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Autore: Adeia Di Elferas    12/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Guido Guerra non si stupì più di tanto nel vedere, ritto in mezzo alla piazza centrale della città in sua attesa, Pandolfo, che in molti a Rimini chiamavano Pandolfaccio, forse perché figlio illegittimo, nato da Elisabetta Aldovrandini, una delle tante amanti di Roberto Malatesta.

Il signore di Cesena fece un cenno agli uomini che lo seguivano affinché lo lasciassero proseguire da solo.

Pandolfo aveva poco più di vent'anni, era allampanato, con scuri capelli che scendevano dritti come fili fino al collo e dai quali, davanti, spuntava solo il naso lungo e spiovente che rendeva il suo profilo inconfondibile.

Nel rivederlo dopo tanto tempo, Guido sentì di nuovo ribollire la rabbia per il passato e si ricordò all'improvviso di tutti i motivi che li avevano portati a scontrarsi quando erano ancora solo dei ragazzini imberbi.

“Signor Conte!” esclamò il Pandolfaccio, andando incontro al suo ospite a braccia aperte, seguito da un paio di guardie armate.

Guerra smontò da cavallo e accettò l'abbraccio del signore di Rimini, benché gli paresse un gesto eccessivo, visto come si erano lasciati l'ultima volta. Tuttavia, Guido sapeva di aver difronte a sé la sua ultima speranza, quindi non fece lo schizzinoso e si impose di non smontare l'apparente buon umore dell'altro.

“Venite alla rocca – disse il Malatesta, prendendo sottobraccio l'ospite e consegnando le redini del suo cavallo a una delle guardie – mia madre ha fatto preparare un pasto da re e credo che sarà un ottimo modo per tornare amici. A pancia piena, potremo parlare.”

Guido Guerra fece del suo meglio per sorridere, sforzandosi di dimenticare all'istante tutte le devianze mentali e le brutture di cui sapeva Pandolfo capace. Se voleva riuscire a mantenere la calma, evitando altri incidenti, doveva fingere che l'uomo che lo stava scortando verso la rocca altri non era se non un simpatico giovane che aveva deciso di fare con lui fronte comune contro la spregevole Tigre di Forlì.

Quando arrivarono alle porte della rocca, il Malatesta disse, in tono confidenziale: “Congedate i vostri soldati...” e indicò con un cenno del capo il manipolo di armigeri che avevano seguito a breve distanza il signore di Cesena: “Dite loro di passare una notte piacevole in città. Hanno bisogno di svagarsi un po', se poi vogliamo che riescano ad abbattere una Leonessa.”

Guerra titubò un istante, ma poi il sorriso aperto e luccicante del Pandolfaccio lo fece acconsentire e così congedò i suoi con fare sbrigativo, sottolineando: “Domani mattina all'alba, però, vi voglio tutti qui.”

Appena i soldati cesenati furono scomparsi di nuovo per le vie della città, Malatesta fece segno al suo ospite di entrare pure nella rocca: “Non avrei mai creduto di potervi avere qui, e come alleato, finalmente.” disse il signore di Rimini: “Insieme possiamo fare grandi cose, se accantoniamo per qualche tempo le nostre divergenze d'opinioni.”

Il Conte Guerra sollevò un po' il labbro superiore, non riuscendo più a sorridere, ma solo a mostrare un mezzo ghigno che, comunque, Pandolfo finse di interpretare come segno di buona volontà.

Passarono insieme il portone della rocca, l'uno sottobraccio all'altro, ma, appena si trovarono al riparo degli spessi muri di pietra, il Malatesta lasciò di scatto il Conte e si discostò repentinamente da lui.

Guido non fece in tempo a capire quello che stava accadendo, che alcuni uomini, almeno mezza dozzina, lo bloccarono, afferrandolo saldamente per le braccia, per le gambe e per i capelli.

Mentre il signore di Cesena si divincolava nella loro stretta, le sue urla di panico vennero zittite dalla mano di Pandolfo, premuta con forza sulla sua bocca.

Il Malatesta fece un breve cenno e uno degli sgherri che stava alle spalle di Guido Guerra alzò un pugnale e gli tagliò la gola, tanto a fondo che avrebbe finito per decapitarlo del tutto.

