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Autore: LysL    02/04/2017    2 recensioni
Tutti, in quel piccolo villaggio sperduto sui monti Urali, conoscevano la leggenda; Otabek era cresciuto sentendo raccontare della terribile Regina di ghiaccio e del suo castello, nascosto tra le nebbie della montagna, oltre il bosco innevato, in quelle terre che il sole non riusciva a raggiungere.
Dal testo:
Una mano gli artigliò la spalla e Otabek fu costretto a girarsi per assecondare quel movimento; la mano lo spinse in ginocchio nella neve e Otabek percepì la lama spostarsi dalla propria gola fino alla nuca. Era ancora in posizione di svantaggio, ma almeno adesso poteva parlare.
«Chi sei?» chiese e ricevette un calcio tra le scapole; il colpo gli strappò il fiato dai polmoni e lui si ritrovò a boccheggiare, tossendo del sangue per terra, il sapore ferroso gli riempì sgradevolmente la bocca.
«Chi sei
tu? E come ti permetti di venire qui e parlarmi come se fossi un tuo pari.» La testa gli venne strattonata all’indietro e solo in quel momento Otabek vide chi realmente gli stava parlando.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Mila Babicheva, Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo II

 

Tra le tante cose successe la sera prima che Otabek non riusciva a spiegarsi, una in particolare continuava a non dargli pace. Ci ripensò la mattina dopo mentre, di fronte al fuoco rovente della fucina, aiutava Feliks a forgiare una lama. Il clangore assordante del martello contro il pezzo di metallo ancora malleabile inghiottiva qualunque altro rumore e il calore insopportabile gli fece rimpiangere di non aver preso un fazzoletto da legarsi sulla fronte, perché le goccioline di sudore continuavano ad oscurargli la vista, impigliandosi alle sue ciglia.
Fissava le scintille gialle e arancioni che si spegnevano sul suo guanto di pelle; il movimento monotono del braccio era ormai diventato meccanico per lui, cosa che gli lasciava la possibilità di pensare anche ad altro e non rischiare di schiacciarsi un dito sull’incudine.
La sera prima, tra la paura ed il sollievo di essere rimasto vivo, non aveva avuto né il tempo né la voglia di riflettere bene su ciò che era accaduto alla radura e nel bosco; con l’adrenalina in circolo e la fretta di salvare quel ragazzo, il suo cervello non si era soffermato sull’immagine dei due banditi che crollavano a terra senza emettere un suono e solo adesso, con la mente più libera e lucida, quel particolare era tornato a tormentarlo.
I due corpi si erano accasciati su loro stessi, come due marionette a cui fossero stati tagliati i fili, e Otabek non aveva mai visto accadere qualcosa del genere; la cosa più simile a quello che riuscisse a ricordare era successa anni prima al suo villaggio, durante una giornata di festa: nel bel mezzo di una tipica danza popolare, eseguita al centro della loro piccola piazza, una donna che non conosceva bene si era irrigidita di colpo, rovinando sulla strada polverosa.
Otabek ricordava che il suo corpo venne scosso da tremori incontrollati e la sua bocca si muoveva senza emettere alcun suono, fino a quando non la chiuse del tutto e prese a gemere; sua madre gli era corsa incontro, Ayzere appesa al suo collo che nascondeva il visino nella sua spalla e gli aveva coperto gli occhi con una mano, ma questo non gli aveva impedito di sentire. Dopo qualche secondo i gemiti si fermarono, diventando lunghi conati e versi rauchi, grida strozzate come quelle delle galline a cui veniva tirato il collo, alla ricerca di aria. Poi tutto d’un tratto, era calato nuovamente il silenzio e sua madre cominciò a spingerlo verso casa, dandogli uno scappellotto sulla nuca quando lui provò a guardarsi indietro. La donna era immobile e un sottile rivoletto di sangue le colava dalle labbra.
Ricordava perfettamente quella scena e come fosse stata protagonista di molti suoi incubi, da bambino, finché non se liberò negli anni dell’adolescenza. Eppure sapeva che non era lo stesso caso: quegli uomini non avevano avuto delle convulsioni, non avevano urlato e non sembravano sofferenti, piuttosto, rifletté, sembravano solo addormentati, come se i loro muscoli si fossero rilassati tutti nello stesso momento. C’era un senso di familiarità in quella spiegazione, qualcosa che gli stuzzicava la memoria e gli sfuggiva, sebbene Otabek non riuscisse a capire da dove provenisse.
Quando Feliks spinse la lama dentro la vasca d’acqua fredda lì vicino, il vapore della tempra gli soffiò sulla faccia, investendolo con quell’odore umido di ruggine mista a bruciato. Soffocò un colpo di tosse, sotto gli occhi attenti dell’uomo, gli occhi che prendevano a lacrimargli. Si passò un braccio sul viso.
