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Autore: Makil_    10/04/2017    13 recensioni
In un territorio ostile in cui la terra è colma di intrighi e trame nella stessa quantità con cui lo è dell'erba secca, il giovane ser Bartimore di Fondocupo, vincolato da una promessa fatta al suo miglior confidente, vedrà finalmente il modo per far di sé stesso un cavaliere onorevole. Un torneo, un'opportunità di rivalsa, una guerra ai confini che grava su tutte le regioni di Pantagos. Quale altro momento migliore per mettersi in gioco?
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

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Le vecchie e logore vie di Roshby si insinuavano lungo tutti i percorsi della città, circondando le case e oltrepassando decaduti pontili traballanti. La cittadina, all’interno, era anche più malandata di come appariva circondata dalle sue spesse mura. Le strade erano piccole e strette, e le case che le sormontavano non avevano nulla a che vedere con quelle di Sette Scuri. La maggior parte degli edifici era costruita in pietra chiara, che riluceva di un’essenza propria sotto ai flebili raggi lunari.
Il cielo sopra di lui si era fatto scuro, dello stesso colore del livido che portava sul braccio. Tra non meno di qualche ora, Bart avrebbe dovuto sostenere un confronto a quattr’occhi con patres Steffon, sotto al pioppo in cui gli aveva dato appuntamento. “Se mai riuscirò a fare in tempo”. Di certo non poteva affermarlo con chiarezza, dal momento che, prima di quello, Bart aveva bisogno di sostenere un altro colloquio, forse anche maggiormente importante.
Avvistò la torre ottagonale di Roshby a poca distanza da un edificio solido, rigido e disarmonico, costruito in pietra robusta e scurissima, che risaltava rispetto a tutti gli altri che lo circondavano ai lati e alle spalle.
In breve, Bart fu dentro la torre del castellano di Roshby, riscaldata a dovere da tre fuochi che ardevano su tre diversi camini costruiti in tre diverse pareti. L’aria nella torre era satura dell’odore della cenere, addolcita dalla vaga presenza di essenza di garofano. C’erano un’infinità di librerie ricolme di scartoffie ed altrettante scrivanie poste a cerchio su cui erano accatastate pergamene malandate e antichi tomi poderosi. Nel pavimento di legno erano addossati tre enormi tappeti sgargianti, probabilmente di curata provenienza estera. Quel salone era molto silenzioso, ammantato di una strana pacatezza e di una tranquillità che non poteva essere accostata alla notte. Accanto ad una delle scrivanie, una donna anziana e gobba stava spolverando il bordo del tavolo. Bart si avvicinò a lei.                                         
«Scusi per il disturbo, stavo cercando Wolbert Dorran, il castellano, mi hanno detto di poterlo trovare qui.»                              
«Qui?» domandò la vecchietta ingobbita. «Quell’uomo non scende nemmeno per pisciare. Al massimo lo trovi al piano di sopra, se ti interessa». La donna gli indicò una rampa di scale a chiocciola che si allungavano in alto, verso il tetto della torre. Le sue dita erano nodose e rigide, distorte dalla gotta.                         
«Grazie tante». Bart proseguì verso la scala, come gli era stato suggerito, e nel salirla rivolse un’ultima occhiata all’anziana serva di nuovo dedita alle pulizie. Fu certo di sentirle dire qualcosa di sconvolgente su Wolbert Dorran. Qualcosa che riguardava lui, lei, le sue anche e l’inferno.                                                                                                          
Al terminare delle scale si estendeva un androne pezzato di stoffe verdi smeraldo. Bart bussò con insistenza ad uno dei battenti dell’enorme portone di legno scuro che si ritrovò davanti: dall’interno nessuno rispose. Per questo Bart fu costretto a bussare un’altra volta, con più forza della precedente, tanto che la porta, a quanto pare socchiusa, si aprì lentamente cigolando nello spostarsi. Bart lanciò un’occhiata dietro di sé, poi a destra e a sinistra, ed infine infilò dapprima un piede e poi tutto il corpo dentro lo studio di Wolbert Dorran. Fu immediatamente coperto dal porpora che dipingeva completamente le otto pareti di quella sala, molto più accogliente e piccola dell’ingresso di sotto. Lì le librerie erano molte di più, ed erano anche molto più antiche, impolverate e logore. La stanza era completamente pavimentata con legno scuro e lucido, che si interrompeva ad un tratto lasciando spazio alle fresca e candida murata bianca. Le pareti di spessa pietra grigia erano ricoperte da arazzi di ogni colore e tipologia, disposti in modo da mascherare le varie crepe incise dal tempo lungo tutto il torrione, simbolo della sua marcata ed ostile decadenza. Di Wolbert Dorran non c’era neppure l’ombra, per quanto le varie scartoffie abbandonate sulla scrivania, la boccetta d’inchiostro versato sulla pergamena asciutta e vuota, ed il fuoco scoppiettante dentro a un delicatissimo caminetto, alludevano alla sua presenza.
