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Autore: Koa__    29/03/2017    10 recensioni
John Watson, un medico reduce di guerra finito nelle Indie Occidentali, cerca di sopravvivere a una vita di solitudine e senza un briciolo di avventura. Un giorno, John fa però un incontro straordinario e del tutto inaspettato. Nella sua monotona esistenza, entrano così Sherlock Holmes, pirata della peggior specie, e la sua stramba ciurma.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Let's Pirate!'
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Disordine e bellezza
 
 

 
Questo che voi chiamate ordine è uno sfilacciato rattoppo della disgregazione
[Italo Calvino]
 
 
 

John Watson non era mai del tutto riuscito a concepire il disordine come un qualcosa di sano e nel quale un rispettabile uomo avrebbe potuto comodamente vivere. Che il merito andasse alla formazione militare ricevuta oppure che fosse una caratteristica insita in lui fin dalla nascita, era decisamente difficile a dirsi. Era vissuto in una famiglia benestante, sotto il rigore di un padre il cui senso del dovere si palesava non soltanto nella professione medica, ma anche e soprattutto nella vita familiare. Hamish Watson non aveva mai avuto aspirazioni nell'esercito, ma ciò non gli aveva impedito d’impartire a entrambi i suoi figli una rigida educazione. Il che comprendeva la cura personale, che doveva rientrare in determinati canoni, ma anche l’ordine e la precisione. Per esempio, fin dalla primissima infanzia, John era stato abituato a sistemare personalmente la propria camera da letto, onere che pareva essere fondamentale affinché crescesse con un minimo di buonsenso. La vita sotto le armi aveva poi fatto tutto quanto il resto, accentuando alcune caratteristiche e fomentandone altre fino ad allora rimaste sopite. John non pensava spesso ai propri genitori, a dirla tutta non indugiava volentieri nei ricordi dell’infanzia. In quei momenti, però e mentre faceva vagare un incredulo sguardo a quella che era la camera privata di capitan Sherlock Holmes, riuscì quasi a vedere l’impettita figura di suo padre starsene in piedi a loro fianco. Poteva immaginarselo come se fosse ancora vivo, con la lunga barba grigia, i capelli raccolti in un codino e la bocca storta in un ghigno di disapprovazione, intento a giudicare l’inciviltà di quel pirata. Nessun rispettabile uomo inglese sarebbe mai potuto vivere in un caos tanto immondo, di certo nessuno che auspicava a essere ritenuto come tale. Tanto per cominciare, l’interno della cabina era assai diverso da come si presentava guardandolo dal di fuori. Tanta era la cura che era stata messa nel decorare la porta o nel cesellare la maniglia d’oro, quanto scarsa era l’attenzione agli oggetti e al mobilio. Quella stanza apparve ai suoi occhi curiosi come la più trasandata tana sulla quale un’anima rispettabile avesse mai avuto la sciagura di posare lo sguardo. Per meglio dire, aveva visto bordelli meglio puliti e prostitute decisamente più assennate nel tenere al decoro personale, di quanto quell’Holmes non sembrasse. Egli infatti pareva voler sfuggire a ogni legge che natura e Dio avevano prestabilito per un buon cristiano e altrettanto biecamente sembrava non gl’importasse nemmeno di fare una figura barbina. * Ancor più grave era il fatto che tutto quel disordine, e il caos, e i modi misteriosamente fascinosi che il pirata bianco esibiva in lunghi silenzi e occhiate fugaci, erano in grado di attrarre John con la stessa intensità con cui avrebbe dovuto esserne disgustato. Aveva come la sensazione che in capitan Holmes tutto fosse attraente e degno di nota, persino l’inciviltà. Il che era decisamente inappropriato.

