Shivers
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SECONDA PARTE
“Non sono il
tempo o l’occasione
a creare l’intimità,
ma solo la disposizione.
Sette anni non basterebbero a far
sì
che due persone si conoscano
e per altri,
sette giorni sono più che
sufficienti”.
-
Orgoglio e
Pregiudizio, Jane
Austen
Dopo aver comunicato a Ven le mie
intenzioni, rientrai in dormitorio cominciando a ponderare se recarmi
da Weston
subito o in seguito. Peyton mi aveva assicurato che ce
l’aveva messa tutta ma
che ogni volta pareva altrove con la mente e che di quel passo avrebbe
potuto
ottenere solo ulteriori peggioramenti.
Perciò, armata di un coraggio che avevo celato fin troppo a
lungo oramai, presi
lo scooter in dotazione del campus e raggiunsi il dormitorio di West.
Ovviamente non potevo che
aspettarmi che Courtney Sullivan fosse lì. Mi era sembrato
molto strano che la
loro relazione stesse durando più del previsto,
poiché lei era nota per essere
una ragazza poco seria. In ogni caso, pensai, non era così
stupida da lasciarsi
scappare un ragazzo come Weston Carter.
Nessuno l’avrebbe permesso.
Appena fui di fronte all’alloggio indugiai con la mano se
bussare o scappare a
gambe levate. Venni salvata in corner – o forse dovrei dire,
incastrata –
perché la porta venne spalancata quasi si fosse accorta che
ero lì. Una furia
dai capelli biondo platino per poco non mi finì addosso.
Quando si rese conto
che le stavo praticamente dinanzi, si arrestò e mi
scrutò inclinando il capo.
«Tu cosa cazzo vuoi?».
Sono
venuta per concorrere una partita a scacchi, non lo sapevi?
Diciamo che Courtney e la finezza viaggiavano su due versanti
completamente
separati.
Roteai gli occhi sbuffando, immaginando che stessi per assistere ad una
scenata
di gelosia in piena regola.
«Sto aspettando una risposta, sfigata», mi
puntò contro un indice, l’unghia
perfettamente laccata di uno smalto color rosso carminio.
«Sullivan, devi metterti in quel cervellino striminzito che
il mondo non gira
intorno a te o alla tua amica. Cosa sono venuta a fare, secondo
te?», feci
retorica.
«A rovinarmi la vita, come minimo», rispose con una
vena tagliente nel tono di
voce.
«Sei sicura che tu non sia ubriaca oggi? No,
perché stai dicendo un sacco di
assurdità. Fino a prova contraria sei tu ad avermi rovinato
la vita fino ad
adesso. Io ho solo reagito di conseguenza».
Mi meravigliavo del mio tono pacato e maturo. Stavo facendo progressi.
«Mmh, se non sei qui per rubarmi il ragazzo, allora cosa
vuoi?», insistette,
tamburellandosi un dito sul mento ed un piede per terra impaziente.
La
verità è che io e Carter ci riuniamo il
pomeriggio a farci le
treccine a vicenda,
avrei voluto rispondere.
«Mi manda la preside
Chamberlain.
Sono qui per accordarmi con West riguardo le ripetizioni. A proposito,
lui
dov’è?».
«Posso benissimo dargliele io, le ripetizioni»
ribatté, piccata.
Non osai pensare a cosa si stesse riferendo. Avrei sicuramente dato di
stomaco.
«Be’, fai due più due se la preside ha
incaricato me e non te. Aziona il
cervello per una buona volta».
«Comunque Weston è sotto la doccia»,
disse rispondendo alla mia domanda
precedente.
Annuii. «Vorrà dire che
aspetterò».
«Sfigata, mi era sembrato che fosse la tua amica a dare
ripetizioni al mio ragazzo»,
mi fece notare, calcando
di proposito l’aggettivo possessivo.
«Sì, diciamo che
non ne aveva più
la possibilità».
«Ti tengo d’occhio, Parker».
«Quando vuoi», replicai per nulla scalfita,
fingendo un sorriso.
«Court, con chi stai parlando?».
Come al solito, persi un battito. Di quel passo mi avrebbero dovuta
rianimare
con il defibrillatore. La sua voce era sempre stata così
roca e sexy o me ne
accorgevo solo ora?
E poi... oh cazzo. Voleva per caso
attentare alla mia vita quel giorno? Weston Carter con solo un
asciugamano
legato attorno alla vita doveva essere considerato illegale.
Mi coprii gli occhi impulsivamente.
«Oh, abbiamo una verginella pudica, qui»,
osservò derisoria la Sullivan.
«Ehi, Wes. La sfigata qui presente dice che deve parlarti a
proposito di alcune
ripetizioni. Vestiti o mi toccherà usare le mie forze per
portarla in
rianimazione con questo andamento. Poverina, non è abituata
a vedere un ragazzo
a petto nudo. Lo dico io che è lesbica».
Spalancai occhi e bocca prima di arrossire vistosamente.
Gallina bastarda. Feci per ribattere
ma la voce di Weston si frappose alla mia.
«Strange?».
No, la
Vergine Vestale...
Prima o poi avrebbe dovuto
spiegarmi il perché di quel tono sorpreso.
«“Strange”?», ripeté
Courtney storcendo la bocca in una smorfia.
Grazie, Carter. Molto gentile e saggio da parte tua usare quel
nomignolo che
sapeva di intimo e familiare di fronte alla tua ragazza.
«Non farci caso», intervenni per salvare la
situazione. Avrebbe dovuto farmi
una statua, oltre che ringraziarmi! Ero passata da semplice tutor a
Vergine
Vestale a salvatrice di relazioni.
Fortunatamente Courtney lasciò perdere e con una scusa
pessima si dileguò,
lasciandoci soli.
«Be’, dici che riuscirai a vestirti entro le
quattro?», sbottai per salvare me
stessa da una figura patetica.
«Nicole».
