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Autore: ClaireOwen    10/04/2017    3 recensioni
[Bellarke - Modern.AU]
“Mi dispiace.”
Sussurra timidamente.
E sa che dovrebbe porgere le sue scuse ad ognuno di loro ma vuole essere sicura che sia proprio lui ad udirle per primo.
Ad ogni modo se c'è una cosa che Bellamy Blake sa fare è stupire e stavolta lo fa riservandole un sorriso docile, spiazzante; china leggermente il capo, prega che nessuno si sia reso conto di quella sua impercettibile reazione perché di certo non è riconosciuto dagli altri come una di quelle persone affabili e gioiose, effettivamente non è dispensando sorrisi che il maggiore dei fratelli Blake si è guadagnato il rispetto da quel branco di scapestrati.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Octavia Blake, Raven Reyes, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I
 
 
Clarke Griffin cammina per le strade affollate di Washington, adora farlo, ama guardare di sfuggita i volti delle persone indaffarate, distratte da quella frenesia di fondo che sembra fagocitare ogni cosa e si perde nei loro lineamenti fugaci, immagina storie e vite.
Dopo tutto la venticinquenne vive di questo, immagini e fantasia, astrattismo e veridicità.
Ma oggi non c’è tempo per perdersi nella contemplazione delle strade della capitale e l’unica cosa a cui si permette di lanciare un’occhiata è il suo orologio che segna le nove in punto. E’ in stramaledetto ritardo ed affretta il passo che la porterà verso il suo imminente futuro, verso il suo lavoro, la sua passione.
 
Quando arriva a destinazione suona al campanello di un vecchio edificio centrale, lo stile le ricorda, per quel che ne sa, quei grandi palazzi londinesi di epoca vittoriana visti nella moltitudine di cartoline che Lexa è solita farle recapitare almeno una volta al mese.
Quante volte le ha promesso di prendere il primo volo utile per ricongiungersi a quella pelle ambrata e a quegli occhi smeraldo che tanto ha amato?
Scuote la testa, sa perfettamente che è la giornata peggiore per pensare alla propria vita sentimentale così confusa e poco nitida.
Raven la accoglie con un sorriso luminoso e senza dirle nulla le strappa letteralmente dalla mano uno dei due frappuccini che la giovane biondina tiene saldamente.
“Non c’è di che!”
Sta al gioco la bionda che entra titubante in quel luogo che l’accoglierà per i giorni a venire. Si guarda intorno come una bambina curiosa, esamina ogni centimetro delle pareti bianchissime sulle quali con maniacale ordine e cura sono appesi diversi dipinti, osserva l’arredamento minimale e a grandi passi delinea quasi inconsapevolmente tutto il perimetro del suo atelier.
“Avrai tutta la serata per contemplare le tue opere.”
Sbuffa Raven dietro al suo bicchiere ancora fumante.
“Lo so è che…”
“Non ti sembra vero.”
La mora termina quella frase che negli ultimi giorni ha udito quasi in ripetizione e lo fa con una tenerezza di fondo capace di rassicurare almeno per un po’ la giovane Griffin che sospirando cerca di ricomporsi.
Clarke dovrebbe essere felice, chiunque al suo posto lo sarebbe dopo tutto sta per coronare quel sogno nel cassetto per cui ha lottato fino all’ultimo.
Stasera è la gran serata d’inaugurazione della sua galleria ed è tutto pronto, tangibile: proprio sotto i suoi occhi ci sono i volantini che nei giorni precedenti hanno infestato la città; le opere sono al loro posto, ogni quadro, schizzo, tavola ha la propria posizione scelta con cura ma invece di sorridere la ragazza digrigna i denti per l’agitazione.
 
