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Autore: Stella Dark Star    30/03/2017    0 recensioni
Per Andrea Pazzi e Lucrezia Tornabuoni è amore a prima vista quando s’incontrano nella basilica di San Lorenzo durante il funerale di Giovanni de’ Medici. Il problema è che entrambi sono sposati e per di più le loro famiglie sono nemiche naturali. Ma questo non basterà a fermarli. Tra menzogne e segreti, l’esilio a Venezia cui lei prenderà parte e il ritorno in città della moglie e i figli di lui, sia Andrea che Lucrezia lotteranno con tutte le loro forze per cercare di tenere vivo il sentimento che li lega. Una lotta che riguarderà anche gli Albizzi, in particolar modo Ormanno il quale farà di tutto per dividerli a causa di una profonda gelosia, fino a quando un certo apprendista non entrerà nella sua vita e gli farà capire cos’è il vero amore.
Consiglio dell'autrice: leggete anche "Delfina de' Pazzi - La neve nel cuore", un'intensa e tormentata storia d'amore tra la mia Delfina e Rinaldo degli Albizzi.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo cinque
Tramando nell’ombra
 
L’alba non era ancora sorta sulla città di Firenze e le ombre si muovevano spettrali contro le pareti dei palazzi, delle chiese, dei cunicoli malfamati. Il silenzio era talmente profondo che i passi di Rinaldo riecheggiarono come colpi di cannone sul selciato. Giunse fino alla piccola piazza dove, all’angolo, vi era la bottega dello Speziale, l’unico uomo della città ad aprire molto presto e a chiudere molto tardi per vendere rimedi di ogni tipo a chiunque glieli chiedesse.
Entrando, Rinaldo fu accolto da una semplice torcia che faceva ben poca luce. La cosa non gli importò. Chiuse la porta dietro a sé e andò fino al banco, dietro il quale si trovava l’uomo di cui aveva bisogno, lo speziale cieco da un occhio e col viso per metà sfigurato per chissà quale incidente. L’occhio azzurro funzionante tremò nel riconoscere chi era entrato nella bottega.
“Messer Albizzi.” Deglutì, intimorito.
Rinaldo certo non fece nulla per metterlo a proprio agio, anzi parlò con quella voce profonda che amava usare anche con la Signoria: “Ho bisogno dei vostri talenti, speziale.”
L’uomo fece una leggera riverenza: “Servo vostro, mio Signore. In cosa posso esservi utile?”
“Come saprete, sto partendo per difendere la città di Lucca e ho bisogno che voi assolviate un compito per me.”
Lo speziale rimase in attesa del seguito, un mezzo sorriso educato che cercava di tenere sulle labbra.
Rinaldo si sporse sul banco e parlò chiaramente: “Dovete avvelenare Lucrezia de’ Medici.”
“A-avvelenare?” Balbettò il poveretto.
“Dovrete essere cauto, però. Non voglio una morte rapida ed evidente. Preferirei che fosse graduale, in modo che nessuno sospetti che si tratta di veleno.”
“Ma io come posso giungere a lei? Messere, temo che la vostra richiesta sia inattuabile.” Disse velocemente, in propria difesa.
Facendo dei cenni col capo, Rinaldo si ritrasse per riflettere sul da farsi. Con la mano si lisciò la sottile barba disegnando un arco dalle guance al mento. Quando posò di nuovo lo sguardo sullo speziale, chiese: “Voi lavorate da solo?”
“No, Messere. Ho a servizio un paio di ragazzi che mi aiutano nelle commissioni e che mi sostituiscono nella bottega quando devo assentarmi per cercare erbe.”
“Bene. A partire da oggi, uno di quei ragazzi lavorerà esclusivamente per me. Voglio che segua i movimenti di Andrea Pazzi e dei suoi servitori, che sia la loro ombra. E così facendo, sono certo che riuscirete ad arrivare anche a Lucrezia.”