Inclinò la testa da un lato
facendo slittare davanti al volto dei ciuffi di capelli.
«Devi smetterla di fare
così».
Così come? Non gli avevo
mai
sentito adoperare quel tono così aggressivo se non in
laboratorio di fotografia
e alla sua festa.
Mi ricordai delle bugie di Peyton e cercai di contenere un sorriso
vittorioso.
Aveva ragione la mia amica. Quella sera aveva proprio fatto una specie
di
scenata di gelosia.
«Così come?!», chiesi alzando gli occhi
al cielo.
«Così... », ripropose, facendo un gesto
strano con le braccia, «Scompari per
giorni, non mi dici che hai un appuntamento e poi come se niente fosse
ricompari e per di più nella mia stanza a parlare civilmente
con la mia ragazza!».
«Ma che stai dicendo? Non devo dare certo conto a te di dove
vado o di con chi
esco. Non abbiamo alcun vincolo, mi pare. Piuttosto faresti meglio a
pensare
chi va a scoparsi quella che tanto ti ostini a chiamare la tua ragazza».
Lui fece un cenno di assenso con il capo: «Ho capito. Sei
gelosa».
Lui aveva capito? Lui aveva preso un abbaglio potente!
«Io? Sono forse io quella che ti sta aggredendo
perché hai passato del tempo
con una ragazza, senza dirmelo? Fai pace con il cervello,
West!».
Carter voltò lo sguardo a sinistra e si morse il labbro
inferiore.
Lo detestavo.
«Rimane il fatto che sei qui e non riesco a spiegarmi il
perché».
Presi un respiro profondo con la speranza di calmarmi. «Un
uccellino mi ha
detto che non stai migliorando granché nello studio e che
sei ad un alto
rischio di non passare l’anno».
«Peyton Jeffrey è una vera e propria
pettegola», mormorò lasciando andare le
mani contro i fianchi ed alzando la testa al soffitto. Doveva proprio
stare con
quell’asciugamano ed i capelli umidi tutto il giorno?
«Per favore, ti puoi mettere qualcosa addosso?».
Eccolo lì. Di nuovo il ghigno che tanto detestavo quanto
adoravo.
«Perché, ti dà fastidio?».
Fece un passo verso di me ed io indietreggiai fino a
toccare il muro con le spalle.
No, no, no, no. Che stava facendo?
«Rilassati, Strange. Non ti salterò addosso, se
è quello che temi».
Sì, ma era comunque meglio tenere le distanze.
«Comunque, ritornando al discorso ripetizioni... ho detto a
Ven che qualora le
lezioni impartite da Peyton non fossero andate a buon fine, sarei
intervenuta
io», spiegai, liberando i capelli dall’elastico e
rifacendo la coda.
«Che pensiero gentile da parte tua»,
ironizzò, stringendo la presa sulla
mascella mentre si dirigeva verso l’armadio.
«Ti sei mai chiesto
perché avessi
chiesto che fosse Peyton a prendere il mio posto?», obiettai.
«Perché il tuo ragazzo si sarebbe potuto
ingelosire vedendoti con me», rispose
sicuro di sé.
Peyton, Peyton, Peyton. Quante ne aveva combinate?
«Assolutamente» Sì.
«no», dissi
invece scuotendo la testa con veemenza.
«E allora?».
«Avevo dei corsi extra e non avrei potuto gestire anche te.
Ho dovuto
rinunciare al giornalino scolastico per dedicarmi alle tue stupide
lezioni.
Questo perché ovviamente tu devi sempre mettermi i bastoni
tra le ruote!».
Peyton mi aveva riferito che durante i loro incontri sembrava avere la
testa
altrove.
«Hai... perché l’hai fatto?»,
domandò incredulo sgranando gli occhi.
Eravamo
certi che alla St. Hope non ci fossero esseri
soprannaturali?
«Perché... be’, non voglio che tu perda
l’anno» ammisi. Stavo facendo un enorme
fatica.
«Ma, ma per te era importante e...»
«Se è per questo anche fotografia era
importante», aggiunsi, con fare da
so–tutto –io.
«Sei impazzita? Hai mollato
il
corso di fotografia?! Per me?!».
«Per Ven», lo corressi.
Una mezza bugia.
«Non ci credo. Non posso crederci. Non ne valgo la pena,
Strange. Non me lo
merito». Quel suo fare su e giù freneticamente per
la stanza mi stava facendo
venire un’emicrania.
«Vuoi stare fermo un attimo?», sbottai, irritata,
posando una mano sul suo
braccio.
Ogni volta credevo di trovarmi davanti un bambino dell’asilo.
«Lo sai che non serviranno a niente queste lezioni, vero?
Sarà meglio che tu
riprenda le tue attività».
«Non ho mai detto che sarebbe stata una passeggiata, ma
diamine, West! È stato un
sacrificio per me, ti rendi conto? Se sono venuta qui per parlarti di
questo di
persona è perché anche se mi hai fatto stare male
— e qui pensai che avrei
potuto evitare di dirlo — «anche se mi hai fatto
stare male, un po’ a te ci
tengo».
«E se serviranno dieci
giorni
perché tu ti rimetta allo stesso livello degli altri, ben
venga. Annullerò
anche il corso di botanica. Ma non dirmi che ho già perso in
partenza. Non
voglio crederlo».
Sentivo un macigno sul cuore. Lui non credeva di potercela fare ed io
gli avrei
dimostrato il contrario.
Carter schiuse leggermente le labbra e trasalì. O almeno a
me parve così.
«Ti ho... sei stata male a causa mia?».
Incredibile! Del discorso nobel che avevo
elargito lui si era soffermato sul particolare meno importante. Che
cazzo!
«Sei assurdo!», esclamai. Un guizzo divertito si
impossessò della sua bocca e
si sporse per pizzicarmi dolcemente un fianco: «Ma mi adori
lo stesso».