*
 
Bellamy Blake siede composto sul suo sedile, non ha chiuso occhio nonostante il volo duri da un’eternità, sente il cuore vibrare ed uno strano presentimento.
Dovrebbe essere mattina ormai almeno seguendo il fuso di Washington e lui dovrebbe essere maledettamente contento di tornare a casa, di rimettere finalmente piede nella sua città natale dopo otto anni passati da sua madre Aurora a Sydney eppure ha una folle paura di non ritrovare più il suo posto.
Lascia che il suo sguardo rimbalzi dall’oblò al sedile accanto al suo, dove la non più piccola ed indifesa Octavia Blake dorme un sonno che non riesce a definire sereno.
Forse se sua sorella non avesse preso così male il rientro non si farebbe tutti quei problemi, cerca in modo ostinato di convincersi di quel pensiero ma non riesce ad essere del tutto sicuro che quella sia davvero la ragione di tanta stupida agitazione.
Il maggiore dei Blake non ama ammettere le proprie insicurezze e men che meno le paure ma negare l’evidenza sarebbe stupido.
Sono cambiate tante cose, persino i volti di quelli che erano i suoi migliori amici, non sono più una banda di ragazzini sconsiderati che credono ciecamente in lui, ognuno sembra aver trovato il proprio posto in quella città che per anni hanno definito ostile.
Le loro barbe non sono più incolte e disordinate, i loro visi ora sono asciutti, ripuliti, gli occhi non brillano più lucenti di quella pura ingenuità e questo lo spaventa a morte.
Perché Bellamy non sa più qual è il suo posto, sa solo che Murphy non abita più nella casa accanto, si è trasferito verso il centro ed ha persino trovato un lavoro, Miller studia al campus della Georgetown University e torna solo nei weekend, Jasper sembra essersi affermato nella scena musicale underground di Boston, nelle foto che ha visto online poi ci sono visi nuovi a cui non saprebbe nemmeno attribuire dei nomi.
Sa queste cose da quelle poche telefonate che in tutti questi anni si è scambiato con alcuni di loro, troppo poche per quell’enorme lasso di tempo e adesso mentre sorvola la capitale i rimorsi lo assalgono, è colpa sua, si sarebbe dovuto preoccupare molto di più per i suoi compagni d’avventure, si erano ripromessi di mantenere i rapporti ma lo hanno fatto con troppa svogliatezza.
Ha vinto la distanza alla fine anche se i patti promettevano il contrario.
Una voce lo allontana bruscamente da quei pensieri così titubanti: è atonale e dall’altoparlante comunica che tra venti minuti atterreranno a Washington DC, il tempo è buono, la temperatura mite e così Bellamy cerca di sforzarsi nel tirar fuori un sorriso convincente perché la minore dei Blake ha appena aperto gli occhi verdi che confusi e ancora assonnati cercano in modo quasi disperato il loro porto sicuro: le iridi scure di lui.
“Andrà tutto bene.” Sussurra il ragazzo e cerca di risultare il più sereno possibile nel pronunciare quella semplice frase ma forse lo dice più a sé stesso ed Octavia, probabilmente non convinta, annuisce in modo impercettibile, senza parlare, senza provare a rassicurarlo.
Sono giorni che prova ad instaurare un dialogo con sua sorella ma la fiera Blake sembra non volerne sapere, si è chiusa di nuovo nel suo mondo, si aggrappa a quel rancore che ha deciso di riservargli, nonostante tutto, nonostante gli innegabili atti di affetto spontanei e viscerali che da sempre caratterizzano il loro rapporto, invidiato di fatti da chiunque, e Bellamy sente un peso nel petto, non ha idea di quando tutto questo finirà, se mai lo farà.
 