Mentre Guido annegava nel suo stesso sangue e veniva scosso dai tremiti dell'agonia, il Pandolfaccio gli assestò un pugno nello stomaco e sibilò: “Finalmente il tuo debito è pagato.”

 

Paolo Orsini guardava i senesi senza riuscire a ribattere. Voleva credere che quello fosse solo un brutto scherzo.

Dopo aver passato qualche giorno a spostarsi tra Montepulciano, Chianciano, Torrita di Siena e Sinalunga, senza risultati degni di nota, alla fine si era deciso a rivolgersi a Siena e Siena lo ripagava con quella proposta ridicola.

“Questo è già molto.” disse il portavoce del governo senese, rimettendo a posto alcuni fogli sulla scrivania, come a far intendere a Paolo che era giunto il momento di levare il disturbo: “Sapete bene che i tempi son quello che sono e che il nostro oro non è infinito. La vostra determinazione è ammirevole, ma non vediamo in che modo il ritorno forzoso di Piero Medici a Firenze possa essere per noi un privilegio.”

Paolo aprì la bocca, cercando le parole per convincere quel branco di ingrati a cambiare idea, ma non sapeva nemmeno lui da che parte prendere. Perorare una causa tanto esile avrebbe messo in croce chiunque.

“Come già detto – ribadì il senese, questa volta indicando chiaramente la porta con la mano, in modo che non vi fosse dubbio sul fatto che la seduta era tolta – potete prendere i due vecchi pezzi d'artiglieria che troverete nel salone delle armi e una manciata di archibugi residuati a Montepulciano. Nulla di più.”

L'Orsini, ferito nell'orgoglio, si diede uno strattone al cinturone, fingendo di volerlo raddrizzare e batté un tacco in terra, lasciando la sala senza più aggiungere nemmeno mezza parola.

 

Il clima reggeva molto bene l'avanzare del novembre e dal cielo, benché le nuvole grigie continuassero ad addensarsi coprendo il sole, non cadeva né una goccia di pioggia, né un fiocco di neve.

Caterina stava guardando in silenzio sua figlia Bianca, che leggeva a voce alta a una storia a Livio e Sforzino.

Non sapeva nemmeno lei dire cosa l'avesse portata nella stanza dei giochi dei figli, visto che ultimamente la rifuggiva come la peste. Forse era l'attesa che, innervosendola, l'aveva resa desiderosa di una parvenza di normalità, benché fosse ormai lampante che la normalità non avrebbe mai più albergato tra le mura di Ravaldino.

Tanto per cominciare, Cesare era al Duomo, probabilmente in preghiera o immerso nei suoi inutili studi teologici, come tutti i giorni.

Galeazzo, invece, si era incaponito nel voler imparare a maneggiare come si deve una spada a due mani, malgrado fosse ancora troppo basso e gracile per farcela, e quindi dal mattino presto si stava spezzando la schiena nel cortile assieme al maestro d'armi.

Bernardino era stato affidato da Caterina a uno dei precettori che avevano istruito anche gli altri suoi figli e, nonostante fosse ancora piccolo, aveva cominciato a percorrere una strada che, nella migliore delle ipotesi, lo avrebbe reso prima un bravo scudiero e poi un buon cavaliere.

Bianca aveva cercato di riparare con gli altri due fratelli, convincendo il convalescente Livio e il paffuto Sforzino a mettersi sul tappeto davanti a lei e ad ascoltarla mente raccontava loro vicende vissute da personaggi immaginari e fantasiosi.

Caterina stava in poltrona, dirimpetto alla figlia, e la osservava con attenzione senza perdersi nemmeno una sfumatura dei suoi gesti, delle sue espressione o del tono della sua voce.

Quel giorno non riusciva a smettere di speculare su qualsiasi cosa. Per la Contessa quel genere di circolo vizioso era tra i peggiori. Quasi avrebbe voluto che sua madre fosse lì, almeno avrebbe trovato il modo di farla scattare di nuovo e così, nella furia dello scontro, Caterina avrebbe per un momento smesso di rimuginare.

E invece Lucrezia aveva ben pensato di uscire nel cortile e seguire gli allenamenti di Galeazzo in cortile, e aveva deciso in tal senso solo dopo aver visto sua figlia rientrare nella rocca, come se la volesse evitare a tutti i costi.