Scattai al contatto del suo tocco e mi allontanai, spingendo dietro
l’orecchio
un ciuffo sfuggito alla coda. Poi sollevai un sopracciglio altamente
scettica:
«Ehi, non darti troppa importanza».
Weston finalmente si avvicinò al
cassettone e pescò dei benedetti vestiti.
Deo gratias. Ripresi a respirare regolarmente.
«Quindi, quando ci dovremmo
vedere?», chiese infilandosi una T-shirt nera che gli aderiva
perfettamente al
busto mettendo in risalto i muscoli tonici del torace.
«Per me va bene anche dopo le lezioni». Poi
aggiunsi: «Se non hai da fare,
certo».
«Non ho da fare», rispose repentinamente. Troppo
per i miei gusti.
«Okay», sussurrai annuendo come un’ebete.
Ma perché?
West si nascose in bagno per infilarsi i boxer ed i jeans e quando
uscì fuori,
si passò una mano tra i capelli ancora umidi che stranamente
sembravano più
corti di quando erano asciutti.
Avrei tanto voluto affondarci la mano e scompigliarli. Non lo so,
dovevo essere
drogata in quel momento, sicuramente.
Mentre si spruzzava sul collo dell’acqua di colonia, mi
ritrovai a scorgere per
la prima volta, sulla sua guancia destra un’adorabile
fossetta.
E diavolo, io le adoravo. Era ufficiale, dovevo andarmene di
lì.
«Rimaniamo così allora? Ci vediamo in biblioteca?
A quell’ora non c’è nessuno.
Peyton ha chiesto un permesso per andare a trovare i suoi insieme a
Kyle».
«E perché vorresti rimanere da sola con me, Nicole
Parker?», fece di rimando
ammiccando ed adoperando un tono malizioso seguito
dall’immancabile sorriso
laterale.
«Quanto sei stupido...», soffiai, abbassando a
terra lo sguardo.
«Ripetimi un po’ da cosa hai detto che iniziamo?
Anatomia, vero?».
Si divertiva così tanto a farmi arrossire, evidentemente.
Presi la prima cosa che trovai sotto mano e gliela lanciai addosso.
«Come siamo aggressivi...», ammiccò di
nuovo, questa volta facendomi ridere.
«Direi di iniziare con la matematica se sei
d’accordo».
Weston fece un gemito di disapprovazione, corrugando le sopracciglia.
«Ma io
odio quella materia».
«Appunto».
«Sei sempre così perfida con i tuoi
alunni?».
«Non so dirtelo. Tu sei il primo, Weston Carter»,
dichiarai.
«Te lo dico io, allora. Lo sei». I suoi occhi
adesso sembravano velati di una
strana luce, quasi rivelatrice. Era come se mi stesse lasciando libero
accesso
alle sue emozioni. Occhi così diversi da quelli che avevo
osservato quella
volta dietro la scuola. Era come se stesse nascendo una palpabile
sintonia tra
noi. E mi piaceva. Qualsiasi cosa stessimo costruendo, mi piaceva.
«Posso sempre tirarmi indietro, ti ricordo»,
puntualizzai, sfidandolo con gli
occhi.
«Ma non lo farai».
Odiavo che fosse sempre così sicuro di sé.
«A domani, West». Feci un cenno con la mano mentre
mi dirigevo verso la porta.
«Scommetto che non vedi
l’ora». Non potei non notare un guizzo
divertito
nei suoi occhi.
«Certo. Non vedo l’ora di metterti in
difficoltà. Ha presente la trigonometria,
signor Carter?».
Lui di risposta sbuffò sonoramente facendomi ridacchiare.
«Sono del parere che anatomia sarebbe stata molto
più interessante... e produttiva».
Nascosi un sorriso mordendomi il labbro, come al solito. Questa volta
scossi
impercettibilmente il capo.
«Non cambierai mai», gli confessai divertita. Senza
attendere una sua risposta,
sgattaiolai via, lontano da quei maledetti occhi così
penetranti.
*
* *
Avevo sempre adorato il sole.
Specialmente quando l’aria era fresca ma ci pensavano i raggi
a riscaldarti.
Era un’atmosfera che mi rilassava e mi tranquillizzava allo
stesso tempo. Mi
metteva di buonumore. Era il secondo giorno che mi incontravo con
Weston ed
avevo scoperto molte cose sul conto. Ad esempio, che fosse una buona
compagnia.
Quasi meglio della mia musica.
Quasi.
Di lui adesso sapevo che era stato costretto a venire in collegio a
causa di
una rissa scoppiata nella sua vecchia scuola. Ora sapevo la
verità su quel che
era accaduto. Fino ad allora avevo solo sentito molte dicerie in
merito, ma io
non avevo mai creduto a quel genere di cose. In genere mi fidavo solo
della
parola dei diretti interessatoi. Adesso sapevo che non era stata colpa
sua se
quel ragazzo era finito in ospedale ed era morto poco dopo tempo.
Sapevo che
West ancora ci stava male anche se lui non c’entrava nulla.
In fondo, stava
solo coprendo il suo migliore amico. Avevo anche scoperto che non era
andato in
riformatorio grazie dapprima all’aiuto di Ven e suo zio, ed
in seguito grazie
alla testimonianza del suo amico, il vero colpevole. Tuttavia, Kane
Armstrong
aveva voluto mandarlo lontano da quel posto e da quella
città sotto l’ala
protettrice della sua migliore amica dai tempi delle scuole medie.
Ora guardavo Weston Carter sotto una luce completamente nuova e
diversa. Certo,
non conoscevo ogni minimo particolare della sua esistenza,
però mi stava
piacendo scoprire un pezzo del puzzle – o per meglio dire del
cubo di Rubik –
un po’ alla volta. Perché sì, avevo
capito che dietro il bel faccino di quel
ragazzo si celava un dedalo di segreti.