Dopo aver forzatamente messo da parte ogni pensiero, tra cui anche le numerose domande riguardanti quel bacio a fior di labbra a cui aveva appena assistito (e i relativi dubbi circa il rapporto tra Sherlock e Victor), John si prese la briga di osservare con quella che chiunque avrebbe definito una cavillosa attenzione, ciò che si ritrovava ad aver di fronte. La cabina del capitano era grande, più del doppio della sua, per larghezza aveva una misura pari a quella dell’intero cassero. Sul fondo, un’ampia vetrata s’affacciava sulla poppa della nave, regalando uno stupendo affresco della spuma marina e delle onde che ne increspavano la superficie. Oltre al letto, a uno scrittoio e alla madia, v’era un sofà posizionato sotto le finestre mentre un tavolo, relativamente grande, prendeva buona parte dello spazio. Se fosse stato soltanto per le lenzuola sfatte o per un qualche abito del giorno prima gettato malamente da una parte, il militaresco buonsenso di John si sarebbe limitato a storcere il naso. Il problema era che quella cabina sembrava una spiaggia il giorno successivo a una mareggiata. Fogli e carta musicale, alcuni scritti e altri ancora intonsi erano stati sparpagliati ovunque sopra al tavolo e allo scrittoio. Il calamaio stava precariamente sopra a un tomo chiuso, accanto al quale era stato posato anche un candeliere, il cui moccolo era consumato praticamente per intero. John ipotizzò che il capitano avesse trascorso molte ore chino su quel tavolo quella stessa notte; che amasse la scrittura? O che soffrisse di incubi e non riuscisse a dormire serenamente? Non sapeva proprio dire e quando il suo sguardo incontrò altri oggetti, alcuni dei quali relativamente curiosi, già se n’era dimenticato. Non molto lontano dalla piuma e dalla boccetta d’inchiostro, infatti, un sestante e una bussola spuntavano tra mucchi di carte scritti a pessima calligrafia. Dubitava potesse essere una lingua a lui conosciuta, quella, commentò tra sé dopo aver allungato lo sguardo. A terra, invece, libri ovunque. Di qualsiasi forma e dimensione, da ben più imperiosi testi a libricini di poche pagine e rilegati malamente con della corda. Alcuni volumi erano aperti a una specifica pagina mentre altri giacevano ammonticchiati uno sopra a quell’altro, quasi non fossero più di alcuna importanza. Sulla destra e proprio accanto al letto, un violino era stato ben sistemato in una bella custodia di legno. Sherlock sapeva suonare? Non era insolito che i giovani venissero istruiti anche in quel senso, soprattutto tra i nobili. Tuttavia fu comunque bizzarro a pensarci perché era comunque piuttosto insolito il vedere un pirata che amava la musica. Doveva essere speciale anche per cultura e interessi, che erano svariati, a giudicare dal caos. Fu proprio allora che gli tornarono alla mente le parole le parole di padre Trevor, proprio la sera prima aveva molto insistito riguardo al fatto che capitan Holmes tenesse agli studi. Il che spiegava libri e carte, ma anche uno strumento musicale di certo di importante fabbricazione. Si domandò però a che cosa servisse il teschio, raccapricciante da far paura, che dallo scrittoio occhieggiava l’intera stanza, forse con la sincera intenzione di giudicare chiunque gli capitasse a tiro. John non volle pensarci e, sedato un brivido, una volta che ebbe voltato lo sguardo, passò oltre. Evitò di chiedere che cosa fossero quegli strani vetri tondeggianti che vedeva sul tavolo, fu però ammirato nel trovare un cannocchiale, fatto di legno e oro e che avrebbe avuto davvero il piacere di utilizzare almeno una volta. Fu però una specifica figura a attirare ogni sua attenzione, un cane per essere più precisi. Uno stupendo esemplare di animale con un folto pelo fulvo che stava accucciato sotto al tavolo, raggomitolato sopra a una coperta logora.
«Quello è un cane!» esclamò John, stupefatto e senza riuscire a resistere alla tentazione di inginocchiarsi di fronte alla bestia, la quale sollevò di poco il muso prendendo ad annusarlo con interesse. Erano degli anni che non ne vedeva uno, rifletté mentre gli grattava le orecchie. Nelle Indie Occidentali non dovevano essercene, a pro di una fauna decisamente più selvatica e poco addomesticabile. Ricordava di averne visti parecchi nelle campagne inglesi, che aveva battuto a lungo durante la guerra civile poiché contadini e pastori se ne servivano come aiuto per il gregge, altre volte per la caccia o spesso anche solo per compagnia. Nessuno tra coloro che ricordava era mai stato tanto bello, però, né aveva un simile colore. Questo era tenuto al pari di un uomo, aveva pelo lucente e ben pettinato e pareva essere decisamente in carne. Non che fosse grasso, ma la pancia la si poteva considerare moderatamente prominente. Chissà per quale motivo, John ebbe la sensazione che il cane si nutrisse anche del cibo del proprio padrone.
«Perspicace, dottore» si beffò Sherlock, sogghignando appena, in quella che pareva essere una sorta di presa in giro. «Preferisce che lo si chiami col suo nome ovvero Barbarossa. ** Lui è il mio più fedele compagno a bordo di questa nave» concluse pur senza voltarsi in loro direzione, né facendogli la grazia di guardarlo in viso mentre gli parlava. Aveva notato essere una caratteristica di capitan Holmes, quella di evitare la vista altrui. Già il giorno precedente aveva avuto la sensazione di avere i suoi occhi addosso, come se si fosse preso la briga di studiarlo, di tentare di carpire ogni suo desiderio o paura, e districare ogni sentimento da quel groviglio informe di emozioni che era l’essere umano. Ciononostante, ricordava bene che mai lo aveva guardato diritto negli occhi mentre gli parlava. Al contrario, molto spesso chinava il viso o si perdeva in contemplazione del vuoto. Come se la capacità dei pensieri di Sherlock o di ciò che dimorava nel suo cuore, fosse incapace di reggere lo sguardo altrui. John era certo di averlo visto imbarazzato e senza parole, al cospetto di Victor Trevor. Il che pareva assurdo al sol pensarci perché come poteva un uomo come lui, dalla lingua tagliente e con la parola sempre pronta ed efficace, esser in realtà timido? Sherlock Holmes aveva sfidato la morte e capitan James Moriarty, era sopravvissuto alla forca e aveva avuto il coraggio di beffare l’Inghilterra, ma nel privato abbassava il viso e voltava lo sguardo perché incapace di sostenerlo? Forse John si sbagliava, magari non era timidezza. Probabilmente lo faceva perché riteneva se stesso superiore, e per certi versi lo era anche. Era migliore di qualunque altro essere umano avesse mai incontrato. Anzi no, Sherlock era un Dio sceso sulla terra e tra i comuni mortali con l’intenzione di giudicarli. Il che, oltretutto, spiegava la bellezza sfacciata e l’intelligenza.