Lo speziale era visibilmente confuso: “Pazzi? Posso chiedere qual è il nesso tra lui e…”
Rinaldo lo interruppe congelandolo con lo sguardo: “Questo non vi riguarda. Fate come vi ho detto e riceverete una sostanziosa somma di denaro.” Prese un sacchetto dalla cintola e lo sbatté sul banco per far sentire il suono del suo contenuto. Lo speziale ne fu deliziato.
“Questo è un anticipo. Quando tornerò dalla guerra mi aggiornerete sulla situazione. Mi aspetto che riusciate nel vostro incarico e, ovviamente, che non ne facciate parola con anima viva.”
L’uomo chinò il capo: “Sarò muto come una tomba, non avete di che temere.”
Soddisfatto dell’accordo preso, Rinaldo fece un cenno col capo e se ne andò. Ora che aveva sistemato quella questione, poteva partire tranquillo.
*
Ormanno si lasciò ricadere sull’erba del prato, all’ombra di un albero. Si era allontanato di proposito dal Fronte per poter stare solo coi propri pensieri e per respirare aria pura, eppure, anche da quella distanza, di tanto in tanto una folata di vento contrario gli riportava l’odore nauseabondo del campo di battaglia, odore di sangue e fango, odore di corpi in decomposizione sotto il sole estivo. Quando invece il vento si placava, gli giungevano alle narici odori piacevoli di natura, di varietà di piante selvatiche e fiori, allora riusciva a rilassare le membra e lasciare che l’erba piacevolmente umida e fresca lo rigenerasse, gli togliesse di dosso un po’ di sudore e di terra. Era stato tentato di abbandonarsi ad un sonno ristoratore ma, appena aveva chiuso gli occhi, nella mente erano comparse le immagini delle battaglie che si susseguivano da quando era arrivato. Era un ragazzo coraggioso e ben addestrato, non aveva mai lasciato che la paura lo bloccasse, ma trascorrere giorni interi sotto il sole cocente o sotto acqua e fulmini di un temporale improvviso lo stavano stremando. Dei volti dei nemici affrontati sul campo non ne ricordava nemmeno uno, mentre invece il clangore delle spade e le grida dei feriti, dei mutilati, dei moribondi, non volevano lasciarlo in pace. Quando sarebbe finita quella dannata guerra?
Cercò di rilassarsi guardando il cielo limpido, seguendo con lo sguardo alcune piccole nuvole bianche che vagavano trasportate da un leggero vento. Aveva bisogno di fare un bagno e, dal pizzicare sul viso, anche di tagliare la barba. Ma non in quel momento, in cui voleva solo isolarsi dal mondo e riposare prima dell’ennesima battaglia.
“Quanti giorni ancora mi separeranno da Firenze?” Chiese in un sussurro, lo sguardo rivolto al cielo ma la mente rivolta alla sua città. E quel pensiero pian piano andò alla ricerca di una persona in particolare che si trovava là. Socchiuse gli occhi e concentrò la propria attenzione sull’udito. In risposta gli arrivò solo il vento tra le foglie sopra di lui, un rumore tranquillo ma che non gli diceva nulla di concreto. Un’altra risposta gli arrivò per vie più interne, senza bisogno di usare alcun senso.
“Quando si dice il richiamo della natura!” Sbuffò infastidito, dovendo alzarsi dal comodo giaciglio.
Scelse uno degli alberi lì vicino, tanto nessuno lo avrebbe visto, nessuno sapeva che era lì. Slacciò le braghe e pazientò che la vescica si svuotasse, mentre con lo sguardo scrutava l’area tutta attorno. In effetti c’erano parecchi fiori tra l’erba e qua e là poteva vedere intere aiuole naturali dai colori tenui, su cui ronzavano api e altri piccoli insetti.
Soddisfatto il bisogno imminente, Ormanno decise di soddisfare anche la propria curiosità e andare a vedere quei fiori di persona. Fece solo pochi passi ed ecco che qualcosa attirò la sua attenzione. Seminascosto da un cespuglio trovò un piccolo tesoro, un’aiuola di giaggioli bianchi che danzavano nel vento e emanavano un dolce profumo.