Quella mattina non ero andata a lezione perché non me
l’ero semplicemente
sentita. Avevo preferito fare una passeggiata dopo aver avvisato Ven,
la quale
mi aveva garantito di stare tranquilla e di chiamarla – come
sempre – in
caso di necessità o problemi.
Weston stava prendendo seriamente le lezioni tanto che già a
distanza di un
giorno avevo notato un grande miglioramento. Chissà come mai
Peyton non c’era
riuscita...
Nonostante le continue
distrazioni, era un ragazzo intelligente, con del buon potenziale ed io
dovevo
solo aiutarlo a fare emergere quei pregi e soprattutto a farne buon uso.
Mentre giravo la pagina del libro Emma di Jane Austen, mi accorsi che tra le sue
pagine c’era impigliato un foglietto di carta piuttosto
sgualcito. Curiosa, lo
spiegazzai e lessi il seguente messaggio:
“Non ci
credo che tu lo stia rileggendo per la millesima volta!
Perché proprio questo libro, vorrei tanto saperlo. Molte
sono fissate con Orgoglio e Pregiudizio
ma tu... tu sei una continua scoperta, Nicole Parker”, feci
comparire un
sorriso che andava da un orecchio all’altro.
“Comunque,
guarda un po’ non si è mai visto che due amici non
si scambiassero il numero di
telefono. Quindi, ecco il mio ;)
P.s.:
Lo so che stai sorridendo. Pessima bugiarda”.
N.B: Sì,
Strange, noi siamo amici.
Scossi la testa senza smettere di
sorridere e ripiegai il biglietto inserendolo di nuovo tra le pagine.
Quel pomeriggio, alle tre in
punto, Carter mi raggiunse in biblioteca, facendomi prendere un mini
infarto.
Di conseguenza la bibliotecaria minacciò di buttarci fuori.
«Sei impazzito?», sibilai senza alzare la voce, di
conseguenza dovetti
avvicinarmi al suo orecchio. '
Lui alzò le spalle e sorrise sornione,
«Hai trovato il mio biglietto?», si
informò, indicando il libro con gli occhi.
«Sì», risposi con finta noncuranza
carezzando d’istinto il dorso del tomo.
«C’è la possibilità che vossignoria
mi elenchi la motivazione per cui legge questo libro dal dì
alla sera?»,
continuò con un tono regale che mi provocò una
risata gutturale. Gli diedi una
gomitata sul braccio perché di quel passo, ci avrebbero
sbattuti davvero fuori.
«E comunque il motivo è uno solo. Ammiro molto
Emma, la protagonista».
«E perché?». Piegò un
sopracciglio, continuando a perforarmi con i suoi occhi.
«Perché mi identifico molto in lei».
«Anche tu sei innamorata di un Mr
Knightley?».
Non sapevo se essere sorpresa dalla domanda o dal fatto che proprio lui
avesse
letto il mio libro preferito.
«Può darsi. Ma da quando leggi questi
“romanzetti squallidi”, tu? - insinuai,
citando le parole di Peyton e di Courtney prima di lei. Un
giorno, mentre stavo camminando per i corridoi della scuola, persa
tra le righe del libro, Courtney Sullivan pensò bene di
farsi notare e posato un
indice sull’estremità del libro, lo fece cadere a
terra, lasciandomi
esterrefatta. Infine, lo raccolse e cominciò a sfogliarlo,
iniziando a
sbeffeggiarmi.
«Sei
proprio una sfigata se leggi questa roba. Romanzetti inutili
creati di proposito per illudere il genere femminile. Una cosa
è certa, però: è
il sesso a risolvere tutto, non l’amore e queste
porcherie».
Non avevo
mai udito un tono così cinico e freddo da parte di una
donna e più precisamente da parte di una mia coetanea.
Siccome non avevo una
risposta – all’epoca ero solo un’ingenua
nerd con tanto di occhiali – mi
ripresi il libro e me ne andai a testa bassa senza fiatare.
La voce sensuale di Weston mi
riportò con i piedi a terra e smisi di pensare al passato,
fingendomi
interessata. Purtroppo avevo perso il filo logico del discorso.
«Ehi, solo perché alla mia ragazza non piacciono
non significa che non debba
crearmi una cultura. Ho una teoria: per capire le donne, devi provare a
pensare
come loro. E di conseguenza questo mi sembrava un buon punto di
partenza. Sul
serio adorate quelle robe lì?». Gli diedi uno
schiaffetto giocoso sul braccio.
«Bada a come parli... si
chiama romanticismo. E posso
risponderti solo
soggettivamente. A me piace il romanticismo fittizio, il che
è tutto dire
poiché non credo nell’amore reale, quello che ha
legato i miei genitori e che a
detta di molti lega le persone in generale. Sono convinta che sia solo
un’illusione destinata ad avere un fine».
West ora mi fissava ammirato. Con quel discorso avevo rivelato una
parte di me
senza accorgermene. Non sapevo se pentirmene. Ciononostante pensai che
anche
lui si fosse aperto e che un aneddoto ciascuno non avrebbe fatto male a
nessuno.
«Non smetterò mai di fartelo notare, ma tu sei
proprio strana».
Inspirai pesantemente. Lo diceva troppo e sempre più spesso.
«E tu non mi hai ancora
raccontato di come ti sia procurato le cicatrici sul torace».
Okay, forse dovevo andarci piano perché non sembrava essere
un argomento di cui
andava fiero. Lo si notava dalla mascella e dai muscoli
all’improvviso
contratti. Gli avevo posto la stessa domanda il giorno prima,
perché mi ero
ricordata di averli intravisti nella sua stanza quando se ne stava
bellamente a
petto nudo e mi ero ripromessa di indagare. Tuttavia avrei dovuto
essere meno
diretta.
«Cioè... scusami. Sono stata un po’
troppo brusca. Non devi parlarmene per
forza». Tentai miseramente di rimediare alla mia gaffe. Non
avrei mai smesso di
fare figure di merda ai suoi occhi.