Oh, ma quante sciocchezze pensò a un certo momento. Non importava che cosa nascondesse Sherlock Holmes dietro a quella sua ritrosia e anche se in quel momento c’era un tenue rosa sulle guance o un’atipica insistenza nell’osservare le onde del mare che sbattevano sulla chiglia, non erano affari che lo riguardavano. Fu proprio la voce del capitano, che non aveva perso caldi toni baritonali, a spezzare l’onda impazzita e folle di quei pensieri. A fargli, insomma, riprendere il filo della sanità mentale.
«Se non è chiedere troppo, John, ti pregherei di stenderti sul divano e levare la camicia.» Da perfetto idiota qual era, John si ritrovò a sorridere. Il suo nome faceva uno strano effetto quand’era pronunciato da Sherlock Holmes, si disse che aveva un qualcosa nella maniera di chiamarlo che lo avrebbe fatto balzare in piedi e mettersi sull’attenti, in qualsiasi momento del giorno o della notte. A quello che era senz’altro un ordine evitò di ribattere e preferì obbedire, pur tuttavia senza lasciarsi scappare l’occasione di posare fugacemente lo sguardo su di lui. D’altronde che c’era di male? Sherlock evitava ancora il suo sguardo, quindi non avrebbe corso rischi inutili. E lo fece mentre si allentava i lacci del panciotto e successivamente anche quelli della camicia, sciogliendoli uno dopo l’altro con meticolosa lentezza. Quel mattino, il pirata bianco dava di sé l’impressione di chi non aveva dormito poi molto. Aveva profonde occhiaie, un’aria smunta, guance scavate e pallide, al punto che un qualsiasi medico lo avrebbe definito deperito. Gli zigomi sporgenti e la fronte alta, pallida anch’essa, gli davano un’imperiosità che in quei frangenti pareva quasi divina. Il viso, voltato di tre quarti, era baciato appena dai raggi del sole che carezzavano forme e lineamenti, rendendo la pelle simile all’alabastro. Ora che si era rasato, lavato e cambiato d’abito, appariva ancora più distante di quanto non gli fosse sembrato il giorno precedente. Indossava abiti neri che risaltavano l’incarnato chiaro, pantaloni scuri e ben stretti che accentuavano le lunghe gambe tornite e un paio di stivaloni, neri anch’essi risalivano su fino al ginocchio. Ciò che interessò John sopra ogni altra cosa, fu la collana dalla cui catena pendeva un imponente pendaglio dalla forma tondeggiante, del tutto simile a un doblone spagnolo e che spuntava dalle pieghe della camicia. Alle dita della mano sinistra, infine, una sfilza di anelli d’argento, alcuni dei quali avevano importanti pietre, occupava ogni dito. Era una strana visione, in effetti. Di certo del tutto simile a come si agghindavano molti dei pirati che aveva visto tra Antigua e altre isole non distanti dalla costa; almeno in una cosa, Sherlock somigliava a un bucaniere. Mancava soltanto il cappello, il quale era però abbandonato sopra a una sedia, ora a poco gli sarebbe servito.