Mentre osservava le iridi brillanti di Bianca e la linea delicata delle sue labbra, la Tigre si trovò a ripensare ad Astorre Manfredi e a Faenza. Per il momento aveva accantonato la questione, ma era il caso di ricominciare a concentrarsi anche su quello. Più il tempo passava, più sarebbe stato complicato riprendere il discorso interrottosi tanto bruscamente.

Ricordando il matrimonio tra Bianca e Astorre e il modo in cui le era stato quasi imposto con il ricatto politico, la Tigre non riuscì a chiudere la mente all'immagine vivida di Ottaviano che, mandato a Faenza, non era riuscito a fare altro che complicare un affare che pareva semplice.

Ottaviano in quel momento era ancora chiuso nella stanza in cui Caterino lo aveva spedito il giorno del suo arresto. Di lui non aveva voluto sapere più nulla. L'unica cosa che, suo malgrado, le era stata riferita era che un giorno sì e uno no dei piatti con un po' di cibo e una caraffa d'acqua entravano nella camera e ne usciva il vaso da notte da svuotare.

C'era una certa ironia drammatica, secondo la Tigre, nel fatto che Girolamo fosse stato per qualche tempo un recluso di sua spontanea volontà, mentre Ottaviano fosse stato costretto a forza a vivere come aveva vissuto suo padre, tra quattro mura, con abiti lerci e con pasti insufficienti.

Bianca doveva essere intenta a leggere una parte particolarmente avvincente del libro che teneva sulle ginocchia, perché i suoi fratelli minori la fissavano con occhi sbarrati e la meraviglia dipinta in volto, ma quando la porta si aprì e ne entrò un soldato, Caterina scattò in piedi, senza badare a interrompere la narrazione: “Ci sono notizie?”

L'uomo deglutì ed entrò, sporcando con la malta degli stivali i tappeti pregiati della saletta. Alle sue spalle c'erano il castellano Feo e Luffo Numai che, evidentemente, lo avevano portato fino a lì in modo che parlasse direttamente alla loro signora.

“La morte di Gasparo Biondo è stata finalmente vendicata. Guido Guerra è morto. Pandolfo Malatesta l'ha ucciso, come ci aveva promesso.” disse la staffetta, senza nascondere una certa soddisfazione per essere stato il delatore di una simile buona nuova.

Caterina chiuse gli occhi, mentre un mezzo sorriso – stentato e monco, come tutti quelli che aveva provato a fare dopo la morte di Giacomo – affiorava sulle sue labbra. Era tanto il sollievo nel sentire quelle parole, che nemmeno si accorse che alle sue spalle Bianca si era alzata dalla poltrona, come Livio e Sforzino dal tappeto per farsi più vicini a lei. Neppure notò subito che oltre la porta era comparsa anche sua madre Lucrezia.

“Numai.” chiamò la Contessa, puntando il dito verso il Consigliere: “Scrivete subito a Tiberti, che continui l'avanzata.” poi si rivolse a Cesare Feo: “Voi scrivete al nostro ambasciatore in Rimini, che ringrazi da parte nostra Pandolfo per il suo gentile aiuto.”

I due uomini scattarono sull'attenti e poi si dileguarono. Caterina ringraziò il messaggero e poi disse ai figli di tornare pure alla loro storia da leggere.

“Dove stai andando?” chiese Lucrezia, vedendo l'urgenza con cui sua figlia aveva raggiunto la porta.

Era strano da spiegare, ma subito dopo l'immediato trionfo che le aveva tolto un peso dal petto, la Contessa aveva avvertito una morsa pressante alla bocca dello stomaco e il desiderio di trovarsi sola aveva preso il sopravvento su tutto il resto.

Così passò accanto alla madre e disse solo: “Esco a caccia. Non torno prima di sera. Non voglio essere disturbata. Se qualcuno mi cerca, digli di armarsi di pazienza e di aspettare.”

“Da sola? Potrebbe essere pericoloso...” tentò Lucrezia, allungando una mano.

La Tigre sbuffò, scacciando le dita protese della madre con un colpo secco: “Esco a caccia da sola da anni. Invece di preoccuparti tanto per me adesso, avresti dovuto farlo molti anni fa.”

Ferita da quell'ennesima stoccata di puro rancore, Lucrezia guardò la figlia scivolare via e non provò più a fermarla, ben sapendo per esperienza diretta che quando uno Sforza decideva di andare a caccia, nessuno sarebbe riuscito a fermarlo.