«Lascia perdere, Strange».
Annuii, cominciando a torturarmi il labbro.
«Allora, stavamo dicendo? Riprendiamo gli argomenti di
biologia?».
Decisi di cambiare discorso e di
assumere un carattere più professionale. Mi stavo
addentrando in acque troppo
profonde.
Mentre dicevo quelle parole, notai con la coda dell’occhio
che cercava il libro
distrattamente senza smettere di guardarmi.
«Se hai finito di fissarmi, io procederei con la lezione.
Sai, dovrei vedermi
con Micha». Non staccai gli occhi dal mio libro mentre
pronunciavo quelle
parole. Per la cronaca Micha era
il
fantomatico ragazzo su cui Peyton aveva fantasticato facendolo
risultare come
mio partner.
«Strange? Te la sei presa?», mi domandò
preoccupato. Sotto la luce soffusa
della lampada da scrivania, potevo notare benissimo i suoi lineamenti
virili.
In quel momento avrei voluto riempirlo di baci. Weston sapeva essere
dolce e
freddo nelle giuste dosi. Non sapeva che mi stava conducendo ad una
sorta di
esaurimento nervoso. Di quel passo sarei finita in cura dalla counselor
messa a
disposizione dalla scuola.
Smisi di torturare l’evidenziatore e lo lanciai sullo
scrivania, lasciandomi
andare contro lo schienale della sedia. Chiusi gli occhi e posai una
mano sulla
fronte.
«No, figurati. Non sono fatti miei, in ogni caso».
E non lo erano davvero.
Quelli erano argomenti che si dovevano trattare da fidanzati e noi a
stento
eravamo amici.
«Ehi, sicura?».
Mi strofinai il viso mentre lui mi fissava sotto le lunghe ciglia
lambendosi il
labbro.
«Ma certo. Quindi... parliamo di Mendel. Chi era?»,
deviai prontamente il
discorso. Non che la biologia fosse un territorio più sicuro
e tranquillo.
«Un filosofo?», provò, forse solo per il
gusto di farmi innervosire.
Ci riuscì. Sbattei il libro contro la mia testa.
«Un filosofo? Un filosofo?! West, l’avremmo
ripetuto ottocento volte», sbuffai,
contrariata.
«Calmati, Parker. Lo so chi è Mendel. Volevo solo
provocarti. È un matematico
ed un naturalista tedesco».
«Bene. Quante leggi riconosciamo riguardo Mendel?».
«Tre», disse secco. Gli feci cenno di continuare,
indurendo i lineamenti.
«Legge della dominanza, della segregazione e
dell’assortimento indipendente».
Annuii. Non ero incazzata con lui perché non aveva voluto
rispondere a quella
domanda. Ce l’avevo con me stessa per la mia sfrontatezza e
la mia curiosità.
Anche se i latini si ostinavano a chiamarla “sana
curiositas”. Pazzi, pure loro.
«Cosa dice la
seconda?».
«Dice che ogni individuo possiede due fattori per ogni coppia
di alleli, uno
paterno e uno materno. Quando si formano i gameti, i fattori si
dividono e ogni
gamete possiede uno solo dei fattori. Abbiamo finito?».
Ma se avevamo appena iniziato!
«Lo dico io quando abbiamo finito», intervenni, in
tono aggressivo.
«Tu ce l’hai con me, Strange»,
asserì, a braccia conserte.
«No», ribattei in tono risoluto.
«Sì, invece».
Ah, evidentemente il counselor
era lui ed io non lo sapevo.
«Ti ho detto di no. La terza legge cosa dice?».
Lui continuò a fissarmi insistentemente: «Gli
alleli posizionati su cromosomi
non omologhi si distribuiscono in modo casuale nei gameti. Sei
incazzata e si
vede», si ostinò.
«Smettila. Cosa sono i gameti?».
«Sono cellule riproduttive o
germinali mature. Smettila tu, non possiamo chiarire?».
«No, perché non c’è nulla da
chiarire, a parte la biologia.
Quante fasi abbiamo nella
mitosi?».
«Quattro. Non ti sopporto quando fai
così».
«Non è importante che tu mi sopporti o meno. Per
oggi abbiamo finito. Ci
vediamo».
In realtà non avevamo
concluso un
bel niente.
Raccolsi i miei libri alla velocità della luce e
strascicando la sedia sul
pavimento producendo un terribile suono alle orecchie, mi voltai di
scatto per
lasciare la biblioteca.
«Strange, l’evidenziatore»,
sospirò West.
«Tienitelo», replicai di rimando. Risultai
più brusca di quanto volessi dare a
vedere. Pazienza.
*
* *
Quando una giornata comincia
male, te ne accorgi da sola, perché stai sicura che tutto
quello che può andar
male andrà male fino alla fine. Lo dice la scienza non io.
Dopo aver congedato West ed aver
inforcato l’uscita mi ero dovuta appoggiare con la schiena al
muro per
riprendere una regolare respirazione. Non volevo che mi raccontasse
proprio
tutto della sua vita, però avrei voluto che quantomeno
cominciasse a fidarsi
della sottoscritta. Gli inviai immediatamente un messaggio in cui gli
comunicavo che l’indomani la lezione sarebbe saltata.
Mi rispose quasi istantaneamente: “Continua così,
Nicole. Continua pure ad
aggirare gli ostacoli! Vaffanculo”.
Inutile dire che mi ero rovinata la giornata da sola.
«Mi assento per due giorni e succede il
finimondo!», esclamò una voce a me
conosciuta e che mi era mancata molto.
Peyton.
Sorrisi e mi fiondai ad abbracciarla. «Pey, amica
mia! Mi sei mancata da
morire».
«Eh, su su... saranno stati meno di due giorni. Piuttosto tu!
Ho saputo che hai
iniziato a dare le lezioni ad un certo Ovest1»,
disse allusiva.