«Posso chiederti per quale ragione mi devo spogliare?» gli domandò spezzando una volta per tutte gli indugi proprio mentre già posava il panciotto sullo schienale di una sedia.
«Ti facevo più intelligente, John e ben più dotato di memoria. Hai una mappa sul petto che porta indizi che debbo studiare se vogliamo trovare quel tuo tesoro.»
«So di avere una mappa sul petto, grazie tante» replicò subito, con stizza e guadagnandosi quella che era sembrata un’occhiata di ammirazione. Uno sguardo carico di divertimento e stima che svanì quasi immediatamente da quelle espressioni ora nuovamente gelide. Sebbene fosse complesso riacquistare il filo del discorso, non si fece distrarre e subito riprese a parlare: «Mi domandavo soltanto se in un futuro dovrò correre qui e denudarmi ogni qual volta tu sentirai il bisogno di studiare questo o quel dettaglio. Non credo che il tuo Victor gradirebbe di trovarmi qui mezzo svestito.» Quell’ultima frase era decisamente inopportuna, John lo sapeva bene e inoltre l’aveva sputata con quel pizzico di cattiva ironia che probabilmente nascondeva in sé anche un qualcosa di più. Che ci fosse della gelosia o dell’invidia nei confronti di padre Trevor, John preferì evitare di chiederselo. Non indugiò in certi pensieri, né si premurò di rimordersi la coscienza. Si trovava su una nave stracolma di pirati e aveva già fin troppo frenato la lingua, tante volte aveva rimangiato parole e domande, ricacciandole indietro per timore. Aveva azzardato, lo aveva fatto davvero perché di cose che non capiva ce n’erano davvero un numero elevato, ma l’intimità di capitan Holmes sembrava essere la sola per la quale valesse la pena rischiare un qualcosa. John Watson non era mai stato un codardo o un vigliacco, sebbene la sua storia recente dicesse tutt’altro, mai aveva abbassato la testa. Non aveva paura di Sherlock Holmes, ne era intrigato e forse lievemente invaghito, ma sicuramente non lo temeva. Pertanto sollevò il viso e a pugni stretti si decise ad affrontare il demone. Rimase stupito nel constatare quanto quelle parole avessero sortito il loro effetto e in quale maniera Sherlock aveva reagito. Era infatti roteato su se stesso mentre ora lo fissava senza indugio alcuno. Ora sì che lo stava guardando negli occhi, constatò John. Tuttavia, ancora non ebbe paura e non si preoccupò della rabbia o della profonda indignazione dietro le quali si stava mascherando. Gioì invece e lo fece sinceramente perché c’era un qualcosa che, di nuovo, ebbe la sensazione di aver colto in lui. Sebbene soltanto fugacemente, aveva visto come un’ombra di stupore che ancora adesso gli faceva spalancare la bocca in un moto di sorpresa e forse c’era stato dell’imbarazzo, e un lieve rossore a colorargli le guance. Ciò di cui fu assolutamente sicuro, era che Sherlock era dannatamente attraente.
«Il mio che cosa?»
«Perdona la mia impudenza, capitano» esordì John, dopo qualche istante di indugio «ma sappi che per me va bene se tu e... Beh, è buono, ecco! Nella mia vita ho commesso azioni delle quali ancora oggi mi vergogno e che non potrò mai perdonare a me stesso, quindi lungi da me il giudicare quella che è la tua vita amorosa. Solo che, mi concederai d’esserne sorpreso.»
«Non credo di capire, John» mormorò Sherlock, vivamente confuso.
«Mi riferisco alle voci che circolano su di te, sono perlopiù dicerie alle quali non credevo perché è oltremodo sciocco il dare adito alle chiacchiere dei paesani. Fino a che non t’ho visto di persona e allora una qualche domanda sulla veridicità di certe storie me la sono posta. Il tuo aspetto è curato, la parlantina veloce. Sei un uomo intelligente, piacevole da guardare e dopo quello che ti ho visto fare ieri sono più che sicuro che saresti in grado di far fare di tutto a qualunque uomo o donna. Sì, ecco, una di quelle storie sostiene che hai profanato un intero convento di monache, le quali hanno finito col rovinarsi a causa tua. Alla luce di quel racconto, è strano il saperti in una relazione amorosa con un altro uomo.» A fronte di quelle parole, se possibile, Sherlock aveva ancora di più aperto la bocca. Era buffo a guardarsi, perché l’evidente rossore delle guance contrastava in maniera netta con la rabbia che gli si leggeva nello sguardo. Aveva forse osato troppo? Aveva da temere per la vita? Era vero avevano un accordo, ma quanto valeva la parola di un pirata?
«Per prima cosa» esordì il capitano, qualche istante dopo essersi fatto pericolosamente vicino. Aveva uno sguardo duro e minaccioso e le sue espressioni erano nuovamente mutate, al punto che John stesso si sentì stordito e confuso. Quante emozioni provava quell’uomo? E quante una di fila all’altra? «Non era affatto un intero convento, ma una sola monaca e poi quell’uomo non ero io, ma Victor che per farsi beffe di me e del mio esser disinteressato a certe sciocchezze come l’amore, un giorno si mise a urlare nel bel mezzo di una piazza che Sherlock Holmes, il pirata bianco, aveva sverginato un intero convento di suore. Era una menzogna bella e buona, così come lo è il fatto che io e lui siamo legati da un qualcosa. Non so che cosa ti abbia raccontato o quali stupide idee la tua mente idiota abbia formulato, ma io e quel falso prete non siamo legati da alcun tipo di relazione sessuale. E se ti riferisci a quanto successo prima, quello era soltanto un bacio e niente di più» concluse, in un soffio prima di riprendere. «Ora, se non ti dispiace levarti la camicia, sarebbe davvero ottimo se tacessi e se mi facessi il favore di smetterla di pensare. È fastidioso quando a farlo sono gli idioti.»

