che si stavano rimettendo sempre più in forze. Avevo provato un po’ di invidia sentendo le loro parole. Anche a me sarebbe piaciuto contribuire almeno in minima parte a curare quelle persone e vedere il loro volto illuminarsi di gioia e gratitudine. In quel breve lasso di tempo che i miei compagni erano stati con me, però, ne avevo approfittato per chiedere loro di portarmi un pezzo di carta, una penna ed una torcia. Per fortuna erano stati rapidi ed efficienti e soprattutto non avevano chiesto nulla sull’utilizzo che avevo intenzione di farne. Poi, dopo avermi passato quello che avevo chiesto ed avermi risistemato il cuscino sotto la gamba, mi avevano salutato, augurato la buonanotte e se ne erano andati, lasciandomi a marcire di noia. Fortunatamente, però, avevo trovato un modo per occupare le ore di monotonia e solitudine che mi aspettavano. Non fu facile scrivere al buio e con una superficie morbida sotto al foglio di carta, ma in qualche modo ci riuscii. Ci impiegai due ore per scrivere la lettera, due ore in cui mi rischiai più volte di slogarmi la mascella – perché in mancanza di altri posti avevo dovuto tenere la torcia in bocca per la maggior parte del tempo – e di incrinarmi qualche vertebra a causa della posizione scomoda in cui stavo, ma ne valse assolutamente la pena. Furono due ore in cui lasciai uscire tutto quello che avevo dentro, senza freni né costrizioni. Le parole quasi vennero spontanee, senza che io avessi fatto alcuno sforzo. Uscirono e basta. E quando finii di scrivere, ripiegai il foglio con cura e lo misi sotto al cuscino. Non avevo nemmeno bisogno di rileggerla, sapevo che andava bene così.
Sospirai e finalmente mi distesi completamente sul letto, sprofondando la testa nel cuscino. Quella sera di luna nuova, due lacrime silenziose rigarono le mie guance. Proprio come erano uscite le parole, uscirono anche i sentimenti. Li buttai fuori tutti in una volta e si riversarono all’esterno del mio corpo come se fossero uragani. La sensazione di non essere adeguata, di essere troppo debole, perfino di essere un peso per tutti, il sospetto che il mio capitano non volesse più avere nulla a che fare con me, la tristezza che mi pervadeva al pensiero di essere relegata in un letto senza possibilità di muovermi quando avrei dovuto essere io ad aiutare gli ammalati. Sopraggiunse anche il nauseante senso di nostalgia per casa mia, la mia vera casa e per i miei genitori, che mi mancavano da morire. E poi, poi c’era Marco. O meglio, non c’era perché non riuscivo a riconoscerlo. Non era più lui. Che cosa gli era successo? Come era diventato così? Perché non c’era nulla che potessi fare per aiutarlo? Cosa lo aveva portato ad arrendersi completamente? A rinunciare alla sua vita da pirata? Non capivo e questo mi uccideva. Vederlo così distrutto, per quanto lui lo nascondesse, distruggeva un po’ anche me. Perché la verità era che nonostante fossi stata poco insieme a lui, in un certo senso mi ci sentivo legata, come se ci conoscessimo da sempre. E volevo che stesse bene, che tutti loro stessero bene, perché erano diventati una parte di me e se non stavano bene non stavo bene nemmeno io.
Mi coprii il viso con le mani, mentre con i pollici asciugavo gli angoli degli occhi, ancora umidi. Quelle furono tutte cose che insieme mi stroncarono. Mi mangiarono viva, senza risparmiarsi nemmeno un po’. Ma per quella sera, soltanto per quella sera, mi dissi che andava bene così.
   
 
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