«Cosa ti prende, ragazzino? Non sei concentrato come al solito.» lo riprese. Entrambe le sue sopracciglia folte erano inarcate e l’uomo lo stava guardando con un cipiglio preoccupato e anche un po’ severo.
Otabek sospirò. «Sono ancora piuttosto scosso per ieri, credo.» rispose, sperando che Feliks non volesse parlare dell’argomento, perché non era sicuro di cosa fosse conveniente dirgli o meno, e per sua fortuna Feliks gli credette, annuendo. «So che sei stato bravo con quella spada! Avrei voluto vederti!» esclamò con un sorriso, senza dubbio in un tentativo di tirargli su il morale. Aveva nuovamente posato la lama sull’incudine e la stava osservando con aria critica.
Otabek sorrise, e si strinse nelle spalle. «Mila esagera sempre troppo.» Feliks annuì, senza bersi nemmeno una parola. Gesticolò con la mano. «Ah, già, Mila. Chi è questa ragazza, di preciso?» Otabek volle alzare gli occhi al cielo, l’ultima cosa che gli serviva era una paternale.
«Un’amica.» borbottò, senza la minima voglia di continuare quella conversazione, ma Feliks era di tutt’altro avviso e Otabek lo capiva, perché dal punto di vista dell’uomo il loro era un rapporto inspiegabile. Era un bene che non né lui né Mila dessero troppo ascolto alle malelingue del paese, e Otabek si riteneva anche abbastanza fortunato che a Feliks non importasse nulla dei pettegolezzi, perché un uomo più severo l’avrebbe già licenziato, considerate tutte le volte che Mila andava a fargli visita.
«È molto bella.» commentò Feliks e Otabek si ritrovò ad annuire distrattamente, perché dopotutto anche un cieco avrebbe potuto vedere che Mila era una bellezza rara, di quelle che si incontrano una volta sola nella propria vita. Peccato che fosse appaiata ad un carattere incompatibile con il suo, almeno romanticamente parlando.
«Stai pensando di chiederla in moglie?»
Otabek sussultò, colto di totale sorpresa da quella domanda detta in tono serio e anche un po’ malizioso; alzò la testa di scatto e fissò Feliks dritto negli occhi. «Assolutamente no.»
L’uomo rise e agitò la mano con cui teneva il martello e con cui aveva ripreso a modellare la lama. «Non ti scaldare, ragazzino, era una domanda legittima. Ogni ragazzo della tua età dovrebbe pensare a sistemarsi.» replicò lui, senza guardarlo; Otabek si rese conto in quel momento del modo sgarbato in cui gli aveva risposto.
«Mi scusi, signore, ma no, non ci sarà alcun matrimonio tra me e Mila.» e il solo dirlo ad altra voce lo convinse di quanto sbagliate suonassero le parole “Mila” e “matrimonio” nella stessa frase.
Feliks emise un suono poco convinto, ma riprese a dare martellate sull’incudine, per affilare il taglio della lama. Le rifiniture sarebbero toccate a Georgij, che aveva proprio un tocco magico quando si trattava di intarsiare ed incidere a freddo.
La parola magico rimase più a lungo nella sua mente, lambendo ai suoi ricordi, come se provasse a fargli realizzare qualcosa che però continuava a non palesarsi.
«…con un veloce movimento del polso, una stregoneria, senza dubbio, mi fece cadere in un sonno profondo.»
La voce di Yakov gli rimbombò nelle orecchie, e si rivide lì, accanto al fuoco, ad ascoltare il racconto dell’uomo, con una sua sorella seduta tra le gambe.
Ed era così ovvio. Solamente la magia era capace di ridurre due uomini grandi e grossi a pargoli dormienti ed indifesi, era così ovvio, così scontato, così spaventoso. Otabek non era stupido, dopo quella realizzazione non ci mise molto a collegare la magia e il ragazzo del giorno prima. I suoi abiti, le movenze, il modo in cui era scappato. Il suo viso non era spaventato, non stava fuggendo da lui e Mila, no, il ragazzo se ne stava andando. Ciò che non capiva era perché avesse lasciato che lo aiutassero, se era perfettamente capace di cavarsela da solo, e se era lui l’ombra che l’aveva guidato da Mila e fuori dal bosco, perché l’aveva fatto? Erano stati loro ad entrare nei suoi domini, avrebbe potuto guidarli dalla Regina e loro non avrebbero potuto fare niente, se non morire della stessa sorte toccata ai tanti prima di loro.