Bart perlustrò la stanza in cerca del castellano che tanto sperava di trovare. “Non ho voglia di ritornare un altro giorno. Lo attenderò qui finché non sarà tornato. E pensare che non scendeva dal suo studio neppure per andare in bagno!
Lungo la parete principale del solarium di Wolbert Dorran, Bart scorse la variopinta incisione quadrangolare che raffigurava le otto figure stilizzate degli Otto Arcani di Therstone. Bartimore, sin da piccolo, era stato istruito a dovere da Amisa Witeolm e Dalton Kordrum sulla storia che aveva solcato il mondo nell’antichità e dopo di questa. Il suo signore aveva molto a cuore l’istruzione di Bart, in quanto riteneva fosse più importante del saper maneggiare qualsiasi tipo di spada. «Imparai da piccolo a leggere e scrivere ancor prima di imparare a mangiare.» gli aveva confidato un giorno Dalton. «Se sai fare queste due cose, allora il resto è più semplice che starnutire. Un uomo povero e ignorante non può sperare che sopravvivere nel suo campo, ma un uomo povero e istruito può aspirare alla vetta di qualsiasi montagna». E, tra le tante cose che Bart aveva imparato negli anni, c’era sicuramente la storia di Therstone, dalla sua mistica fondazione che si dissipava negli annali più antichi dei più antichi tomi dei più antichi amanuensi, fino agli anni più recenti del mondo. Gli Otto Arcani erano stati i primi otto signori di Therstone, la grande roccia che si alzava sul mare del sud come un’onda sulle sue acque. «Comprendi il passato e comprenderai il futuro.»  diceva sempre Amisa.                                                                                                                      
“Bardagar, Hergal, Edwyge, Megara, Gambun, Ollerya, Gryffard e Roderwyk.” pensò scorrendo con gli occhi sulle otto figure disposte in linea di successione sulla parete. “Uno più anziano dell’altro, uno più potente e scaltro dell’altro.” I suoi pensieri si dispersero nell’aria quando il silenzio venne smorzato da una flebile e quasi impercettibile risatina proveniente da poco vicino. Bart camminò attorno alla stanza con l’unico scopo di avvertire qualcos’altro. Qualcuno lì vicino stava parlando, e la sua voce risultava attutita e compressa dallo spessore della parete di pietra. Il suono delle parole era ruvido e grave, mantenuto il più ovattato possibile. Bart si avvicinò ad una porta che aveva notato solo adesso, leggermente aperta verso l’interno, dannandosi di averlo fatto pochi attimi dopo.
«…cavalli indomabili» disse una vociona indistinta e sconosciuta. «…ovvio che sì.»                                                                                                                
Bart si avvicinò lentamente allo spazio tra la porta e la parete, tanto vicino da poter scorgere tre figure in movimento che parlottavano a bassa voce gesticolando all’impazzata. Uno di loro era di spalle, vestito con una lunga veste color cielo dalle maniche a losanga, sormontata in alto da una chioma bionda che gli ricadeva sulle spalle, in parte coperte da una spessa e sporca gorgiera. Gli altri due, invece, erano di fronte a Bart. L’uomo sulla sinistra aveva il collo taurino, le spalle massicce e larghe. Il suo volto era robusto e scavato, delineato da una rossa barba cortissima e da capelli altrettanto corti e rossi. Vestiva una toga color porpora, stretta ai fianchi da una spessa cintola di cuoio dietro la quale svettava un lungo mantello rosso sangue dai lineamenti neri. Alla destra dell’uomo in rosso sedeva, con fare baldanzoso e menefreghista, un ragazzino vispo segnato dal sole. La sua pelle era dello stesso colore dell’argilla, secca e quasi biancastra sulle guance e sotto alle orecchie. Sul capo faceva capolinea una zazzera di capelli castani che gli cadeva a caschetto sulla fronte. Il ragazzo era davvero molto esile, pur se vestito con bracciali di acciaio e pezzi di cuoio disgiunto sul petto.  