«Già. Si è rivelato un buon alunno,
alla fine», confermai amareggiata.
«E sei in questo stato, perché...?».
«Abbiamo litigato. Più o meno».
«Che significa, “più o
meno”?».
Significava esattamente che aveva
un’amica permalosa e antipatica.
«Lascia perdere. Parliamo di te. Kyle è piaciuto
ai tuoi?».
Si illuminò: «Mia madre e mia sorella lo adorano.
Mio padre un po’ meno ma
presumo sia perché è geloso. Mi vede ancora come
la sua bambina». Il che era
una cosa abbastanza dolce visto che io mio padre non lo vedevo quasi
mai. Okay,
togliamo il “quasi”.
«Sicuramente. E Kyle? Che ne pensa della tua famiglia
complicata?».
«Ho dovuto parlargli di Emily mentre eravamo in viaggio. Non
ero riuscita a
trovare il coraggio prima. Avevo paura che fuggisse a gambe levate... sai, come Milo2.
Ed invece mi ha
sorpresa».
«Davvero? L’ha presa bene?».
«E comunque Milo era un
bastardo
approfittatore», chiarii.
«Se l’ha presa bene? Mi sono addirittura chiesta se
non fosse più innamorato di
mia sorella che di me».
La sorella di Peyton soffriva di una grave patologia che la costringeva
a soli
sette anni a stare ancorata ad una sedia a rotelle. Io
l’avevo conosciuta al
pranzo del ringraziamento e le avevo voluto ben sin da subito. Era una
bimba
così dolce.
«Ti vedo felice, Pey».
«Lo sono, Nic. Finalmente lo sono».
«E pensare che avevi detto che avrei trovato
l’amore per prima», scherzai,
scompigliandole i capelli.
«Mi sbagliavo su questo, ma avevo ragione su molte altre
cose», affermò in tono
saccente.
«Per esempio?».
«Tu sei innamorata persa di Weston Carter».
Signori e signori, la mia amica stava cominciando a sparare stronzate a
raffica.
Scossi la testa in senso di diniego, anche se mi fece sorgere un nuovo
dubbio
che affollò la mia mente fino a sera tarda, impedendomi di
prendere sonno.
*
* *
Passò una settimana esatta nella quale si svolsero
regolarmente le lezioni con
Carter. Se scoprii la causa delle cicatrici? Sì, lo feci.
Il quinto giorno in cui ci incontrammo ancora non ero riuscita a
digerire
quella specie di diatriba del secondo giorno. Tuttavia, lui apprese
molto
velocemente quello che gli sarebbe servito per gli esami finali e
riuscì ad
ottenere anche una B+ in biologia. Il professor Roberts mi fece le
congratulazioni per il lavoro svolto ed anche Ven fu fiera di me.
Ritornando
alle cicatrici, be’ solo dopo aver sentito la spiegazione,
sentii un vuoto
enorme al cuore e mi maledissi per avergli fatto molta pressione.
Dannata
curiosità.
Non era una bella storia. Weston aveva una sorella di nome Lauren.
Sì, aveva. Aveva da poco
compiuto sette anni
e la stava riportando a casa dopo averla presa da scuola. Purtroppo
quel giorno
pioveva a dirotto e alcune strade erano state bloccate, altre erano
scivolose a
causa del ghiaccio. Weston dunque, timoroso di fare un incidente aveva
preso
una strada secondaria che a detta di molti sembrava più
stabile. Mentre
imboccava la curva, non aveva fatto in tempo a rendersi conto della
situazione
che le gomme avevano slittato sull’asfalto sbalzando in
avanti il piccolo e
debole corpo di Lauren che era andato poi a sbattere contro il vetro,
infrangendolo.
La macchina che avanzava a grande velocità
dall’altro lato aveva accesso i fari
che avevano fatto perdere a West la visuale ed il controllo e che di
conseguenza aveva finito per sbalzare la macchina fuori dal guard rail.
Il
mezzo si era capovolto su un fianco e Weston aveva finito per ferirsi
più volte
essendo rimasto incastrato sotto una lastra. Nonostante il dolore
lancinante
dovuto ai pezzi conficcati nella pelle, era corso con lo sguardo nella
ricerca
disperata della sua sorellina, finché non aveva scorso il
suo corpo esanime
riverso in una pozza di sangue.
Mi disse, mentre le lacrime scendevano a fiotti lungo le guance, che
tutto il
dolore fisico che avrebbe dovuto provare non eguagliava il dolore di
aver perso
la sorella. Si diede la colpa per anni e tuttora continuava a darsela.
Diceva
che c’era un motivo se le sue cicatrici fossero state
impresse sul corpo; erano
un segno indelebile della sua colpa. Anche se alla fine lui non
c’entrava
nulla.
Così piansi con lui e
mettendo da
parte lo studio ed il resto lo abbracciai, asciugandogli le lacrime di
volta in
volta.
Quel giorno capii che anche se non avevamo concluso niente a livello
didattico,
avevo conosciuto una colonna portante della sua vita, una sequenza di
immagini
di cui eravamo al corrente solo io e lui. Neanche Courtney lo sapeva
anche se
West mi aveva confessato che lei glielo avesse domandato più
volte.
E mi ritrovai ad ammettere che Jane Austen aveva avuto ragione, ancora
una
volta. “Non sono il tempo o
l’occasione a
creare l’intimità, ma solo la disposizione. Sette
anni non basterebbero a far
sì che due persone si conoscano e per altri, sette giorni
sono più che
sufficienti”.
Io e Carter avevamo impiegato
così poco tempo per stringere un rapporto che se il nostro
incontro fosse stato
un film, avremmo scosso la testa e detto: “Non può
essere vero”.
Quello fu il primo passo verso qualcosa che ancora non sapevo se avrei
mai
potuto accettare.
* * *
Quello stesso giorno,
scoppiò
l’inferno. Samantha Byron mi venne a trovare in camera e fece
un discorso di
scuse che mi lasciò alquanto stupita e perplessa.