«Ecco qui! Questo era l’ultimo pezzo di oggi, Otabek. Puoi andare, penso io a sistemare la fucina.» esordì Feliks, dopo qualche altra martellata. Otabek annuì brevemente, togliendosi i guanti di pelle e il grembiule macchiato di fumo.
 
 
Sua madre, da piccolo, gli diceva sempre che la curiosità portava guai e sin da quando aveva memoria, Otabek aveva sempre cercato di essere responsabile, di fare ciò che era giusto ci si aspettasse da lui. Non era responsabile uscire dal villaggio a quell’ora di notte e con la neve che non aveva smesso un attimo di cadere, non era responsabile portare Astra con sé, non era responsabile voler andare a cercare quel ragazzo, ma per una volta non gli importava. Per una volta, Otabek lasciò che fosse il suo istinto, senza freni inibitori a guidarlo fuori dalla propria stanza, fino alla stalla di Astra. Lei scosse la testa quando lo vide e Otabek le sorrise, allungandole un pezzo della mela che aveva mangiato per cena. Astra lo sgranocchiò felice ed emise un suono basso e soddisfatto.
«Anch’io sono felice di vederti, bellezza. Ho bisogno di te, stanotte.» le accarezzò un fianco, per poi porsi di fronte al suo muso e poggiarle una mano tra gli occhi. Astra nitrì piano.
«Scusami.» mormorò, prendendo la sella dalla staccionata e assicurandola al suo dorso. Le salì in groppa velocemente, e la spronò verso i confini del villaggio.
Il percorso a ritroso era ancora più inquietante. Le stelle fornivano una debole luce argentata, che si rifletteva sull’elsa delle sua spada e sulle componenti metalliche della sella di Astra, proiettando dei tremuli brillii sul suolo gelido, mentre gli zoccoli della cavalcatura affondavano piano nella neve con un rumore soffice e attutito.
Otabek teneva lo sguardo fisso sul confine della foresta; oltre gli alberi gli pareva di vedere un affollarsi di ombre e fruscii, e la cosa peggiore era non riuscire a capire se si trattasse solo illusioni create dalla sua mente suggestionata o ci fosse realmente qualcuno che lo seguiva. Decise di non pensarci troppo, dopotutto non era neanche sicuro di volerlo davvero sapere.
Continuò a galoppare fino alla radura dove il giorno prima lui e Mila avevano trovato quel ragazzo. Anche quella mezzaluna di alberi, che di giorno poteva anche essere ritenuta accogliente, era avvolta dalla luce troppo debole, le ombre dei tronchi proiettate sulla neve vergine come tante, nodose sentinelle.
Astra era nervosa, indietreggiava dal confine del bosco, come se anche lei avvertisse qualcosa di sbagliato, ma Otabek si piegò in avanti, sussurrandole un incoraggiamento nell’orecchio; si sentiva crudele a farle questo, lei era sempre stata leale nei suoi confronti e non voleva metterla in pericolo, ma doveva sapere.
Si fermò proprio vicino ad una roccia più sporgente che poteva servire da riparo. Sotto la volta di pietra la neve non era arrivata e Otabek lasciò le redini. Si fidava abbastanza della sua cavalcatura da non lasciarla legata, così se avesse avuto bisogno di scappare, avrebbe potuto farlo.
«Tornerò presto, promesso.» Astra lo fissò con un occhio solo e gli diede un lieve colpo con la testa. Otabek le accarezzò la criniera. «Promesso.»
Fuori il vento non era molto forte, ma i fiocchi di neve, leggeri, turbinavano piano, sciogliendosi a contatto con il suo viso e oscurandogli la vista. Arrancò fino al confine del bosco, appoggiandosi agli alberi, senza però oltrepassare quella linea immaginaria. Sentiva uno strano formicolio alla nuca; intorno a lui non c’era che una distesa bianca e silenziosa da un parte e il bosco, con la sua magia e l’oscurità, dall’altra. Lui stesso era in balia di qualunque cosa ci fosse là dentro. Avrebbe potuto trattarsi di animali feroci, stregoni mutaforma, o di un semplice ragazzo, ma Otabek non era più nella condizione di potersi tirare indietro.
«So che ci sei.» disse, a voce bassa, perché sapeva che, ovunque fosse quella persona, poteva sentirlo comunque. «Non sono qui per farti del male, ma non entrerò nel bosco, se è questo che vuoi. Non so perché tu mi abbia aiutato una volta e non rischierò di nuovo. Se vuoi attaccarmi, dovrai mostrarti e scontrarti con me corpo a corpo.»
Gli rispose solo il silenzio della montagna, ma Otabek non si scoraggio, dopotutto sapeva di non potersi aspettare né una risposta immediata.