«Non è stato caso, Wolbert.» mormorò il ragazzino esile con un accento che non apparteneva ad alcun regno di Pantagos. «E non sarà caso neppure quando cadrà da cavallo. Ragazzo non mente, ragazzo non mente mai.»  
«Non vorrete farmi credere davvero che non lo avevate neppure previsto.»                                                                      
«Ci fosse qualcosa che non abbiamo previsto, signorotto.» disse la vociona cupa dell’uomo in rosso.                                  
«Proviamo a puntare scommessa su torneo. Quanto per testa di Melkor?» domandò il ragazzo esile. Gli altri due scattarono a ridere in modo fragoroso.                                                                                                                            
«Quanto è ovvio che tutti sono pronti a colpire. Vino rosso come il sangue; è questo che avranno in premio i vincitori.»          
Un’altra risata, questa volta molto più forte.  
«Roger marcisce dentro una prigione, e loro vorrebbero anche di più». Wolbert Dorran si lasciò sfuggire un sogghigno. «Magari avranno anche di più… più di quel che si aspettano.»                                                                                                                              
«Certo, magari avranno i teschi sgusciati dei loro compagni.» derise uno.                                                                                             
Poi la voci si attutirono un’altra volta, dal momento che i signori avevano iniziato a sussurrare sempre più debolmente.
«…e allora scapperemo sul mare. Agabbo ha flotte che vanno da qui fino a Caantos, navi che sono robuste e spesse come pareti di una torre. Vascelli che potrebbero ricoprire il Mare del Vespro se messi l’uno dietro l’altro. E galee che potremmo utilizzare con facilità, qualora servissero.»                                                                                          
«E Agabbo giace in una prigione, forse te ne sei dimenticato Lemmon» gli ricordò Wolbert con una voce strisciante. 
«No, signorotto. Forse sei tu ad esserti dimenticato di come sono andate le cose. Hobbamar lo ha liberato una settimana fa: il Ciclone Nero non ha avuto problemi nell’evadere. Non puoi sapere, se te ne stai sempre qui dentro. Il mondo cambia, gli uomini vivono. E tu stai iniziando a puzzare di letame.»                                                                                
«Quando inizierò a puzzare seriamente la mia serva me lo farà notare, e sarò sicuro di potermi pulire. Tu, invece, Lemmon Cappa Rossa, come ti pulirai quando saprai di puzzare di intrigo?»  
«Vorrei risponderti come si deve, signorotto, ma credo che sarei troppo volgare… e non mi sembra affatto il caso; insomma, siamo o non siamo nobiluomini?»                                                                            
Ancora una volta le loro voci divennero flebili, quasi impercettibili all’orecchio di Bart. Ci volle poco meno di un minuto perché la voce rauca del castellano di Roshby prevalesse di nuovo sulle altre.                                                       
«…ci sono sette ingressi al campo. Le lizze sono state irrobustite da Alabryse, che ci ha messo dentro legno di acero.»   
«Non basterà.» ribatté la voce del ragazzino smilzo. «Cavalli possono spezzare legno. Una volta cavallo spezzò cranio di mio fratello con sue zampe. Cavalli caricano e abbattono ogni cosa, specie dentro tornei.»                 
«I cavalli che non sono ammaestrati a fare altro.» sottolineò Wolbert Dorran facendosi più serio. «Il cavallo che sarà dato a Melkor è il destriero possente di ser Wulbrese l’Accigliato. Un cavallo che è furente, ma che è anche una femmina. E, almeno secondo i calcoli dell’incantatore di Kriffenes, è in calore.»                                                         
Lemmon Cappa Rossa si esibì in un lunga risata, trattenendo i fianchi con le mani. Il suono del suo divertimento passò severo all’interno delle mura delle torre, risuonando più alto di ogni altro, deciso ad incutere più timore del necessario. «E cosa dovrebbe interessare a me delle condizioni del cavallo dell’Accigliato? Signorotto, se anche una delle cose che dici non dovesse essere vera, tu saresti in grossi, grossissimi guai.»