 
Un uomo alto e snello sulla cinquantina cammina avanti e indietro per il Terminal 3, ogni cinque minuti riserva un’occhiata al tabellone con gli orari degli arrivi.
Manca davvero poco.
Non sta più nella pelle, si sente come un ragazzino e una leggera tachicardia s’impossessa del suo cuore stanco.
Stretto nel suo Levis logoro e forse macchiato dal quale una camicia di flanella scolorata fuoriesce in modo disordinato stringe al petto un mazzo di girasoli e una scatola di latta assortita di cioccolata.
Michael Blake, per gli amici Mike, non vede i suoi figli da otto anni, ha contato ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, ora, minuto o secondo in cui sono stati lontani.
E’ un uomo all’apparenza burbero, il viso è ruvido e segnato, la barba scura piuttosto lunga, poco curata e qualche cicatrice procurata sul cantiere lo rendono un figuro non troppo raccomandabile ma due occhi di un verde smeraldino brillano di una luce nuova fatta di agitazione ed emozione che addolcisce immensamente i tratti severi di quel viso grezzo.
Pensa ai suoi figli, pensa al ricordo che ha dei loro volti, alle poche foto che si sono scambiati da quando Aurora li ha portati via con sé, da quando la famiglia Blake ha cessato di essere definita tale, almeno sin quando le porte del Terminal si aprono ed un gruppo di uomini e donne cominciano la loro personalissima corsa verso la capitale degli Stati Uniti d’America.
L’uomo allora raddrizza le spalle ed inspira profondamente, desidera che tutto sia perfetto, indimenticabile degno di essere raccontato in un romanzo e, a quel pensiero, un sorriso raggiante che contrasta con la sua espressione naturalmente tirata, curva le sue labbra leggermente screpolate.
Li riconosce subito, anche se sono ancora troppo lontani e assorti perché avvenga il contrario, i suoi occhi si appannano, sente le pupille bruciare ma trattiene quelle lacrime di gioia più che può.
Blake Senior non ama esternare la propria sensibilità ed ha sempre asserito con una certa fierezza che i suoi ‘cuccioli’ siano fatti della medesima pasta.
Vede Bellamy camminare con la schiena ritta e la piccola Octavia al suo fianco che si tiene stretta alla mano del fratello maggiore proprio come quando erano solo dei bambini, la minore cerca di star dietro alle lunghe falcate del  moro che la precede leggermente ed è in quel momento che Michael non riesce a trattenersi e corre incontro ai due figli schivando maldestramente la massa di persone che li separa.
I due ragazzi si ritrovano stretti in un abbraccio che odora di casa e diffonde un calore indescrivibile senza che nemmeno abbiano il tempo di realizzare quanto stia accadendo.
La prima a staccarsi è la più giovane che si sistema subito dopo il maglioncino di cotone sgualcito da quel contatto così aggressivo e dalle innumerevoli ore di volo, lascia che i suoi occhi esplorino l’aeroporto, non vuole assistere alle scene smielate che da sempre caratterizzano quei due e fa di tutto per distrarsi da quell’abbraccio che sembra quasi imbarazzarla ora che non ne fa più parte.
Bellamy Blake inspira a fondo, il suo naso percepisce l’odore della calce fresca che aleggia sul giubbotto di suo padre, l’uomo lo stringe con quella forza tipica che solo un operaio attempato riesce ancora a tirar fuori nonostante l’età e il ragazzo sente di non poter più far a meno di quella vicinanza. Con riluttanza i due Blake si staccano l’uno dall’altro e il più anziano, cercando di nascondere il tono rotto da quell’emozione primordiale che solo un genitore sa dimostrare dopo tanta lontananza, pronuncia il suo benvenuto ai figli:
“Bentornati a casa
Porge dunque i fiori alla piccola della famiglia e la scatola al maggiore.
“Non dovevi…”
è Bellamy il primo a parlare.
L’uomo osserva i due oggetti che i suoi figli stringono tra le mani e pensa che quegli stupidi regali non saranno mai abbastanza, così cerca di darsi un tono e quasi sbuffando intona un modesto:
“Non è nulla, figuriamoci.”
“Non c’era bisogno che venissi fin qui a prenderci, avremmo potuto benissimo prendere un taxi.”
La gelida voce di O’ spezza la cordialità impacciata che finora ha dominato la conversazione. Bellamy deglutisce rumorosamente e cerca di stemperare l’osservazione della sorella con un sorriso ma Mike fa spallucce e come se nulla fosse invita i ragazzi a seguirlo, prendendo con cura i bagagli della ragazza.
 