Caterina passò in fretta dalle scuderie, sellò di persona un cavallo, prese arco e frecce all'armeria e uscì dalla rocca a gran velocità, tanto che certi popolani, vedendola andar fuori da Ravaldino a quel modo, credettero che stesse per accadere qualcosa di grave.

Fendendo l'aria fredda di metà novembre, la Tigre uscì dal perimetro cittadino e si addentrò nei boschi, senza una vera meta. Lasciava al cavallo la decisione sulla direzione da prendere e badava solo a non farsi disarcionare da qualche ramo troppo basso.

Il destriero cominciò a perdere colpi, mentre il sudore imbeveva il suo manto scuro e Caterina si rese distrattamente conto di essere in sella davvero da parecchio tempo. Aveva girato grossomodo in cerchio e meno male, altrimenti si sarebbe trovata molto lontana da Forlì, magari già in territorio nemico.

Soggiogata dal ritmo ipnotico della cavalcata, la Contessa sentì improvvisamente il nodo allo stomaco stringersi ancora di più e avvertì il bisogno improvviso di vomitare.

Fece fermare il cavallo, riuscì a trovare il tempo di legarlo a una pianta e poi, prima di potersi controllare, cadde in ginocchio e rigurgitò tutto quello che aveva nello stomaco, scossa da crampi orribili all'addome.

Ricordava di aver dato di stomaco in quel modo anche in altri momenti brutti della sua vita, quando la tensione e la paura l'avevano imprigionata nel loro gorgo senza lasciarle lo spazio per respirare.

Era la stessa violenta esternazione che aveva avuto quando aveva gridato agli Orsi di uccidere pure i suoi figli, sollevando l'abito e mostrando all'intera città il suo corpo.

Gli stessi identici conati aggressivi e incotrollabili che l'avevano scossa a Mordano, quando aveva visto lo scempio fatto dai francesi.

Allontanandosi un po' dalla chiazza che aveva lasciato sull'erba secca, si appoggiò con la schiena a un grosso tronco e cercò di controllare il cuore, che frullava come un tamburo da guerra tra le coste.

Fece un paio di ampie inspirazioni, ma appena abbassava la guardia, la fame d'aria ritornava e le costringeva il petto come un pugno stretto attorno ai polmoni.

Panico. Ecco cos'era. Puro panico.

Mentre galoppava in sella al suo cavallo, la sua mente aveva rimescolato tutti i fatti della sua vita, recente e passata, e ne aveva fatto un insieme confuso e spaventoso che le si era ripresentato in tutta la sua forza, tutto assieme, come un'onda che l'aveva travolta.

Caterina vedeva davanti a sé l'enormità di tutto quello che le era stato fatto, che lei stessa aveva fatto e che quelli che la circondavano si erano fatti l'un l'altro. Rivisse in un lampo tutti i dolori e le notti di paura, tutta l'amarezza e le giornate di prigionia mentale in cui si era ritrovata costretta.

Tra un espirazione spezzata e l'altra, scoppiò a piangere in modo inconsolabile, singhiozzando tanto forte da spaventare perfino il cavallo, che cercò, dopo un'impennata, di allontanarsi il più possibile da lei, tendendo le redini fin quasi a romperle.

E tutta quell'esplosione era stata detonata dall'aver saputo che Guido Guerra era morto.

Caterina vedeva quel nome come l'ultimo della lunga lista di persone morte per mano sua, poco importava se materialmente era stato Pandolfo Malatesta e togliergli la vita. Era stata lei a volerlo.

Accasciandosi in terra e sentendo nelle narici l'odore acre e prepotente della terra e dell'erba, la Tigre continuò a piangere a lungo, fino a svuotarsi.

Mentre le lacrime le inondavano il viso e la gola le andava in fiamme, Caterina si sentì invasa ancora una volta della presenza di Girolamo Riario. Quel mostro le aveva tolto tutto. E anche da morto continuava ad avvelenarle la vita.

Le aveva strappato l'infanzia, le aveva rubato l'amore incondizionato che aveva prima nutrito per suo padre, le aveva tolto l'innocenza, rendendola capace di qualunque cosa, anche della più spregevole delle vendette, le aveva imposto violenze, umiliazioni, soprusi e gravidanze mai volute e adesso, proprio tramite suo figlio, l'aveva privata anche dell'unica gioia autentica che avesse mai conosciuto.