Wolbert Dorran si ritrasse di qualche passo e spinse la porta indietro col piede nel farlo. Bart ebbe l’impressione di scontrarsi con l’infisso, ma i suoi riflessi gli diedero la forza di scostarsi prima di farsi notare.
«Guai? Non posso assicurarvi che le cose andranno come avete previsto – di certo non sono un veggente -  ma posso dirvi con certezza che i presupposti ci sono. E non mi avete ancora dato la parte che mi spetta, per cui non avrei motivo di farvi fallire e perdere il riscatto insieme alla testa.»
«Potresti farlo, non c’è onore in te.»
«Potrei dire lo stesso di tutti voi, allora. L’onore vale molto meno del letame, ora come ora. Vorresti forse negare ciò, Cappa Rossa?»
Bart si soffermò a lungo a riflettere, intento ad osservare il tutto con gli occhi dispersi nel flusso della sua memoria, le fiamme crepitanti nel caminetto. Era capitato, per pura indecenza della sorte, in un luogo sbagliato e in un momento altrettanto errato. Quegli uomini erano riuniti in complotti oscuri, perfino la mente di uno sciocco, di un uomo leso dall’età o reso stupido dagli eventi, avrebbe saputo notarlo con estrema chiarezza. Gli esperti, probabilmente, non avevano idea di ciò che si stesse mormorando nella torre del castellano di Roshby, e Bart, in un certo senso, seppe di non volerlo sapere, per quanto già avesse sentito troppo. Desiderò per poco di non essere lì, e desiderò che con lui ci fosse patres Steffon o Ortys Wysler: aveva bisogno che qualcun altro sentisse ciò che stava sentendo lui, che qualcuno gli negasse ciò che Bart aveva inteso. Ma, dal momento che non c’era nessuno ad assolvere quel ruolo, Bart non poté che continuare ad ascoltare. “Sempre meglio che farsi vedere”. Se fosse rimasto lì, avrebbe saputo qualcosa in più di tutto ciò che stavano tramando su Melkor Winemors e sui loro oscuri desideri. Se fosse scappato, non avrebbe mai saputo nulla di tutto quello che si stava silenziosamente confabulando ai danni dei più buoni. Quale azione migliore per confermare al mondo che lui, ser Bartimore di Fondocupo, non aveva paura dei ribelli e non temeva la guerra? Dalton Kordrum ne sarebbe stato fiero, ovunque egli si trovasse.
Se fosse rimasto a sentire, avrebbe potuto riferire tutto a patres Steffon, l’uomo che a lungo gli aveva detto di sottostare a un solo intento: portare la pace a Pantagos col torneo Roshby. E lui sicuramente gli avrebbe saputo dire cosa fare molto presto, dal momento che gli doveva ancora un’udienza privata. Inoltre, far passare quelle parole per ciò che non erano, ovvero disquisizioni utili solo ad orecchie esperte, non aveva molto senso. Lasciare che da quelle trame nascessero disgrazie sarebbe stato come venir meno ad un giuramento, rifugiandosi nell’omertà di chi sa ma non vuol dire nulla a chi può far qualcosa.
«…cavallo… signorotto. Non c’interessano i tuoi problemi, men che meno i tuoi pareri. Vogliamo solo sapere cosa accadrà per filo e per segno, poi potrai tornare al tuo lavoro, supponendo che tu ne abbia uno.» 
«Il cavallo è in calore, ho detto. E Melkor dovrà cavalcarlo al posto del suo durante l’ultimo scontro con Spada di Sabbia. Melkor è il cavaliere più potente tra gli iscritti: se la congiura colpirà lui prima degli altri, avremo un quarto di problemi in meno da affrontare.»
«E a che serve dire che cavallo è in calore?» chiese il ragazzino straniero corrugando la fronte.