«Eri tu quella notte di settimane fa? Quella figura che ha fatto spaventare il mio cavallo, vero?» continuò, senza permettersi di rilassarsi neanche per un secondo. «Ti assicuro che non voglio farti del male, puoi mostrarti, io non ti attaccherò.» provò di nuovo, e sospirò nell’accorgersi che quella strategia non lo stava portando a nulla di concreto. Forse avrebbe dovuto entrare nel bosco, allora la figura avrebbe dovuto farsi vedere per forza, se non altro per portarlo al castello della Regina, o per farlo perdere ancora di più nel fitto della foresta, in modo da non doversi preoccupare mai più di lui. Posò una mano su uno dei tronchi, sentendo la corteccia ruvida e fredda sotto il palmo, le dita dell’altra mano che stringevano forte l’elsa della spada fino a sbiancare le nocche. Respirò a denti stretti, scusandosi mentalmente con la sua famiglia, Astra, Mila, Feliks e Georgij. Prese un profondo sospiro
«Non dovresti dire che non vuoi farmi del male con una spada appesa al fianco.»
Otabek avvertì un brivido corrergli lungo la schiena. La voce era risuonata come se fosse proprio dietro di lui, ma quando provò a voltarsi scoprì di non riuscirci; sentiva ogni muscolo come congelato e si rese conto di non avere neanche il tempo per pentirsi di quella stupidissima decisione. Pensò ad Astra che lo aspettava nella caverna, ad Ayzere che aspettava le sue lettere e ai suoi genitori che l’avevano mandato al paese perché facesse qualcosa di buono della sua vita, perché sposasse una ragazza che avrebbe potuto dargli dei figli. Forse anche a loro, come a Feliks, sarebbe piaciuta Mila. E forse avrebbero davvero dovuto sposarsi, così che nessuno continuasse a chiedere perché non avessero già un anello al dito.
Il panico gli riempì le vene e la testa con la forza di una valanga, lasciandolo stordito; una strana adrenalina che non aveva mai sentito prima di quel momento gli fece tuonare il cuore nel petto, mentre un solo ed unico pensiero si faceva strada nella sua mente: non voleva morire, non voleva morire in quel modo, non per un motivo così stupido, non perché non aveva dato ascolto alla sua dannata testaccia solo per una volta.
Un tocco freddo sulla mano lo fece tornare in sé e il rumore della lama che veniva sguainata lo mise sull’attenti. Il filo scintillò alla luce delle stelle, per poi venire appoggiato alla sua guancia. «Bella fattura, questa spada. È la stessa dell’altro giorno, giusto?» La voce si spostò verso destra, ma Otabek era ancora paralizzato e non riusciva a muovere il collo per guardare.
«Il filo è ancora perfetto.» la spada gli passò sulla gola, senza toccarlo, eppure Otabek ne riusciva a sentire la presenza ogni volta che deglutiva, come un soffio gelido contro la pelle. Avvertì di nuovo freddo alla mano e gli parve che qualcuno gliela stesse toccando, ma nessuno poteva avere la pelle così gelida ed essere in vita.
Poi, com’era arrivata, la paralisi scomparve; il suo primo istinto fu quello di muoversi, ma aveva ancora la propria spada puntata sotto il mento. Strinse in denti per evitare di toccare il filo.
«Sta’ fermo.» gli intimò la voce. «O ti squarcio la gola.» Sentì un frusciò, come di qualcosa che strisciava nelle neve e non resistette all’impulso di dar un’occhiata verso il basso, dove un paio di stivali di cuoio affondava nelle buche lasciate dai suoi piedi.
Una mano gli artigliò la spalla e Otabek fu costretto a girarsi per assecondare quel movimento; la mano lo spinse in ginocchio nella neve e Otabek percepì la lama spostarsi dalla propria gola fino alla nuca. Era ancora in posizione di svantaggio, ma almeno adesso poteva parlare.
«Chi sei?» chiese e ricevette un calcio tra le scapole; il colpo gli strappò il fiato dai polmoni e lui si ritrovò a boccheggiare, tossendo del sangue per terra, il sapore ferroso gli riempì sgradevolmente la bocca.
«Chi sei tu? E come ti permetti di venire qui e parlarmi come se fossi un tuo pari.» La testa gli venne strattonata all’indietro e solo in quel momento Otabek vide chi realmente gli stava parlando.
Non riuscì neanche a godersi la sensazione di vittoria nel sapere che aveva avuto ragione a sospettare del ragazzo perché la paura di fare qualche passo falso e finire lì la propria avventura era troppa.
Lui lo stava fissando con gli stessi occhi fieri e feroci della prima volta che l’aveva visto, aveva i capelli acconciati in trecce tanto complicate da sembrare un copricapo ricamato e da ciò che poteva vedere, una giacca dal collo alto.