Nel sentirlo parlare a quella maniera, John chinò il viso come in segno di resa. Non si sentiva offeso, più che altro era stupito. Si era fatto un’idea completamente sbagliata su quel pirata e anche le successive deduzioni, fatte dopo averlo osservato, si stavano dimostrando altrettanto errate. Chi era Sherlock? Quante sfaccettature caratteriali c’erano in lui? E quali teneva segretamente nascoste? Ma soprattutto, se era vero che tra lui e Victor non esisteva alcun rapporto amoroso, come aveva fatto quel prete ad ottenere una tale fiducia? Era chiaro che Sherlock non mostrasse tanto spesso se stesso, quindi cosa c’era in Victor di speciale? E lui? John sarebbe stato mai capace di capirlo? Sì, un uomo qualsiasi avrebbe di certo temuto quegli occhi o la durezza delle espressioni del volto, un qualcun altro avrebbe probabilmente implorato pietà o abbozzato chissà quale raffazzonato discorso di scuse. John invece rise. E la sua risata, che esplose tutta a d’un tratto in quella caotica cabina, coprì di stupore le intenzioni di Sherlock Holmes, nobile e pirata.
«Oh, immagino proprio di esserlo» borbottò, continuando a sogghignare. Aveva esagerato con quei discorsi sull’intimità, in fondo era praticamente uno sconosciuto ed era comprensibile un atteggiamento più chiuso. Certamente Sherlock aveva già capito svariate cose di lui, ma restava pur sempre un perfetto signor nessuno. Quella nave, la Norbury e i suoi pirati gli erano apparsi molto di più di un gruppo di canaglie, erano una famiglia e a guardarli, ora che ci viveva in mezzo, John quasi si sentiva un estraneo. Li aveva inseguiti senza pensare, aveva accettato di condividere un tesoro di cui solo la ricerca gli importava, ma non aveva mai pensato di trovare una famiglia. Si domandò, forse per la prima vera volta e lasciando da parte quel quasi innamoramento in cui era caduto, se un giorno o l’altro avrebbe avuto l’onore di far parte di quell’agglomerato di strani individui. Per ora era "l’uomo con la mappa", ma in futuro? Sherlock gli avrebbe permesso di scegliere il proprio destino e rimanere a bordo oppure lo avrebbe cacciato?
«Hai ragione, sono un idiota e mi dispiace averti fatto innervosire. Mi sono immischiato in affari che non mi riguardano» mormorò mentre si stendeva sul piccolo sofà e notava quanto Holmes tentasse di non apparire stupefatto da tanto divertimento «ma quando sono arrivato, poco fa, la porta era aperta e ho visto il bacio e…»
«John» lo interruppe, spezzando un ragionamento che non sarebbe comunque andato da nessuna parte. «Io mi ritengo sposato con questa nave, sarà bene che tu lo sappia. Quello che faccio, sebbene non possa essere considerato rispettabile dalla società inglese, è per me un lavoro. Sono legato profondamente a esso, a la Norbury e a questo equipaggio. Le relazioni amorose non sono la mia area di competenza e non lo saranno mai. La sola persona che amo è Victor e mai niente spezzerà ciò che provo, ma non esiste e non esisterà mai alcuna relazione di letto.» Detto questo si sedette al tavolo e una volta recuperati carta e pennino, si mise a disegnare. John, dal canto proprio e nonostante comprendesse ben poco di quel complicato rapporto, evitò di porre ulteriori domande. La sola cosa che si preoccupò di annotare, fu che avrebbe voluto tanto discutere quella faccenda con Victor Trevor.
 