«Serve a sapere che quando il destriero di Lower si abbatterà su quello di Melkor facendogli perdere il controllo delle redini, non sarà stato il caso, ma un evento programmato. Allora si procederà come pattuito e voi farete il resto del lavoro sporco. Vi ho detto che ci sono sette ingressi al campo…»
«Ce ne basteranno due, suppongo.»
I due uomini a colloquio con il castellano si scambiarono un’occhiata di concordia, quasi come se avessero inteso qualcosa che Wolbert Dorran non poteva capire.
«Signorotto, mi preme farti una domanda. Come possiamo assicurarci che Melkor Winemors cavalcherà quel destriero? Non dirmi che non ne ha uno suo!»
«Non te lo dico, allora. Ma tu conosci già la risposta.» disse Wolbert Dorran facendo ondeggiare la lunga manica azzurra della sua veste. «E saprai pure che gli animali possono morire come muoiono gli uomini. Un incendio del tutto funesto e casuale spezzerà via perfino le ossa del suo cavallo una sera prima del torneo, e noi ci prenderemo la briga di far ricadere la colpa su qualcuno che non sia dei nostri.»                                                                         
I due non risposero, o forse Bart non riuscì a sentire la loro risposta. Tenendo le mani ferme sul pomello del battente di legno cercò di avvicinare sempre di più l’orecchio, facendo ben attenzione a non far spostare di un solo passo la porta.
«…vederlo.»
«…sanno cosa significa.»
Lemmon si strinse la cappa al petto per qualche attimo, prima di staccare la rossa spilla di rubini a forma di cerbiatto, e farla ricadere su un tavolo. Liberatosi del peso della sua cappa rossa, Lemmon iniziò a frugare nelle tasche della sua mantella. Infine, si voltò verso gli altri due esibendo qualcosa che Bart non riuscì a scorgere.
«… ha tenuto l’assedio a lungo, anni fa». Ancora una volta le voci si abbassarono repentinamente. Bart era quasi stufo di quell’alternanza di toni. Cercò di unire le varie parole udite, ma senza alcun risultato. La voce pomposa di Lemmon parlava del Nord, del regno di Ockswert, e di certe minacce che neppure loro conoscevano.
«Difatti non mi sembra di averlo visto.» sottolineò Wolbert Dorran.
«Perché non c’è!» esclamò il ragazzo straniero. «Lui non parteciperà. Uomo è scappato lontano dall’Accademia, dicono.»
«L’Accademia!» vociò Wolbert. «Un’altra cosa di cui dovremmo parlare, vi dico. Ci sono troppi patres in giro, sapete che non avremo scampo dopo? Dimmi Lemmon, il vostro piano includeva di consegnarci direttamente agli esperti per ricongiungerci con Roger o lasciare che ci giustiziassero spontaneamente?»
«Non essere spiritoso, signorotto. Il piano non include affatto la fastidiosa presenza degli esperti. Affari loro se vogliono mettere lo zampino; vorrà dire che dovremo tagliarne uno in più.»
«Non temiamo Accademia.» s’inserì la voce del ragazzo straniero. «Ormai non più. Una volta finito tutto, esperti potranno pure cacciarci o cercarci. Ci troveranno su mare, su navi dirette a Caantos. E lì non hanno potere. Peggio per loro se vorranno farci visita…»
«Peraltro, l’Accademia è ben occupata al momento.» illustrò Lemmon che si stava riallacciando la cappa al collo. «L’organizzazione del torneo tiene ancora gli esperti chini sulle pergamene. E Maniero del Corvo è sotto assedio da ieri mattino. Vedrai che saranno occupati a manovrare le loro truppe al nord, a schierare in battaglia i loro Elmi Scuri. E mentre un giocatore posiziona le varie pedine di gioco, l’altro può fare le proprie mosse non visto.»
«Maniero del Corvo?» domandò perplesso Wolbert Dorran. «Medgar Rayven è qui a Roshby, iscritto alle liste regali per il torneo. Lui non sa?»
