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Autore: Adeia Di Elferas    15/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La cappa grigia e umida che si stendeva su Cusercoli non impensieriva Achille Tiberti, a metterlo in guardia era piuttosto l'atteggiamento delle guardie alle porte della città.

Entrare era stato troppo semplice e non lo convinceva l'apparente indifferenza della rocca, che pareva disabitata, senza nemmeno un osservatore dietro le merlature.

Nonostante ciò, diede voce a Cicognani e questi ordinò ai soldati di cominciare a dare fuoco alle case, in modo da stanare qualcuno con cui poter parlamentare.

Stavano dando alle fiamme la terza abitazione di legno, quando un sonoro colpo di cannone fendette l'aria e venne seguito dal pesante tonfo della palla di ferro che mancò di poco i soldati di Tiberti.

“Indietro!” gridò il comandante, tenendo a bada il cavallo spaventato, mentre un secondo colpo partiva dalla rocca: “Tornate indietro! Fuori dalle mura! Fuori!”

Il suo ordine, però, non fu abbastanza repentino da evitare alle sue truppe di subire le prime effettive perdite di quella guerra.

Dopo aver ripiegato oltre il confine di Cusercoli, Cicognani disse a Tiberti: “Quello che ha preso la rocca è il Gottifredi minore. S'è messo in testa di opporsi a noi e ci lancerà contro tutte le munizioni che ha. Suo fratello avrebbe più testa di lui, ma nessuno sa dire dove sia scappato...”

Achille ragionò in fretta, mentre uno dei feriti che si era riusciti a portare via veniva trascinato di peso in un punto tranquillo, in modo da poterlo medicare: “Va bene. Scriviamo subito alla Contessa, che ci dica cosa dobbiamo fare. Se dobbiamo andare avanti, andremo avanti, ma chiediamo di avere dei rinforzi.”

Cicognani annuì e diede una pacca sulla spalla all'altro: “Questa guerra ce la portiamo a casa, Tiberti, te lo dico io. Possono buttarci addosso anche tutte le palle di cannone d'Italia, che io non mi tiro indietro.”

 

A Forlì era appena arrivato il resoconto di Tiberti e Cicognani, direttamente dal fronte di Cusercoli.

Caterina aveva letto degli intoppi incontrati dai suoi comandanti – i primi, dall'inizio della campagna – e aveva compreso la loro indecisione sul da farsi, ma non era il momento di retrocedere. Se avessero mostrato che due colpi di cannone erano sufficienti a farli desistere, prima di sera avrebbero avuto al collo le zanne dei signori di mezza penisola.

“Mia signora...” Cesare Feo aveva bussato piano alla porta già aperta della stanza della Contessa.

La donna alzò lo sguardo, ripiegando in due la lettera che teneva tra le mani, e attese che il castellano continuasse.

“C'è un uomo che chiede di voi.” disse Cesare, aggrottando un po' la fronte: “Dice di venire da Cusercoli e di chiamarsi Gottifredi e di essere il fratello maggiore del Gottifredi che vi sta dando battaglia. Chiede di poter entrare alla rocca e parlamentare in privato.”

Caterina si passò tra le dita la lettera di Tiberti e si morse il labbro: “È qui da solo? Ha detto qualcosa in più sul perché è qui?”

Il castellano annuì: “Si è presentato completamente solo. Però, no, non ha detto nulla di più, se non che vuole vedervi di persona per parlarvi.”

Era chiaro che il Gottifredi fosse a Forlì per chiedere aiuto. Caterina sapeva che tra i due fratelli non correva buon sangue e immaginava bene come l'uno fosse stato messo contro l'altro dall'ormai defunto Guido Guerra, che aveva avuto una grossa influenza su Cusercoli.

“Va bene – concluse la Tigre – perquisitelo e disarmatelo, se ha con sé qualcosa di pericoloso. Poi fatelo attendere nella saletta piccola. Fate portare un po' di vino e qualcosa da mangiare.”

Cesare Feo abbassò il capo e assicurò che avrebbero setacciato il Gottifredi come il riso.