 
oOoOo



Per tutto il tempo in cui John restò disteso sul divanetto, Sherlock non fece che guardarlo. Anche se sapeva essere uno studio mirato alla mappa, non poté negare che fosse piacevole l’idea di esser osservato con così attenta dedizione. Di tanto in tanto lo vedeva abbassare gli occhi sulla carta, per poi rialzarli le volte in cui ne sentiva maggiormente bisogno. Erano quelli i momenti che John preferiva. Ciò che c’era nello sguardo di Sherlock, ogni particolare che riusciva a carpire era quanto di più bello avesse mai visto. Si notava l’eccitazione e poi la cura ai dettagli, ma anche una seria determinazione d’intenti. In certi altri momenti, invece, il torpore del corpo rilassato lo portò quasi a far vagare i pensieri altrove, su sciocche fantasie. Gli sembrò di essere l’ispirazione di un pittore, una sorta di musa da cui prender fattezze e lineamenti a modello. Fingeva di essere una giovane svestita e in posa per un dipinto. Il che non era poi tanto distante dalla realtà, d’altra parte era ciò a cui serviva la sua presenza lì, quello per cui era stato accettato a bordo. Per un frangente se ne sentì lusingato, perché per un qualcuno valeva un qualcosa. Serviva a un qualcosa. Tuttavia quella piacevole e inebriante sensazione non durò altrimenti. Se Sherlock stava facendo una copia della mappa del tesoro, che ne sarebbe stato di lui? Che fine avrebbe fatto John Watson?

Ad ogni modo, disteso su quel sofà ci rimase per un’intera mattinata. Doveva esser passato il tocco quando Sherlock sollevò lo sguardo dalle carte, sentenziando d’aver terminato quella che doveva essere certamente un’opera d’arte. Con riluttanza dovette ammetter di essersi addormentato a un certo momento, ma a sua difesa poteva dire che la meticolosa precisione che capitan Holmes aveva impiegato in quella copiatura, era degna di un cartografo. Il risultato, naturalmente, fu stupefacente. John ebbe modo e maniera di ammirarlo non appena si fu rivestito, dopo essersi avvicinato al tavolo non senza nascondere una certa curiosità. Il disegno era straordinariamente preciso, stilato alla perfezione e Sherlock era stato davvero abile a differenziare il tratteggio che raffigurava l’isola, dalle pieghe e dalle rughe che la pelle naturalmente assumeva. Quanto ne risultò ora della fine portò le sue stanche membra ad avere un leggero indolenzimento alla schiena, ma anche un ammirato e sincero stupore nei confronti di un uomo le cui abilità divenivano sempre più numerose.
«Stupefacente!» esclamò prendendo il foglio di carta per entrambi i lembi e osservandolo con attenzione. Era piuttosto strano, rifletté e non fu neanche in grado di spiegarsi le ragioni. In verità si sentiva come liberato da quella che era, in fin dei conti, stata una prigione. Ciò che per mesi lo aveva costretto alla solitudine più nera e all’evitare i contatti con le persone, stava ora su carta allo stesso modo di come ci stava un qualunque altro scritto o testo. Ciononostante sapeva che il disegno non era affatto svanito dal proprio corpo e che ancora qualcuno avrebbe potuto scoprirlo e tentare di fargli del male. Ad ogni modo non volle indugiare in quei pensieri, non in quel momento e riportato lo sguardo alla mappa, ne studiò ogni tratto e luogo lì disegnato.