«Potrebbe non saperlo» rise Lemmon. «Oppure potrebbe soltanto far finta di non aver sentito. Vedrai che prima del giorno d’inizio torneo, Medgar sarà tornato alla sua catacomba. E dovrà sperare che gli uomini di Bywatt Pellur gli abbiano lasciato gli occhi per poter piangere, allora. Polvere e rocce incrostate di sangue, ecco su cosa potrà posare il capo piangente quando avrà fatto ritorno a casa. Bywatt non è il tipo con cui poter scherzare. Credo abbia fatto del male anche alla moglie.»
«Quanti, troppi intrighi!» si lamentò Wolbert Dorran scuotendo la mano a destra e manca. «Che piano avete per il resto degli sfidanti? Ci sono uomini potenti quanto Melkor Winemors, altri che potrebbero avvicinarsi alla sua destrezza.»
«Per quanto ci riguarda, il grosso è fatto. Melkor pagherà per i soprusi avanzati contro Roger ed il suo principino, e tanto basta. Il resto degli sfidanti è un affar tuo, signorotto. Dopotutto non mi sembra che ci sia alcunché di preoccupante dalla posizione in cui ti trovi. Ho annoverato una lista dei possibili avversari degni di tale nome, e posso dirti che rimangono tra le dita di una mano. Una sola». Lemmon Cappa Rossa alzò la mano aperta verso il castellano di Roshby, con fare talmente tanto violento da sembrare che stesse per sbattergliela in pieno volto. Non appena ebbe tossito un paio di volte, parlò di nuovo: «Cinque altri uomini che potrebbero darci problemi. Herpo Greewald ha abbattuto un paio di signori alla scorsa quintana di Bastion Vermiglio, ma ora non è più abbastanza in forma. Ci sarebbe Aedon Penflow, la Serpe Verde, che ha saputo disarcionare Agador Bucolargo. Per non parlare di Adam Weckport, di cui solo gli dei sanno a che gioco vuol giocare. Oh, e ci sarebbe un’altra figura di interesse, mi informano. Non è qui da molto, credo. Si tratta di Ortys Wylser, il signore di Ardua Scogliera: la sua stazza farebbe tremare anche il migliore dei campioni, signorotto.»
«Potremmo sbarazzarcene noi.» mormorò il ragazzo esile.
«No, Dephyso.» rispose Lemmon. «L’unico a poter muover arma contro Ortys Wysler è il castellano. Wolbert Dorran, nel nome di Roger di casa Wyndwat, signore di Canto della Bufera e comandante indiscusso delle armate ribelli nella Punta, io ti comando di espellere Ortys Wysler dalla lista reale e di umiliarlo a tal punto da farlo tornare ad Ardua Scogliera dietro alla sottana della sua signora.»
Wolbert Dorran rimase in silenzio a lungo, l’indice premuto sulla fronte. «Mi serviranno delle prove per farlo, o gli esperti noteranno l’equivoco. Hanno occhi grandi così». Il castellano allargò indice e pollice per mostrare la misura di cui stava parlando.
«E i tuoi, di occhi?»
Dal pianterreno risalirono dei rumori chiassosi e rimbombanti che oscurarono nuovamente i discorsi dei tre abili uomini uniti in colloquio. Bart fu scosso da un brivido gelido lungo la schiena. Si voltò di colpo e si scansò di lato, le mani contro le pareti fredde. La porta si aprì senza neppure cigolare.
«Ragazzo!» tuonò la voce rauca del castellano, gli occhi sgranati e furenti su di lui. «Cosa ci fai qui?»
Wolbert Dorran si erse dinanzi a lui con le mani strette ai fianchi. L’uomo era piuttosto basso, vestito da capo a piedi di bianco e azzurro cielo. Sul petto scorrevano tre spille dorate dalla forma ovale, nella cui più grande era incastonata una pietra azzurra. Ai piedi calzava due stivaletti dalla punta affusolata, che richiamavano i colori scuri dei lunghi calzoni che indossava. La gorgiera sporca sotto il mento fungeva da cuscino per i suoi lunghi capelli biondi.
Bart rimase in silenzio a lungo, per poco tempo concentrato sulle possibilità di risposta. «Mio signore, mi scuso per l’intromissione. Forse avrei dovuto aspettare.»      
«Oh, sei scusato». Wolbert Dorran agitò la mano callosa nella sua direzione. «Avresti dovuto aspettare, credo proprio di sì. Ma una volta che sei qui, oramai, penso pure che non occorra più giustificarsi. Cosa ti porta da me, giovane?»           