«Perché mi hai aiutato, ieri?» gli chiese allora, con la voce ridotta ad un soffio.
Il volto del ragazzo cambiò, e per un attimo sembrò perdere l’aria minacciosa che aveva mantenuto fino a quel momento, la mano che gli tirava i capelli tremò, ma la presa si strinse più forte, strappando ad Otabek un gemito di dolore. «Perché tu hai aiutato me?» replicò ancora.
«Perché ho visto una persona in difficoltà.» ringhiò tra i denti stretti e di nuovo l’espressione del ragazzo vacillò. Lasciò andare i suoi capelli, spostandogli la spada dal collo. «Alzati e girati.» ordinò.
Otabek, nonostante sentisse ancora le gambe deboli, provò a tirarsi in piedi; affondava nella neve, mentre cercava di voltarsi verso l’altro. Il ragazzo, scoprì, non era molto più alto di lui e gli teneva ancora la lama puntata contro, anche se stavolta a distanza meno ravvicinata. «Non ero in difficoltà.» puntualizzò. Il suo tono era totalmente diverso da quello che aveva usato fino a pochi secondi prima; Otabek avrebbe detto che fosse solo incredibilmente infastidito, e non riuscì a non pensare a sua sorella quando faceva i capricci, chiedendosi come potesse un individuo tanto minaccioso e pericoloso come quello che gli stava di fronte ricordargli Ayzere, l’anima più pura che conoscesse.
«Me la sarei potuta cavare anche da solo, se voi non foste arrivati.» continuò. «Non è la prima e non sarà l’ultima volta che dovrò difendermi, visto che adesso non solo la gente entra per caso nella mia foresta, ma pare che venga a cercare la morte di propria spontanea volontà.» mosse la spada verso di lui e Otabek fece un passo indietro.
«Sta’ fermo, ti ho detto, credi che non ti colpirei?» nonostante fosse convinto che se il ragazzo avesse voluto ucciderlo l’avrebbe già fatto da un pezzo, Otabek non volle testare la sua pazienza e rimase fermo.
Si guardarono negli occhi per un tempo che non riuscì a quantificare, studiandosi.
Otabek si prese del tempo per osservarlo bene come non aveva avuto ancora modo di fare; l’intera sua figura sembrava emanare un senso di profondo contrasto. Da una parte i suoi occhi simili a nulla che avesse mai visto, occhi da combattente, dall’altra i capelli, biondi e folti e troppo lunghi per i costumi del paese, acconciati come solo una ragazza avrebbe fatto; da una parte i suoi lineamenti spigolosi e gli zigomi alti, dall’altra le labbra piene e di un lieve colore rosato, che insieme ai suoi occhi sembravano l’unica macchia di colore su quel viso bianco. Il suo vestito era elegante, sembrava intessuto dal ghiaccio stesso, ma gli stivali di cuoio non avevano niente di diverso da quelli che Otabek stesso stava indossando, se non fosse che al loro interno vi era di sicuro un pugnale d’argento.
Un’altra cosa che era stata insegnata ad Otabek era che non era opportuno associare la bellezza agli uomini. La bellezza era qualcosa che andava ricercata solo nelle donne, non una caratteristica fisica che un uomo potesse trovare in altri uomini, e tuttavia, l’unico aggettivo con cui Otabek avrebbe potuto descrivere il giovane che gli stava di fronte era bello. Era totalmente in armonia con se stesso, essendo contemporaneamente la propria antitesi, ed Otabek si scoprì confuso da tutto quello che stava provando.
«Io non ti colpirei.» gli rispose, in un sussurro, e per la terza volta parve che l’altro non sapesse come reagire.
Fu solo dopo qualche secondo che, finalmente, abbassò la spada, lasciandola cadere per terra ai piedi di Otabek. «Riprenditela, ti servirà nel caso ti venisse la stupida idea di tornare qui.» poi indietreggiò, camminandogli intorno e con un frusciò di foglie, neve e stoffa, scomparve come tutte le altre volte, fagocitato dalle ombre della notte.
Gli vollero parecchi minuti prima di riacquistare controllo di sé: gli tremavano le mani e non si sentiva i piedi ed era convito che il freddo ne fosse solo causa parziale. Raccolse la spada da terra, con un verso infastidito non appena le sue dita entrarono in contatto con l’elsa fredda, e ricoperta di una sottile strato di ghiaccio.
Avanzando piano, con il corpo completamente intirizzito tornò alla roccia dove aveva lasciato Astra. La cavalla, quando lo vide arrancare a fatica in mezzo alla neve gli galoppò incontro, e Otabek si aggrappò alla sella, beandosi del calore del suo ventre. Le salì in groppa, sfinito, e lasciò che lei lo portasse fino al paese.