'Dio, fammi morire o rendimi pazza, perché così non posso resistere' avrebbe voluto dire, benché solo il vento freddo che spingeva verso i monti avrebbe potuto sentirla, ma la voce non riusciva a raggiungere le sue labbra, morendo in gola.

Afferrando un ciuffo giallo e secco d'erba con le dita strette ad artiglio, la Tigre cercò di combattere la voragine lasciata da Giacomo che sembrava essersi approfondita ancora di più, mentre incolpava Girolamo di tutti i suoi mali.

Rivide come in un sogno le notti che aveva di recente passato cercando Giacomo negli sguardi languidi e nelle carezze grezze di altri uomini ed ebbe per la prima volta il coraggio di arrendersi senza provare a combattere alla verità: non lo avrebbe mai più trovato.

Era sciocca a cercare qualcosa che era andato perso per sempre.

Le sue spalle si alzarono e si abbassarono ancora molte volte, mentre il pianto continuava, facendosi sempre più silenzioso e privato.

Sotto quell'albero, che le precludeva gli ultimi raggi del sole, Caterina stava finalmente facendo davvero i conti con sé stessa.

Quello che le era capitato, di bello e di brutto, quello che era stata capace di fare, nel bene e nel male, le persone che avevano sfiorato la sua vita, chi con gentilezza, chi con brutalità.

Stava vagliando tutto e lo stava facendo con la mente fredda e lucida di un banchiere.

Quando il processo che si stava tenendo nella sua anima terminò, la Tigre si asciugò con la manica del vestito gli occhi e le guance.

Cercò dapprima di stare seduta, poi si alzò, barcollando un po', si puntellò all'albero e alla fine se ne staccò, restando in piedi da sola. Lentamente, con il cavallo come unico testimone, raddrizzò le spalle e alzò il mento.

Sapeva fin troppo bene che la questione con se stessa non si sarebbe chiusa tanto facilmente, ma perlomeno, al momento, sentiva di poter convivere con quello che si nascondeva tra le ombre della sua mente.

Come era stata in grado di fare in altre occasioni, aveva imbrigliato il mostro e lo aveva rinchiuso in una cella buia, dove sarebbe rimasto fino alla prossima evasione.

Rimontò in sella e spronò il cavallo. L'animale, mosso da abitudine, prese la via di casa e così alla Contessa non restò altro da fare se non lasciarsi riportare placidamente alla rocca di Ravaldino.

Quando giunse a destinazione, lasciò il destriero agli stallieri e fece per ritirarsi nei suoi alloggi, senonché sua madre la intercettò a metà corridoio.

“Ero in pensiero per te, anche se la cosa probabilmente ti darà fastidio – iniziò Lucrezia, lo scialle sulle spalle e una reticella per capelli in testa – hai fatto molto tardi e hai saltato la cena. Temevo ti fosse capitato qualcosa di brutto.”

Caterina, che aveva nell'elenco di cose da fare anche quella di dire due parole proprio a sua madre, colse la palla al balzo e si fermò appena sotto a una delle torce.

Tuttavia Lucrezia non le diede il tempo di parlare, chiedendo all'istante: “Hai pianto?”

La Contessa immaginò che alla luce impietosa della fiamma i suoi occhi dovessero apparire ancora molto arrossati e pesti per lo sfogo a cui si era abbandonata mentre era nei boschi. Preferì quindi non negare, ma nemmeno soffermarsi troppo su quel dettaglio. A che sarebbe servito parlarne?

“Tu mi hai chiesto perché ho voluto iniziare questa guerra – prese la parola la Tigre, tenendo le braccia lungo i fianchi e le iridi verdi fisse in quelle cerulee della madre – e la mia risposta è che ho dovuto iniziarla.”

Lucrezia non si aspettava più quel genere di discorsi dalla figlia, men che meno a quell'ora, malgrado ciò, però, non riuscì a resistere e domandò: “Perché?”

“Perchè ho esagerato.” ammise Caterina, con un sospiro liberatorio che la fece sentire di colpo molto più leggera.