*
 
 Jasper e Monty arrivano portandosi dietro il loro inseparabile ritardo e quando varcano la soglia dell’atelier Raven si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, mentre Clarke allontanatasi dalla zona adibita a segreteria è nello spazio espositivo da circa una quarantina di minuti e continua a lamentarsi senza sosta del fatto che la disposizione delle opere non è per nulla convincente, la sua voce arriva fin lì e la mora si porta le mani al volto ogni qual volta l’amica impreca contro una parete.
“Dio Grazie!”
Esclama così la giovane Reyes non appena incrocia gli sguardi dei due amici.
“E’ così tanto grave?”
Monty tira ad indovinare.
“Non ne hai la più pallida idea, è da stamattina che cerco di tranquillizzarla ma sembra proprio che invece che ad un’inaugurazione Clarke si stia preparando all’apocalisse vera e propria.”
“Ci pensiamo noi.” Jasper cerca di rassicurarla stampandole un bacio sulla guancia.
“A proposito lei dov’è?” Fa eco Monty mentre imita l’amico nel saluto affettuoso.
“Secondo te?”
“Domanda stupida, ricevuto.”
I ragazzi si lasciano alle spalle Raven che maledicendosi per aver accettato di far da social manager, monitora l’evento sui social e continua una promozione senza fine per far sì che la serata riesca al meglio.
Quando Green e Jordan approdano nella sala delle esposizioni trovano Clarke seduta al centro della sala, appoggiata con la schiena all’imperante colonna portante intenta ad analizzare ogni centimetro quadrato della stanza.
“Datti tregua ragazza.”
L’ammonisce Monty mentre la bionda, imbarazzata per essere stata colta in quel momento di debolezza, cerca di alzarsi di scatto per andare incontro ai due amici.
“Avete tutto? Vi serve una mano con gli strumenti? Avevo pensato di utilizzare quell’angolo per la vostra esibizion…”
Jasper non le permette di terminare.
“Dio Santo Clarke vuoi darti una calmata? Non ci serve assolutamente nulla, abbiamo tutto nel cofano ed il nostro tutto consiste semplicemente nel computer e le casse, dobbiamo allestire un djset mica far suonare un’intera orchestra!”
La biondina si morde un labbro colpevole e annuisce.
I due si avvicinano e la costringono in un abbraccio caloroso che sa di dolcezza, Jas poi le porge una busta.
“Per te.” Dice teneramente.
La ragazza sorride visibilmente ed estrae dalla busta regalo una splendida orchidea bianca.
“Dicono che quando si apre un’attività sia di buon auspicio regalare dei fiori”
Monty Green motiva la scelta del pensiero e Clarke ancora con il fiato sospeso si abbandona a quel moto amichevole:
“E’ perfetta.”
Corre nello studio chiamando Raven quasi istericamente e i due sprofondano in grasse risate, seguendola a distanza.
I quattro si ritrovano così insieme e mentre l’unica bionda del gruppo cerca l’angolo ottimale per la sua nuova orchidea i tre si perdono in osservazioni e commenti riguardo quel luogo immacolato che tanto hanno sentito decantare dalla giovane Griffin.
“E così finalmente riusciamo a vederlo!”
Inizia Jordan.
“Molto meglio che nelle foto che ci hai inviato su Whatsapp, devo ammetterlo, come ti senti?”
Fa eco l’amico.
“Dimmi che non le hai fatto davvero quella domanda” Raven ridacchia ma nella sua frase c’è un pizzico di esasperazione.
E’ a quel punto che Clarke riesce finalmente a dire qualcosa di sensato, con quella frase tutto le appare più reale, lei è lì, sta per inaugurare la sua galleria, il suo sogno ed è tutto grazie a suo padre Jake.
“Non lo so, sono così eccitata, non riesco a crederci e mi dispiace…” Guarda Raven per un secondo “Mi dispiace davvero se sono stata così insopportabile in questi giorni è solo che… voglio che tutto sia perfetto, voglio ricordare questa serata per sempre.”
“Oh… Lo farai!”
Si lascia sfuggire Jas eppure sembra che il suo commento non sia pienamente rivolto a quello che l’amica ha appena detto.
“Cos’è quel tono?”
Indaga allora Reyes acuta.
“Bhè, non avete sentito la novità?”
Incalza il ragazzo, facendo gioco sulla suspense e lasciando che tutti gli sguardi siano su di lui, solo quando ha la certezza di avere l’attenzione dei presenti inspira profondamente e si prepara a dare quella che ai suoi occhi era apparsa come la notizia del secolo:
“Pare che i fratelli Blake siano tornati a Washington DC!”
Clarke lascia che sue labbra si socchiudano in una muta sorpresa, non sa perché, non ha il tempo di chiederselo ma sente il suo cuore perdere alcuni battiti.
Octavia, ripercorre quel nome mentalmente ed insieme alle lettere le sembra di poter rivedere proprio dinnanzi a lei il profilo esile di quella ragazzina astuta e bellissima che era stata la sua migliore amica.
Non sono pensieri felici, una sorta di amarezza anzi si impossessa di lei immediatamente spazzando via l’ansia per l’inaugurazione, sbatte le ciglia e quel battito le basta per far sì che l’immagine dell’amica d’infanzia svanisca lasciando spazio a quella del fratello maggiore, alto e snello con i capelli scompigliati e quel sorriso beffardo come dipinto sul viso ornato da mille e più lentiggini, le sembra di poter descrivere il profilo di quel naso perfetto e di quel ricciolo ribelle che ricade sulla fronte leggermente corrugata.
Clarke Griffin senza dire una parola ma soprattutto senza lasciare agli altri la possibilità di far alcun commento, si è lasciata alle spalle i suoi amici e come attratta da una forza sovrannaturale si è catapultata nuovamente nella stanza adiacente mirando ad una parete ben precisa, quella della colonna posta proprio al centro della stanza.
E’ strano perché è l’unica di cui non si è più curata dall’allestimento, la sola su cui non ha avuto ripensamenti che ha lasciato immacolata dopo avervi posto il ritratto.
La giovane donna trattiene il fiato mentre sfiora leggermente il foglio dalla grammatura spessa che stretto in un elegante passe-partout impera sul muro ancora fresco di candida vernice.
E’ uno schizzo a carboncino che ritrae un ragazzino serio, i lineamenti del viso sono delicati ma decisi al tempo stesso ed è come se il tratto della matita morbida enfatizzasse nel modo più fedele possibile la natura ossimorica di quel volto, i riccioli neri sembrano prender vita nel preciso chiaroscuro in cui sono incastonati, lo sguardo leggermente crucciato è però fiero e lontano, non osserva gli occhi chiari di Clarke che trattenendo ancora il respiro li posa invece insistentemente su quel tratto a matita che conosce benissimo, è stato uno dei suoi primi ritratti.
Improvvisamente un’ondata di ricordi la travolge.
 