 
***
 
A distanza di qualche giorno, Otabek continuava a pensare a quell’incontro, perdendosi nel cercare di ricordare i particolari del viso di lui, il suo tono di voce e il modo in cui si muoveva. Mila gli aveva chiesto perché sembrasse così tanto pensieroso in quel periodo, ma le era bastata un’occhiata per capire che qualunque cosa fosse, non era ancora il tempo per lei di saperla.
Il sole faceva timidamente capolino da dietro le nubi, ma l’aria era ancora fredda, sia all’esterno che dentro la stalla di Astra; avevano appena finito di mangiare, ma era domenica, quindi nessuno dei due aveva niente di importante da fare. Quella volta Mila si era portata dietro un legnetto con la punta carbonizzata e se ne stava seduta sul pavimento ricoperto di paglia, con la gonna che disegnava un cerchio attorno a lei, a disegnare qualcosa sul muro di pietra grigia; Otabek, dal suo canto, stava spazzolando la propria cavalcatura che emetteva dei bassi nitriti di apprezzamento. Dopo gli ultimi avvenimenti, sapeva che Astra meritava davvero di essere trattata come un cavallo reale.
«Beks.» lo chiamò Mila. Lui si voltò distrattamente verso la ragazza, notando come il suo viso si fosse intristito. Mila sospirò. «Credi che quel ragazzo sia morto?»
Otabek impiegò appena pochi secondi per registrare le parole dell’amica, e un rombo sordo gli riempì le orecchie; dopo la prima ed unica volta che ne avevano parlato, tra lui e Mila c’era stato il tacito accordo di non tornare più su quell’accaduto e se prima Otabek ne era rimasto turbato, s’era sentito quasi preso in giro, adesso, dopo aver visto il ragazzo tre sere prime, ne era grato. Non si sarebbe mai aspettato che Mila tirasse fuori quella storia di nuovo, e lo prese alla sprovvista. Tentò di metter su un’espressione stranita e non terrorizzata al pensiero che Mila potesse scoprire che non solo era sicuro che lui non fosse morto, ma sapeva anche dove fosse.
«Beh, noi siamo sopravvissuti per miracolo.» rispose, evasivo.
«No, Beks, non parlo di noi. Parlo di lui, ho paura che sia successo tutto per colpa nostra, se non l’avessimo spaventato con quello scontro non sarebbe mai scappato nel bosco.» insistette Mila. Per quanto potesse essere una persona esuberante e all’apparenza superficiale, Mila teneva davvero alle persone, perfino a degli sconosciuti visti per puro caso; Otabek si sentiva orribile a nasconderle una cosa del genere, ma non sapeva ancora come lei avrebbe reagito e non voleva rischiare che, da testa calda qual era, si infilasse di nuovo dentro il bosco. Il ragazzo era stato molto chiaro, non ci sarebbe stata una seconda opportunità.
«Se la colpa è di qualcuno, allora è di quei banditi che non hanno esitato ad attaccare un ragazzo da solo, non nostra.» le disse allora, sperando che lei lasciasse cadere il discorso. Mila strinse le labbra, ma annuì e continuò a disegnare.
Diede un ultimo tratto di carboncino, prima di lasciarlo cadere per terra, ormai del tutto consumato. Si alzò, spolverandosi la gonna. «Che ne pensi?» gli chiese; stava indicando il disegno e Otabek si sporse per osservarlo. Sentì il cuore salirgli in gola e battere come un forsennato: di fronte a lui stava un ritratto fedele del guardiano della foresta, perfetto in ogni particolare. La memoria visiva di Mila non avrebbe mai smesso di stupirlo, perfino lui, che l’aveva visto già una seconda volta e non di sfuggita, non sarebbe riuscito a ricordare con precisione il modo in cui erano intrecciati i suoi capelli, ma Mila aveva disegnato e sfumato ogni treccia con precisione. Anche l’espressione era la stessa, altera e piena di furia. «È… è molto bello.» disse, e sperò di non essere arrossito, perché un conto era essere consapevole della bellezza di quel giovane nell’intimità della propria mente, un conto era dirlo ad alta voce e non importava che Mila l’avrebbe preso sono per un complimento verso la propria arte. Lei gli sorrise. «Grazie. Adesso devo andare, ho promesso a mia madre di aiutarla con alcuni vestiti.»
La madre di Mila era una sarta e Mila aveva ereditato la sua bravura nel disegno, Otabek l’aveva incontrata una sola volta e gli era sembrata una donna molto severa, ma buona, la stessa bontà nascosta di Mila.
Otabek le sorrise e alzò una mano in segno di saluto, lei ricambiò e corse via dalla stalla.