Siccome la madre appariva un po' confusa, probabilmente perché non era abbastanza ferrata in materia politica per capire al volo l'allusione, la Contessa spiegò: “Se alla morte di...” la donna provò a dire ad alta voce il nome di Giacomo, ma non ci riuscì: “Se alla morte di mio marito, mi fossi limitata a far uccidere in pubblica piazza una manciata di colpevoli e magari a far dare una ventina di frustate a mio figlio, ne sarei uscita indebolita nell'immagine, perché i congiurati erano di nome miei fedeli collaboratori, ma nessuno si sarebbe sognato di agire in modo cruento contro di me.”

Lucrezia seguiva il filo del discorso, una mano sulle labbra, la fronte corrucciata, ma la Tigre sarebbe stata pronta a scommettere che fosse sul punto a controbattere con qualche frase suggerita dall'ingenuo ottimismo dei profani, perciò si affrettò a continuare, per evitare fastidiose interruzioni.

“Invece io ho ecceduto, ho lasciato che la rabbia prevaricasse il mio buonsenso e ho seguito solo il mio istinto. Sono stata troppo violenta e ho colpito in modo troppo indiscriminato. Potevo chinare la testa alla loro scure, o cercare di rilanciare e così ho preferito rischiare.” la voce di Caterina aveva assunto una piega da penitente e tanto fu sufficiente a Lucrezia per stringersi le mani al petto, in apprensione, mentre la Contessa proseguiva: “Li ho confusi, adesso forse li ho anche spaventati, ma appena avranno capito quello che ho fatto, sfrutteranno la mia debolezza per distruggermi e strapparmi tutto.”

“Quindi con questa guerra...” iniziò la madre, scuotendo lentamente il capo in cerca dei termini migliori per esprimersi: “Rischi solo di aizzarli ancora di più contro di te?”

La Tigre mostrò i denti in quello che avrebbe voluto essere un sorriso, ma che invece restò una smorfia informe: “Possibile.”

“E dunque che senso ha?” insistette Lucrezia, allungando una mano e posandola con cautela sul braccio della figlia.

Caterina, che non si ritrasse al tocco come invece l'altra si sarebbe attesa, alzò un po' le spalle e confessò: “Mi serve solo per prendere tempo.”

Quella spiegazione così semplice colpì Lucrezia in modo particolare, tanto che la indusse a chiudere in fretta la discussione, in modo da poter riflettere con calma su quello che aveva sentito.

Diede un buffetto al braccio di Caterina e poi, senza più guardarla, fece per andarsene. La figlia non fece nulla per fermarla, senonché, appena fu a un paio di metri di distanza, fu Lucrezia a bloccarsi.

“Ed era necessario uccidere anche Guido Guerra? Perché l'hai voluto morto?” chiese la donna, stringendosi lo scialle sul collo.

La Tigre sbuffò: “Perché aveva ucciso Biondo e non era mai stato punito. Mi pare un motivo giusto.”

Lucrezia non osò chiedere altro e salutò la figlia con un cenno della mano, ripercorrendo a ritroso il corridoio che l'aveva portata fino lì.

Mentre sentiva il suono secco della porta che si chiudeva alle spalle di Caterina, si chiese se sua figlia stesse mentendo anche con se stessa, in merito a Guido Guerra. A lei pareva infatti chiaro che l'avesse voluto morto solo perché, in qualche modo, vi rivedeva Ottaviano.

Anche Guerra si era ribellato a sua madre e aveva avuto successo, come, in un certo senso, lo aveva avuto anche il giovane Riario che, pur giocandosi la libertà e forse il futuro, era stato abbastanza abile da strappare a sua madre l'unica cosa che avesse per lei un qualche valore.

E per uccidere Guerra, Caterina si era pure rivolta a Pandolfaccio di Rimini, un uomo il cui solo nome avrebbe fatto rizzare i capelli in testa al Diavolo. Solo per trattare con uno simile, per parlarne la stessa lingua, per trovare un minimo d'intesa, bisognava condividerne almeno in parte la sua abissale oscurità.

E probabilmente era proprio per quello che Caterina era riuscita a portarlo tanto rapidamente dalla sua parte.

Lucrezia raggiunse la sua stanza e accese le candele. Si sedette sul letto e pregò. Pregò per suo nipote Ottaviano, nella speranza che potesse pentirsi per quello che aveva fatto. Pregò per sua figlia, affinché si ravvedesse per tutti i suoi peccati. E infine pregò anche per l'anima di Guido Guerra, caduto per colpa della longa manus dell'odio.

 
   
 
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