 
Quel giorno se ne stava seduta a gambe incrociate nella comoda poltrona dove solitamente torreggiava Michael Blake intento nel leggere articoli politicamente impegnati con la sua pipa accesa che impregnava le pareti del salone di un caratteristico odore aspro.
Lei e Octavia avevano aspettato quel giorno proprio come i bambini attendono la notte di Natale, era il pomeriggio del Junior Prom e per tutta la giornata non avevano fatto altro che prepararsi, si erano acconciate i capelli a vicenda, avevano fatto una fin troppo attenta manicure, si erano provate differenti vestiti e avevano osato con un makeup differente seguendo in modo maldestro dei tutorial su youtube.
Alla fine Clarke si era arresa, aveva lanciato uno sguardo al suo riflesso nell’ampio specchio di casa Blake e invece di una principessa ci aveva visto una ragazzina con un cerone ridicolo indosso ed un vestito troppo appariscente.
Allora era corsa a casa, lasciando che l’acqua tiepida della sua doccia lavasse via quei vani tentativi di apparire unicamente bella.
Octavia però l’aveva chiamata non appena si era resa conto della sua fuga ma la giovanissima Griffin era stata sincera, le aveva quasi urlato che non ce la faceva a vedersi in quel modo, che non si riconosceva e che forse tutta quella storia del ballo non faceva per lei, dopotutto sapeva che si era semplicemente lasciata trascinare da quell’enfasi genuina e piena di aspettative tipica della minore dei Blake. L’amica dall’altra parte della cornetta però l’aveva convinta a non mollare:
“Promettimi che tornerai qui nel vestito più semplice che troverai nel tuo armadio armata di scarpe da ginnastica e rimmel.”
La bionda aveva riso a quella strana richiesta e non era riuscita ad opporre resistenza quindi aveva spalancato le ante del suo armadio e aveva tirato fuori un vestitino bianco senza spalline che aveva indossato senza dover trattenere il fiato, era poi uscita in terrazzo lasciando che i capelli ancora umidi si asciugassero al sole e delineassero sulle sue spalle nude dei dolci boccoli vaporosi.
Recatasi in bagno poi si era truccata soltanto utilizzando del rimmel ed un rossetto color carne.
Davanti lo specchio che adornava la fine del corridoio di casa Griffin si era infilata un paio di  Converse sporche ancora di fango, aveva afferrato il suo giubbetto di jeans ed era corsa a perdifiato verso casa di Octavia.
Ricorda ancora l’espressione che Bellamy le aveva riservato quando in modo particolarmente seccato le aprì la porta d’ingresso: aveva strizzato gli occhi leggermente ed un sorrisino incerto aveva incurvato le sue labbra rosee lasciando che due leggere fossette facessero capolino agli angoli della sua bocca.
“Non sembro una principessa stavolta.”
“Ti sbagli, sembri una principessa coraggiosa, Griffin.”
Probabilmente Clarke aveva sbuffato e quando Bell le aveva detto che Octavia si era letteralmente chiusa in bagno da quando lei aveva abbandonato la loro dimora, la biondina si era accaparrata il posto più ambito sulla poltrona di pelle nell’accogliente salotto.
Fu allora che il suo sguardo si era posato sul tavolino basso accanto al divano; c’erano un album da disegno con dei fogli spessi e ruvidi la cui carta non era bianca ma tendente al giallo antico, alcuni schizzi a matita su di essi ritraevano paesaggi bellissimi: valli, fiumi e rami, animavano quei fogli che disordinatamente erano disposti sul tavolo creando una sorta di mondo immaginario che prendeva vita attraverso quel puzzle di cui ogni foglio componeva un preciso tassello e la cui composizione sembrava quasi esser stata studiata. In modo altrettanto casuale matite e carboncini di varia morbidezza riposavano sul legno del piano.
“Disegni?”
Una voce poco familiare l’aveva fatta sobbalzare imponendole di distogliere lo sguardo da tutto quel ben di Dio.
Era Mike, di solito molto taciturno, che con la sua pipa in mano la guardava incuriosito, accennando un sorriso.
Lei aveva annuito precisando “Solo ogni tanto a dirla tutta, non sono un granché.”
“Puoi prenderlo se vuoi.”
Disse Blake senior indicando l’album.
“O’ sa farsi attendere e se ti annoi e hai piacere puoi usare tutto ciò che vuoi per disegnare ed ingannare il tempo.”
“Non saprei… Ma la ringrazio tanto!”
“Non fare complimenti Clarke, davvero.”
E così dicendo l’uomo se n’era andato. La ragazzina aveva gettato un ultimo sguardo desideroso verso gli strumenti e furtivamente si era appropriata di un carboncino e dell’album.