Continuò a spazzolare Astra fino a quando il suo manto non fu lucido e la criniera districata e priva di tutte le pagliuzze che vi rimanevano attaccate. Avrebbe potuto andare di nuovo alla taverna, ad incontrare degli altri ragazzi che aveva conosciuto durante in suo soggiorno al paese, ma il suo sguardo continuava ad indugiare sul disegno di Mila.
Fissò la propria spada appoggiata al muro accanto.
«Riprenditela, ti servirà nel caso ti venisse la stupida idea di tornare qui.»
Ed infine si posò il mantello sulle spalle e sellò Astra, sperando che nessuno lo notasse uscire dalla cittadina.
 
 
La neve aveva smesso di cadere ormai da qualche ora, ma era ancora fresca e gli zoccoli di Astra vi affondavano, così Otabek decise di continuare a piedi, tenendola per le redini. Impiegò di più a raggiungere la radura e appena vi arrivò l’ormai familiare senso di pericolo e di aspettativa gli fece stringere lo stomaco. Posò una mano sull’elsa della spada, stringendo forte. Non voleva farsi gabbare come l’ultima volta così si tenne a debita distanza dagli alberi.
«Ehi!» Esclamò. «Sono io, esci fuori!» Non sapeva perché aveva specificato quella cosa, anche perché chi altri poteva essere il pazzo che dopo non uno, ma due avvertimenti, continuava a recarsi lì nonostante sapesse di star costantemente rischiando la vita.
Questa volta non dovette aspettare neanche un minuto, la figura snella del ragazzo corse fuori dalla foresta. Apparve dalla prima linea di alberi. «Ti avevo detto di non tornare.» e di nuovo, la sua voce non pareva rabbiosa, solo irritata. Anche il suo viso non era contorto dalla furia, invece le palpebre mezze abbassate e le sopracciglia inarcate lasciavano intendere un profondo fastidio.
Otabek alzò un angolo della bocca, in un tentativo di nascondere la propria sottile paura. «Non l’hai mai detto, in realtà.»
Il ragazzo parve pensarci su, poi sbuffò. «Non pensavo fosse necessario, stupido umano. E smettila di parlarmi come se fossi un tuo pari, questo mi pare di avertelo detto.» Nonostante si trovasse a parecchie iarde da lui, Otabek poteva benissimo vedere quanto avesse abbassato la guardia dalla prima volta che si erano incontrati, non si aspettava di essere attaccato e sembrava più tranquillo. Ne ebbe la conferma quando si sedette a gambe incrociate sotto uno degli alberi. «Perché sei di nuovo qui?»
Otabek mollò la presa sull’elsa e si lasciò cadere nella neve, con gli occhi fissi in quelli del ragazzo. «Non lo so.» gli rispose, perché in realtà non sapeva davvero per quale motivo avesse deciso di andare nuovamente nel posto in cui aveva rischiato la vita ben due volte.
L’altro sbuffò, ma Otabek ebbe ragione di sospettare che si trattasse di un modo per camuffare una risata. «Te lo dico io perché: perché non tieni alla tua vita, da stupido umano quale sei.»
«Ti sarei grato se la smettessi di offendermi.» replicò.
«E io ti sarei grato se la smettessi di farmi perdere tempo. Non posso neanche andarmene.» il suo modo di lamentarsi era simile ai capricci di un bambino e Otabek si ritrovò ancora una volta a pensare ad Ayzere e al suo broncio. Il ragazzo allungò una gamba e tirò fuori lo stiletto dallo stivale; per un attimo Otabek credette che stesse per tirarglielo addosso, come aveva visto fare qualche volta per gioco alla taverna, solo che stavolta non sarebbe stato uno scherzo. Dovette ricredersi quando lui lo usò per cominciare a giocherellarci, conficcandolo nel terreno ghiacciato e riprendendolo.
Astra nitrì lì vicino e fece per avvicinarsi al ragazzo; Otabek sentì un’ondata di panico montargli dentro e scattò in piedi, ma ormai Astra era troppo in prossimità del giovane perché lui potesse fare qualcosa. Non successe nulla: Astra abbassò il muso, annusandolo e gli diede un colpetto sulla testa, solo in quel momento lui reagì. Si scostò da quel tocco e alzò un piede per allontanare il cavallo. «Toglimi il tuo animale di dosso!» gli urlò.
Otabek si alzò in piedi, camminando piano verso Astra, in attesa che l’altro gli dicesse di fermarsi e arretrare, o che semplicemente lo attaccasse. Niente di tutto quello successe e Otabek riuscì ad afferrare le redini. «Andiamo bella, non infastidire questo ragazzo. Andiamo.» la tirò verso di sé e Astra scrollò la criniera, nitrendo contenta, senza perdere di vista il suo nuovo compagno di giochi. Quando furono di nuovo a distanza di sicurezza e Otabek osò guardare verso l’altro, si stupì di trovarlo in piedi molto più vicino di dove l’aveva lasciato.