Bart guardò il castellano per molto tempo. I suoi lineamenti erano induriti dall’età, solcati da rughe a zampe di gallina sotto agli occhi. I lunghi baffi ingialliti dalla birra non riuscivano a stare fermi sopra le labbra, muovendosi ogni volta che la sua bocca si apriva e si chiudeva. Avrebbe parlato, su questo non c’erano dubbi, ma lo avrebbe fatto con una sfrontataggine tale da poter lasciare intendere che non avesse udito niente di tutto ciò che fino a quel momento si era confabulato?
«Ho bisogno di qualcuno garantisca per la mia iscrizione nelle liste regali, dal momento che non mi è stato permesso fuori da qui». Bart afferrò i pezzi di carta laceri della missiva di Dalton Kordrum, facendo attenzione a prendere con cura quelli che contenevano il sigillo di ceralacca. «Questo è quel che rimane della lettera del trapassato Dalton Kordrum, signore di Sette Scuri, lealista delle terre di Pantagos. Lui aveva delegato me in sua vece. E lui mi aveva detto di presentare il tutto a voi, mio signore. Io sono ser Bartimore di Fondocupo, protetto di Dalton Kordrum e Amisa Witeolm. E la mia spada è al loro servizio.»
«Sette Scuri?» domandò incerto il castellano. «Si trova nel Sud, se non erro. Non ho mai conosciuto quei luoghi, per quanto mia moglie provenisse proprio da Macigno Salato. Dicono che il vento non smetta mai di soffiare laggiù, e che il mare sia sempre in combutta con le rocce delle spiagge. È vero?»
«Sissisgnore.» confermò Bart, secco.
«Ebbene» mormorò Wolbert riservandogli un sorriso mellifluo. «Fammi dare un’occhiata.»
Bart posò tutti i pezzettini di carta sulla scrivania del castellano, assicurandosi di non disperderli sull’inchiostro caduto dalla boccetta. Mentre lo faceva, il castellano gli spostò un paio di tomi impolverati per consentirgli di adagiare la carta senza particolari problemi.
«Non si direbbe che sia in un buono stato, ragazzo.» notò l’uomo. «Ma a me non importa. Se la ceralacca mi permetterà di considerarla valida, allora potrai iscriverti tranquillamente. D’altronde il torneo serve a questo. Come ama dire un mio superiore: tendiamo la mano a chi non ha più mani e in un modo o nell’altro si aggrapperà all’arto. Se neghiamo la possibilità di partecipare a chicchessia, e se mettiamo da parte la fiducia, allora tanto vale dare alle fiamme le lizze.»
Cosa che voi avreste fatto senza scrupoli.” pensò Bart, ma si assicurò bene di tenerlo solo per sé. Wolbert Dorran si chinò sul pezzo di missiva che riportava il grosso sigillo dei Kordrum ancora impresso sulla pelle rossa della carta sfilacciata. Con l’altra mano, senza neppure richiederne il consenso, afferrò i rimanenti pezzi di carta e li mandò in fiamme gettandoli nel fuoco brulicante. «Non ti serviranno più quelli là. Occorre che sia presente il solo sigillo, per quanto mi avrebbe fatto piacere leggere un paio di parole di un signore trapassato. Farebbe uno strano effetto, non lo credi anche tu?»
Bart cercò di non badare alle parole del castellano. “Prima sarò fuori da qui, prima potrò tornare a respirare”. «Allora, cosa si può fare?»
Wolbert Dorran si leccò l’indice robusto della mano e lo fece scorrere sulla carta. Ripeté l’operazione per due volte prima di sollevare lo sguardo e, insieme a questo, anche il sigillo, che portò in bocca e strinse tra i denti. Non appena ebbe finito, gettò anche quello dentro al camino, assicurandosi che cadesse sotto agli alari e lasciando che la ceralacca lacrimasse sulle braci.
«Non ho dubbi sulla tua onestà, ragazzo. Quella è ceralacca vera, praticamente impossibile da trovare in mano ad un contadino o un brigante. E poi mi sembri un tipo a posto.»
«Vi ringrazio, mio signore.»