Quindi si era ritrovata per dieci minuti buoni a fissare il foglio e ad accarezzare quella carta così preziosa per la sua unicità.
Disegnava è vero, lo faceva da quando era piccola, si era fatta persino regalare pennelli e tempere in occasione di qualche compleanno ma non si era mai sentita un’artista, anzi aveva sempre pensato al disegno come una ad una reminiscenza infantile che avrebbe dovuto scacciare invece di assecondare.
Così non aveva mai scavalcato quel suo approccio dilettantistico, disegnava su vecchi quaderni, diari ma non aveva mai comprato un album da disegno o qualcosa di diverso da una comune matita scolastica e ciò che aveva in più erano solo regali che spesso non utilizzava per paura di “sprecarli” nella realizzazione di quelli che definiva impiastri colorati.
Quando però aveva notato che un assorto Bellamy Blake se ne stava seduto sul tavolo posto proprio perpendicolarmente alla sua traiettoria visiva non era riuscita a sottrarsi dal ritrarlo.
Stava leggendo un libro ed ogni tanto mordeva svogliatamente una mela verde, non si sarebbe mai accorto di lei, dopotutto non lo faceva mai, la ignorava da quando aveva cominciato a frequentare assiduamente casa Blake e se le rivolgeva la parola non era mai carino nei suoi confronti, le riservava piuttosto solo battutine che le lasciavano un retrogusto aspro in bocca proprio come quello del limone.
Non ne soffriva comunque, anzi con il passare del tempo non solo aveva imparato ad incassare i colpi ma aveva affinato la sua tecnica nel fornirgli risposte a tono, spesso anche parecchio taglienti, tanto che ogni qual volta colpiva e affondava il maggiore dei Blake un’inspiegabile soddisfazione affiorava nel suo animo.
Aveva cominciato a disegnare sul foglio con una foga inaudita, improvvisamente era come se nella stanza non ci fossero che Bellamy e lei, voleva approfittare di quel materiale che non avrebbe mai più avuto a disposizione e si era ritrovata ad analizzare attentamente ogni piccola espressione del viso del maggiore dei Blake, ogni curva che i suoi riccioli intraprendevano, tutto lo spazio che il suo busto slanciato occupava. Nonostante la discreta distanza aveva realizzato in quel momento che si era lasciata sfuggire sempre così tanti dettagli del viso del fratello della sua più cara amica.
Non aveva fatto mai caso all’espressione seria e compita, a volte persino malinconica, che conservava, non si era resa mai conto di quanto il naso del ragazzo avesse una forma così morbida e perfetta o ancora non aveva notato quel ricciolo capriccioso che rimaneva imperterrito alla sinistra della sua fronte nonostante i numerosi tentativi del ragazzo di sistemarlo passandosi una mano tra i capelli.
Era bello.
E ricorda ancora bene di essersi rimproverata sorprendendosi a pensarlo, che le prendeva? Si era detta leggermente turbata; insomma era Bellamy Blake, il fratello sbruffone di O’, niente più.
Eppure la bellezza di quel ragazzo era sconvolgente e lo era perché bisognava soffermarsi a guardarlo per coglierla davvero, andava oltre i pettorali scolpiti e le spalle larghe che tutte le sue coetanee a scuola ancora invocavano rievocando gli ex alunni più popolari del liceo.
La bellezza che avvolgeva il maggiore dei Blake era profonda, intrinseca, si manifestava attraverso l’intensità del suo sguardo perso nel vuoto e aggrappato a chissà quale pensiero lontano o nel leggero ticchettio che le sue dita affusolate scandivano sul tavolo o nelle sue labbra morbide che si infrangevano contro la polpa e la buccia della mela che stringeva nella mano destra ed era arrivata al suo massimo esponenziale nel momento in cui aveva percepito il modo in cui sorrideva mentre leggeva le avventure di chissà chi in quel romanzo che continuare a divorare con gli occhi.
Quel giorno Clarke Griffin era riuscita a guardare oltre grazie al disegno, aveva abbattuto delle barriere ed il suo cuore aveva perso due battiti quando Bell si era morso il labbro inferiore ma la sua giovinezza e l’ansia per la serata che con Octavia aspettava da mesi aveva fatto sì che non se ne rendesse davvero conto.
Eppure la giovanissima aveva sentito uno strano formicolio di eccitazione quando la sua mano si era apprestata a delineare con dedizione il contorno del mezzobusto di quel ragazzo con il solo scopo di rendere giustizia a quella rara bellezza che da un momento all’altro era riuscita a captare.
 