Quello stesso giorno, Peyton lasciò ufficialmente Kyle
Grayson, il pervertito.
Quello stesso giorno, ammisi a me stessa di essermi innamorata.
Quello stesso giorno, Courtney Sullivan venne scaricata per la prima
volta in
vita sua.
Quello stesso giorno, Weston Carter fece un incidente.
Quello stesso giorno, chiesi un permesso per recarmi
all’ospedale in cui era
ricoverato.
Mi dissero che era in coma
etilico ma non versai neppure una lacrima perché entrai e mi
barricai in un
angolo del mio inconscio che si rifiutava di credere ad una cosa del
genere.
Non è forse il rifiuto la prima fase dopo aver saputo che il
primo ed unico
amore della propria vita, a cui non si è neanche riusciti a
confessare i propri
sentimenti, si trovi in uno stato pessimo a causa di un incidente?
L'ultima
sarebbe stata l'accettazione ma speravo con tutto il mio cuore non
fossi dovuta
atterrare ad una simile conclusione.
Non avevo mai creduto
all’amore
vero. Credevo a quello fittizio, quello di cui parlava Jane Austen,
quello tra
Elizabeth e Mr Darcy e anche se non credevo al primo, in fondo il mio
cuore
avevo sempre atteso un Mr Darcy. E la vita mi aveva fatto un regalo che
non
avevo mai saputo apprezzare. Mi aveva regalato una buona amica che
avrei
ringraziato fino alla fine dei miei giorni, un amico un po’
pervertito che
riusciva a strapparmi un sorriso anche quando ero con il morale a
pezzi, ed una
madre che non avevo mai conosciuto che solo in quel momento mi rendevo
conto di
avere sempre avuto accanto. Per tutta la vita avevo vissuto stringendo
tra le
mani un ciondolo con all’interno la figura di una donna
giovane, ferrea in me
la convinzione che quella fosse mia madre, la mia vera madre. Il
problema era che per tutta la mia
esistenza avevo sperato che un giorno avrebbe smesso di fare male la
sua mancanza, cercando di appigliarmi ad ogni piccolo e offuscato
ricordo che avessi di lei, e non mi ero mai
soffermata a pensare che forse quelle attenzioni che Venera Chamberlain
mi
riservava, non erano solo attenzioni legate ad un favore nei confronti
di mio
padre. C’era molto altro celato dietro. La vita mi aveva dato
una seconda
possibilità, la possibilità di cominciare una
vita normale sotto il nome di
Nicole Parker. Ed io mi ero sempre ritenuta come tale. Janel Rothenberg
era
solo la mia immagine fittizia. Uno scudo che non avevo mai avuto
l’occasione di
utilizzare. Un nome che avrei di gran lunga preferito dimenticare.
Nonostante tutto, non sarei riuscita a prendermela con Dio.
Né
con Ven, né con Daniel Rothenberg, il senatore, mio padre,
che mi aveva tenuto nascosto quel particolare importante riguardo la
mia vita; che non mi aveva mai permesso di crescere con Venera per non
destare scandali. Per anni avevo pianto la mancanza di una
figura materna, mi ero rifugiata alla sua tomba di Rosalie Hamilton,
una totale estranea.
Ecco, sebbene le recenti e improvvise
scoperte, mi ritrovavo a dover ringraziare Dio
perché mi aveva concesso di vivere una vita serena e
tranquilla, fatta di
piccoli attimi ma di grandi successi.
Ed infine, ma non meno importante perché se ero arrivata a
quelle conclusioni, il merito andava soprattutto al ragazzo dal
cappuccio chino in testa e gli
occhi ipnotici che era stato l’unico a sapermi regalare degli
autentici
sorrisi.
Quando si svegliò dal coma,
era
un po’ scosso ma sempre bellissimo. L’avevo
vegliato giorno e notte nell’attesa
che aprisse gli occhi. Mi ero promessa che appena l’avesse
fatto, gli avrei
confessato i miei veri sentimenti. Senza più
nascondermi. Senza più
mentire a me stessa.
«Strange...»,
mimò con le labbra, incurvandole nel detestabile ghigno che
mi
aveva condotta ad innamorarmi. Mai come in quel momento avevo adorato
quel
nomignolo pronunciato dalle sue belle labbra.
«West, non lo sai che ci sono modi e modi di rubare il cuore
alle ragazze?»,
iniziai, scostandogli dalla fronte i ciuffi ribelli che ancora si
ostinavano ad
oscurargli il volto.
«Sì, perché sei stato un tale stronzo.
Tu non solo ti sei preso il mio cuore ma
ti sei permesso anche di giocarci a calcio. Forse non te ne sei mai
reso conto
perché eri convinto di amare Courtney. Sai cosa, a
proposito? Credo proprio tu
avessi ragione su di lei, per alcuni aspetti. Migliora un po’
se la conosci. Ed
io devo ringraziare te per tutto questo, perché se non fossi
entrato a
stravolgere tutti i miei piani ed i miei progetti, a
quest’ora non sarei altro
che una ragazzina ingenua, illusa che l’amore vero non esiste
e non esisterà
mai. A quest’ora non sarei altro che in alto mare ad affogare
nei miei stessi
sentimenti. Ad affogare i miei sentimenti, troppo spaventata dalla
sofferenza.
Se c’è una cosa che ho capito in questi giorni,
Weston Carter, è che alla fine
sono caduta anche io vittima dell’amore e sì,
io...», mi bloccai, stroncata da
un singhiozzo. Prima che potessi concludere il mio discorso, mi sentii
afferrare per la maglietta verso il letto su cui era steso e in un
attimo, le
mie labbra si scontrarono contro quelle di Carter. Un bacio che fu
dolce,
tenero, delicato, ma allo stesso tempo disperato, perché
ardivamo quel contatto
tanto l’uno quanto l'altra da quando i nostri occhi avevano
preso a danzare per
quella benedetta mensa finché non si erano arrestati gli uni
negli altri,
sancendo una muta promessa. Solo che ancora non l’avevamo
percepita, ciascuno
rinchiuso all’interno della propria bolla di indifferenza e
di cecità.