«Non potrò darti per certo un posto tra i primi combattenti, ma posso assicurarti che parteciperai al torneo. Vedi di stare tra la folla quando gli araldi passeranno ad elencare i nomi degli sfidanti nella lista reale.»
Bart annuì. «Quando inizieranno gli scontri?»
«Presto, molto presto. C’è bisogno che inizino il più presto possibile.»
Wolbert raggirò la scrivania e andò a sedersi sulla sua poltrona, riprendendo a scrivere ciò che aveva lasciato incompleto molto prima. Dopo d’allora fu come se Bartimore fosse del tutto assente, scomparso di colpo dallo studio del castellano.
«Allora io vado» disse Bart esibendosi in un lieve inchino di formalità e considerandosi congedato. “E spero di non vedervi più”.  
Ma prima che fosse fuori dalla porta, Wolbert rialzò gli occhi verso di lui. «Sai, credo di avere una mezza idea del motivo per cui Twycott non ti abbia permesso di iscriverti alle liste reali». L’uomo tossì portando la mano alla bocca. «Solitamente un cavaliere che si rispetti, uno di quelli che vogliono far parte delle liste delle alte signorie, porta sempre un qualcosa che faccia sapere al mondo chi è e perché vuole a tutti i costi ciò che chiede. Che sia una spada, uno scudo o un pezzo di armatura non importa, ma è importante avere qualcosa che faccia sapere agli altri che tu sei un cavaliere, ragazzo. Se io non te lo avessi chiesto, avrei potuto scambiarti per un garzone, un mugnaio o, peggio ancora, una spia. E di questi tempi è un rischio troppo alto. Dovresti imparare a considerarlo.»
“Una spia, eh?” pensò Bart. “Quantomeno lo faccio per una buona causa.” «È probabile.» rispose.
«Sicuro, oserei dire». Wolbert, con aria pensosa, attorcigliò i mustacchi biondi tra l’indice e il pollice. «La penna è l’amica degli esperti. La corona è il sigillo dei signori. E così come i macellai hanno la mannaia, un cavaliere deve avere…»
«… un cavallo!» affermò velocemente Bart, quasi certo della risposta: questo gli aveva insegnato Dalton Kordrum.
«Non proprio, ragazzo. Piuttosto che di un cavallo, un cavaliere ha sempre bisogno della sua armatura. Se non ne hai ancora una, ti consiglio di procurartela subito. Dovresti fare un salto da Garmold, è il migliore in circolazione nel campo, per adesso, e forse anche l’unico, stando ai resoconti dei miei ultimi visitatori. Sono sicuro che saprà darti una mano, presto o tardi, anche se ora sarà davvero molto impegnato, credo. Troppe persone hanno bisogno di un elmo e tante altre di una spada. E credo che tutti farebbero bene a richiedere un’armatura. Ora sarebbe più utile che mai.»

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Note d'autore
Dire che questa settimana sono stato molto impegnato è dire poco: pertanto, mi scuso per aver risposto con immenso ritardo alle vostre recensioni! Grazie a tutti i miei lettori/recensori, a tutti coloro che perdono qualche attimo a sottolinearmi sviste e appunti per la mia storia, a quelli che mi aiutano con la lettura silenziosa e a quelli che chiedono informazioni sul mondo che mi sono preso la briga di creare; mi piace molto illustrare ciò che giace alle spalle di questa breve raccolta di novelle. 
Passando al capitolo odierno; un bel colpo, eh? In molti - sono sicuro - avevano già in mente una svolta del genere, dopotutto come non aspettarselo? E' chiaro che nemici ed amici non possono convivere insieme... nonostante Bartimore ed Esmerelle abbiano fatto di tutto per accettarsi: qui il conflitto va ben oltre quello tra due semplici ragazzini. Dunque; cosa pensate del comportamento di Bartimore? Ha fatto bene a restare ad origliare il tutto? E cosa mi dite della combriccola di disgraziati - Wolbert Dorran, Lemmon Cappa Rossa e Dephyso Maraphen? 
Spero di aver gestito bene il climax ascendente di questo capitolo; vi do appuntamento a lunedì prossimo [17 del mese corrente]. 
Un buona serata :))
Makil_

 
   
 
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