«Davvero strano» sussurrò a un certo punto, dando voce a certi pensieri. Aveva sempre guardato l’isola riflessa in uno specchio, ma non si era mai reso conto di quanto dettagliata fosse.
«Cos’è strano?»
«Vederla su un foglio. Per tutto questo tempo ne ho studiato ogni dettaglio, ogni punto e spesso cercavo di ricordare come fossi prima. Molti ricordi svaniscono col tempo, sarò stupido ma mi pare d’esserci nato con questa sciagura.»
«Che idea ti sei fatto? Della mappa intendo» gli chiese Sherlock.
«Beh, questi simboli fuori dai contorni credo si riferiscano a indizi su come trovare l’isola, non so, dei segni per riconoscere il luogo.»
«Ma bene» annuì Sherlock, sorridendo di quella che pareva soddisfazione. «Era esattamente quello a cui stavo pensando e non temere, John Watson, non verrai ucciso ora che ne ho una copia.»
«Io non…» si difese, sebbene debolmente. «Come fai a saperlo? Come fai a sapere a cosa penso?»
«Ci hai riflettuto sempre, almeno lo hai fatto da che ti sei steso sul sofà. Come lo so? Quando rimugini ti si forma una ruga sulla tempia e ti passi la lingua sulle labbra, questo lo fai spesso in effetti. Piuttosto buffo da guardare. Ma comunque, ora non abbiamo tempo per questo. Devo mostrare la mappa a Mastro Stamford e devo farlo subito.» Ciò detto, Sherlock vorticò velocemente su stesso. In un gesto sbrigativo prese bussola, sestante e cannocchiale. Con la mappa stretta tra i denti prese la porta uscendo in tutta fretta. Si fermò soltanto per un istante, sulla soglia, voltandosi di poco.
«Muoviti, John, non ho tutto il giorno» gli ordinò, sparendo nella penombra dell’atrio. John ci rimase per qualche istante da solo nella cabina del capitano, incredulo del fatto che fosse stato invitato a partecipare a un qualcosa che riguardava Sherlock e il suo equipaggio. Forse avrebbe dovuto sbrigarsi, eppure indugiò appena qualche istante. E sotto lo sguardo sonnacchioso e pacifico di Redbeard, John sorrise come non faceva da mesi. Era quella la felicità?
 
 


Continua
 
 
*Ho deciso di dare a John una formazione cristiano-cattolica. All’epoca in cui i fatti sono narrati e nonostante lo scisma di Enrico VIII, erano ancora pochi i seguaci della chiesa anglicana. Si può parlare di spaccatura nel popolo e tanto che alcuni cristiani arrivarono ad atti di repressione violenti, in quanto ritenevano gli scissionisti come indemoniati.  
**Khayr al-Din Barbarossa nato nel 1466 (circa) e morto nel 1546 fu corsaro e ammiraglio di flotta al soldo dell’impero ottomano. Ho ritenuto che il suo nome, considerate le imprese compiute, potesse essere noto già nel 1655, anno in cui questa storia è ambientata.

Due parole sul cane. Redbeard è un Setter irlandese, che ha un tipico colore del pelo tra il rosso e il mogano. Si diffuse in Irlanda come cane da ferma, usato per la caccia. Da quello che sono riuscita a capire se ne hanno tracce fin dal 17° secolo, per questo ho ritenuto plausibile la sua presenza.

Questa settimana è stata ancora più difficile di quella scorsa, pubblicare oggi è stata davvero dura. Ma ringrazio tutti per le recensioni e il sostegno, in particolare setsy il cui calore umano si scontra sempre con quel muro di incapacità di comunicare che è la sottoscritta.
   
 
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