“Firenze!” Disse, sorridendo, ricordando che quei fiori erano anche chiamati Gigli di Firenze proprio perché rappresentavano il simbolo della città. Si chinò su un ginocchio e allungò una mano con l’intenzione di sfiorarli, ma si fermò. La sua mano era sudicia di battaglia, non voleva deturpare il bianco candido di quei fiori.
“Una grazia dal cielo. Un segno che vinceremo e che tornerò presto a casa.” Con entrambe le mani armeggiò per spezzare il lungo gambo di uno dei fiori, quindi si rimise in piedi e, per non rischiare di rovinarlo, lo infilò nella cintola. Ripercorse la via del ritorno con ritrovato vigore, come se avesse bevuto un potente nettare che gli aveva fatto dimenticare fatica e malumori. Era diretto alla propria tenda quando una voce lo fermò: “Ormanno, dove sei stato?”
Si voltò e incrociò lo sguardo di suo padre.
“Sono andato ad esplorare il terreno laggiù. Per sicurezza. Ma non ho trovato nulla.”
Rinaldo, anch’esso sudicio di fango e sporcizia e stretto dentro ad una corazza, abbassò lo sguardo di ghiaccio sulla cintola del figlio: “E quello cos’è? Non sarai diventato una donnicciola, spero.”
Ormanno seguì il tragitto dello sguardo e, vedendo dove puntava, si affrettò a chiarire: “Oh questo. L’ho trovato per caso. Credo sarà di buon auspicio.”
Rinaldo fece dei cenni col capo, seguendo il suo ragionamento: “Il Giglio di Firenze. Sì, potrebbe portar bene.” Per poi irrigidirsi tutto un tratto e parlare seriamente: “Non sbandierarlo troppo. Abbiamo bisogno di ben altro che di un fiore per sconfiggere quel dannato Sforza.” Quindi gli lanciò un’occhiata severa e se ne andò altrove.
Ormanno lo seguì con lo sguardo alcuni istanti, poi scosse il capo per scacciare le parole del padre e andò dritto nella propria tenda.
Si mise seduto al piccolo scrittoio, parlando tra sé: “Se lui non capisce, conosco chi invece lo apprezzerà.”
Intinse la penna e scrisse qualche riga sul foglio di pergamena, per poi arrotolarla. Si rialzò e andò a rovistare in un cumulo di abiti finché non trovò un pezzo di tessuto nero strappato che in origine faceva parte di un suo mantello.
“Andrà bene.” Andò a stenderlo sullo scrittoio e sopra vi ripose con cura il giaggiolo e la pergamena, quindi arrotolò il tutto e lo chiuse con un laccio.
Con il pacchetto sottobraccio, si aggirò per l’accampamento in cerca di un messaggero. Quando ne scorse uno, lo richiamò con un fischio e gli fece cenno di avvicinarsi. L’uomo fortunatamente aveva un bell’aspetto, invero indossava abiti puliti e i suoi stivali dovevano essere stati spazzolati da poco, il che avrebbe attirato meno l’attenzione una volta giunto in città.
“Ho un incarico per te, ma non farne parola con nessuno. Soprattutto con mio padre.”
“Sì, mio Signore.”
Ormanno gli porse il pacchetto: “Porta questo a Firenze. Ma fai attenzione, è delicato.”
Il messaggero lo prese: “A chi devo recapitarlo?”
Lui si sporse per parlargli all’orecchio e l’uomo annuì.
“Un’ultima cosa. Non dire chi ti manda e nemmeno da dove arrivi. Chi riceverà il dono capirà ugualmente. O almeno lo spero.” Aggiunse Ormanno.
Il messaggero fece un ampio cenno col capo: “Parto subito, mio Signore.”
Non era poi certo che quel dono fosse gradito, ma voleva comunque fare un tentativo. Erano settimane che mancava dalla città e non sapeva cosa stesse accadendo mentre lui era lontano. Sperò solo che la situazione non si fosse aggravata in sua assenza, che quella persona non avesse fatto nulla di sconsiderato. Il pensiero di una discussione spiacevole fatta tempo prima, lo irritò, e dai suoi occhi neri emerse una scintilla sinistra.
  
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