Quando ci staccammo non potei non
sorridere come una deficiente. Posai la mia fronte contro la sua:
«Io... credo
di essere caduta vittima del tuo fascino, Carter. Del resto,
è successo a tutte
le ragazze della tua vecchia scuola», feci sarcastica,
ricordandomi delle sue
parole quel giorno in laboratorio.
Ero proprio una stupida ed
ingenua ragazzina, allora.
«Non è certo per vantarmi, Strange»,
stette al gioco lui, carezzandomi le
guancie con i pollici, prima di far combaciare nuovamente le nostre
labbra.
Risi sulla sua bocca: «Mai pensato».
«Ma mi ami nonostante questo, giusto?», si
accertò corrucciando la fronte in
un’espressione adorabile.
«Non so... non ne sono sicura. E se poi ci
ripenso?».
«Vorrà dire che faremo bastare il mio amore per
entrambi», mi rispose,
avvicinandosi al mio orecchio e facendomi rabbrividire come al solito.
Feci per alzarmi, perché era giunto il momento di chiamare
il dottore.
«Aspetta... non andare», mi afferrò
saldamente una mano, come se avesse paura
che quello fosse un sogno e potessi lasciarlo per sempre.
«È da mesi che aspetti. Che saranno cinque minuti
in più?».
«Non pensi che abbia aspettato già
troppo?», sgranò gli occhi, accigliandosi
appena. Subito dopo seguì una smorfia di dolore per aver
compiuto quel gesto.
Difatti il sopracciglio era leggermente lesionato.
«Penso che sia io quella che dovrebbe lamentarsi, West. Non
so ancora se ti
ho perdonato per quella sera», gli feci presente.
«Mi hai baciato», replicò, ovvio.
Annuii: «Non significa automaticamente che tu sia perdonato.
Diciamo che dovrai
aspettare ancora come punizione».
«No, dài... è ingiusto. Sono invalido,
non puoi trattarmi così».
Risi, avviandomi verso la porta mentre lui si metteva a sedere.
«Oh, sì. Sei mio, ormai. Posso tutto»,
affermai risoluta, osservandolo da
dietro una spalla, una mano sulla maniglia.
«E chi lo avrebbe deciso, scusa?».
«Mi hai baciato», replicai io, questa volta,
ridendo dentro di me. Si poteva
essere più felici? Non credo.
L’amore era così
bello.
«Qualcuno mi ha detto che non significa nulla». Si
mise in piedi, un po’ barcollante
e a fatica mi raggiunse. Quant’era bello con quei calzoncini
blu ed il torace
scoperto e tornito, se non fosse per le bende da cui era fasciato.
Indietreggiai fino a toccare la porta. Ops, dejavù.
Mi afferrò per i fianchi e
mi
attirò a sé, facendo incastrare le mie gambe tra
le sue e cercando le mie
labbra. Non mi opposi.
«Sei mia», mi baciò sulla fronte,
«Ora», mi baciò sulle palpebre,
«E», mi baciò
sulle guancie, una ad una, «Per», passò
al naso e mi fece il solletico,
«Sempre», fece infine scontrare le sue labbra
contro le mie.
Mi tuffai tra le sue braccia e cominciai a tracciare delle linee sui
suoi
muscoli scolpiti, cominciando a baciare ogni cicatrice che vi era
impressa
mentre tenevo saldamente il contatto con i suoi occhi.
«Che... che stai facendo?», chiese con voce
strozzata e gli occhi leggermente
vitrei.
«Mi prendo cura di queste».
«Sono anche queste roba mia, d’ora in
poi», affermai, completando l’opera e
sorridendo.
Mi fissava con gli occhi ridotti a due fessure. Cercava di scrutarmi
nell’anima,
forse? Oh sì, ma per quello ci sarebbe stato tempo.
«Sai che sei proprio
strana?».
«Mi hanno detto di peggio, Weston Carter». Sbattei
le palpebre ed osservai la
sua reazione. Di colpo si fece assorto, aggrottando le sopracciglia
mentre
disegnava dei cerchi sul mio palmo e poi su tutto il braccio,
provocandomi
piccole scariche elettriche.
«Che
c’è?», chiesi curiosa.
«Ma dove sei stata per tutto
questo tempo?». Avete presente quando si è
increduli nel dire qualcosa e si
adopera quel tono così simile a “No, non ci
credo”? Be’, Carter ne era
l’esempio vivente ed io stavo morendo di iperventilazione.
«Sotto i tuoi occhi, ma eri
innamorato della ragazza sbagliata e quindi...», tracciai una
linea immaginaria
con l’indice su un addominale. Tutto pur di non incrociare i
suoi occhi.
Mi strinse più forte: «Nicole West. Suona bene,
no?».
«Mmh, che strano... avrei scommesso avresti detto: Strange
West».
Sorrise sulle mie labbra, un braccio ancorato alla mia nuca.
Assentì, divertito. «Sì, molto
meglio».
Ogni volta che mi sfiorava un brivido mi percorreva la spina dorsale.
Ogni
volta che si avvicinava provavo la stessa, identica emozione. Ogni
volta mi
ritrovavo ad arrossire come un'idiota. Ma tanto a figure di merda stavo
a quota
mille. E lui, lui aveva deciso di amarmi con e nonostante il mio essere
così
dannatamente ed irreparabilmente... strange.
1
“Milo”, si legge “Mailo”; in
onore di Milo Huntington
de Natale a Castlebury Hall, il mio film
di natale preferito;
2
“Ovest”, gioco di
parole poiché
“West” in inglese significa proprio Ovest.
@Dandelionx