“Pensi che verranno stasera?”
“Non lo so… ma se ci pensi siamo gli unici amici che Bellamy ha a Washington e si da il caso che saremo tutti qui.”
“Se conosco abbastanza bene John, credo proprio che lo avrà invitato.”
 
Clarke sente questi discorsi dal bagno anche se le pareti le fanno arrivare le voci in modo ovattato riesce ancora a distinguere ogni parola, è qui che ha deciso di rifugiarsi dopo la rievocazione di quei ricordi che credeva perduti per sempre, non sa nemmeno perché ha sentito quello strano bisogno di rintanarsi da qualche parte, di restare sola e non è proprio sicura di volerselo chiedere.
Si è appena sciacquata il volto con il getto freddo ed ora che si sta guardando allo specchio le sembra quasi di poter vedere riflesso il visoancora imperlato da qualche goccia d'acqua gelida della giovane Clarke Griffin in crisi per il Junior Prom. 
 

Angolo autrice: Ed eccomi qui, dopo un po' di tempo proprio come vi dicevo...
Alla fine mi sono lasciata trasportare ed ha vinto l'idea della long, è un capitolo che ho pensato in tanto tempo ma scritto, dopo un blocco iniziale, in modo quasi furioso per paura di perdere l'ispirazione, ho cercato di rivederlo al meglio ma data la foga potrebbe esserci comunque qualche svista.
Cercherò di fare delle revisioni ma per timore di ripensamenti vari ho deciso di pubblicare comunque, è un periodo di forte indecisione per me quindi cercate di capirmi ahah
Per quanto riguarda la storia spero di aver rispettato al meglio i caratteri dei nostri protagonisti e sappiate che ho mille idee nella mente che devo ancora sviluppare al meglio ma che mi accompagnano quotidianamente quindi spero vivamente di riuscirci, voi intanto se avete qualche osservazione fatemi sapere!
:)
Come al solito vi ringrazio di essere arrivati fin qui 

Per cui vi mando un abbraccio forte,
C.

 
   
 
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