Aveva un pugno serrato all’altezza del fianco e lo fissava incredulo, come se non riuscisse a credere a ciò che stava vedendo
«“Questo ragazzo”? Prima lasci che il tuo cavallo mi aggredisca e adesso questo? Quante maniere irrispettose dovrò ancora sopportare prima che tu impari a rivolgerti a me come si deve?»
Otabek strinse le spalle, accogliendo il muso di Astra, che aveva cominciare a cercare di aprirgli le braccia per raggiungere il tascapane dove teneva sempre qualcosa da darle. Le porse una manciata di mele sminuzzate che lei inghiottì avidamente.
«Astra è femmina e non ti ha aggredito. E se sapessi il tuo nome, forse potrei rivolgermi meglio.» strofinò il collo di Astra, alzando gli occhi ad incrociare quelli del ragazzo.
Lui fece una smorfia infastidita. «Se me l’avessi chiesto, te l’avrei detto.»
Otabek era stufo di quel continuo rimpallo che pareva essere l’unico modo in cui riuscivano a parlare. Qualunque cosa dicesse, sembrava che l’altro gliela rinfacciasse con ancora più causticità.
«Non pensavo dessi così tanta importanza a queste cose.»
«Infatti non mi interessa!» Incrociò le braccia e alzò il viso, distogliendo lo sguardo da lui e puntandolo verso il cielo bianco.
Otabek sospirò, arrendendosi al fatto che non avrebbe mai capito perché si comportasse in modo così scostante. «Io sono Otabek Altin.» gli svelò, e non si era mai sentito tanto scoperto, nel dare il proprio nome a qualcuno.
Il ragazzo abbassò gli occhi e Otabek vacillò, senza sapere cosa aspettarsi.
«Yuri.» disse, semplicemente.
Fu come se una nuova consapevolezza fosse calata tra loro, Otabek rimase in silenzio, per poi mormorare un sottile, quasi inudibile. «Yuri?»
Il ragazzo, Yuri, alzò un sopracciglio. «Sì, Yuri. E adesso togliti dai piedi, altrimenti devo restare qui a controllare che non entri nella foresta.»
Otabek gli rivolse un ultimo sguardo, prima di salire su Astra, ma non si mosse.
«Vattene!» gli disse di nuovo Yuri, gesticolando verso la strada e infine Otabek gli voltò le spalle.
Neanche quella volta gli aveva detto di non tornare.
E non glielo disse mai.
 
 
 
 
 
Note finali:
Salve!
Non vedevo davvero l’ora di poter pubblicare questo capitolo e ho impiegato il doppio del tempo a sistemarlo, perché non ero soddisfatta di come avevo impostato alcune cose nella bozza iniziale. Finalmente abbiamo in scena anche Yuri e sono felice!
Quindi, lasciatemi spendere due parole anche sul suo personaggio (giusto perché sapete quanto mi piaccia sproloquiare); Yuri, in questa storia, ha un vissuto molto diverso da quello che conosciamo nel canon, ma non voglio ancora svelarlo, perché sarà un punto cruciale della storia *risata malvagia* una cosa importante che bisogna tenere a mente è che Yuri appare esattamente per ciò che è.
Per il resto, ho adorato scrivere la scena del primo, vero incontro tra Otabek e Yuri; un po’ violento, ma comprendete anche che Yuri vede arrivare questo tipo armato nel bel mezzo della notte e non sa cosa aspettarsi, o meglio, pensa che voglia fargli del male. Dall’altra parte invece abbiamo Otabek che si lascia vincere dalla curiosità e si trova ad affrontare qualcosa di sconosciuto, ed entrambi entrano in contatto con una realtà diversa da quella a cui sono abituati e a cui dovranno abituarsi, in un modo o nell’altro.
Se vi steste chiedendo cosa sia successo alla donna del ricordo di Otabek, la povera anima ha avuto una crisi epilettica, solo che nessuno in questa storia sa cosa sia una crisi epilettica e hanno pensato che si trattasse di qualche possessione/evento sovrannaturale, per questo non l’hanno soccorsa.
Finisco qui, e ringrazio tutti coloro che hanno letto, sperando che vogliate lasciarmi un commento di qualsiasi genere, li adoro tutti! <3
Grazie anche a chi ha inserito questa storia tre le preferite/seguite, e alla cara Silvar Tales, che ha recensito lo scorso capitolo! Ringraziamento speciale, come sempre, alla mia fantastica beta _Lady di inchiostro_
Alla prossima!
LysL
  
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