Lasciando la missiva di Tiberti appoggiata sulla scrivania, Caterina si alzò. Sarebbe andata subito nella saletta in cui voleva incontrare il rifugiato, ma si rese conto di essere in abiti da lavoro e si disse che quello era un momento cruciale della sua campagna. Doveva cambiarsi, scegliendo vestiti più adatti. Anche se coi suoi uomini poteva mostrarsi poco attenta alla forma, davanti a uno dei suoi potenziali nemici era necessario far sì che la sua autorevolezza non si potesse mettere in dubbio, men che meno per colpa di un abito sgualcito.

“Potete andare, ora.” disse, per congedare il castellano, che stava ancora sull'uscio aperto della stanza: “Sarò da Gottifredi tra un attimo.”

Cesare Feo si inchinò e si richiuse la porta alle spalle, lasciando la sua signora libera di indossare un abito più consono alle trattative che si apprestava a condurre.

La Contessa ci mise un po' a scegliere cosa indossare. Non aveva più molti vestiti e certi, per quanto un tempo di foggia invidiabile, stavano passando di moda o erano rovinati. Per la prima si trovò a pensare che suo marito Giacomo aveva ragione, quando le consigliava di farsi confezionare pure lei qualche abito nuovo.

Alla fine ne scelse uno dai colori neutri, molto semplice, ma elegante, il cui unico difetto visibile era un piccolo buco sul fianco, che poteva coprire molto agevolmente mettendosi sulle spalle un ampio scialle di lana. In fondo faceva freddo, quindi poteva anche starci.

Da quando non aveva più una cameriera personale, poi, Caterina aveva lasciato perdere tutte le sottovesti difficili da infilare e anche certi abiti dal corpetto strutturato erano finiti in fondo a una delle cassapanche e non aveva più nemmeno provato a metterli. Se il suo ospite l'avesse trovata troppo rilassata, in quell'abito dalle forme morbide, non le importava.

Lasciò i capelli sciolti, trovando che una retina l'avrebbe fatta sembrare solo più vecchia e non per forza più ordinata e rimpianse per la prima volta le acconciature raffinate che la moglie di Bernardino sapeva elaborare con apparente grande facilità.

Prima di uscire, comunque, si diede una rapida occhiata allo specchio. Seppur in parte celato dallo scialle, il suo corpo era messo in risalto dalla stoffa morbida color crema e i suoi capelli biondi rilucevano con arroganza sulle sue spalle e forse Gottifredi avrebbe apprezzato quei dettagli anche più di quanto la Tigre non sperasse.

 

Gottifredi aspettava in ansia, seduto in punta di poltrona, un calice pieno fino all'orlo davanti, accompagnato da pane nero e qualche pezzo di formaggio, e gli occhi nervosi che scattavano senza posa da un angolo all'altro della saletta.

Quando la Contessa entrò, l'uomo si alzò repentinamente, andando perfino a sbattere con le gambe contro il tavolo e rischiando di rovesciare il vino: “Mia signora – disse subito, avvicinandosi a lei e mettendosi in ginocchio – sono un vostro fedele servo!”

Caterina lasciò che l'uomo le baciasse il dorso della mano e poi gli indicò le due poltroncine sistemate vicino al tavolo: “Prego, mettetevi comodo e ditemi ogni cosa.”

Il maggiore dei Gottifredi aveva il viso largo e portava i capelli alla guisa dei soldati più rigorosi, ma nei suoi occhi si leggeva un'insicurezza che poco si abbinava al suo aspetto marziale.

“Mio fratello ha preso la rocca di Cusercoli – cominciò a spiegare – forte dei soldati che ha potuto comprarsi coi soldi che gli aveva dato il Conte Guerra. Crede di essere lui il padrone della città solo perché il signore di Cesena l'aveva preferito a me. E lo aveva preferito solo perché lo sapeva più facile da controllare.”

“Guido Guerra è morto, dunque le sue idee ormai valgono meno di un otre bucato.” commentò subito la Tigre, prendendo il suo calice e alzandolo in direzione del suo ospite: “Quindi il buon senso direbbe che ora Cusercoli spetta giustamente a voi, in quanto fratello maggiore. È questo che volete dire, immagino.”

Gottifredi fissò la donna che aveva finito in un'unica sorsata il bicchiere di rosso e poi ne seguì i movimenti mentre se ne versava un secondo: “Credo che sia nell'ordine delle cose, mia signora.”

Caterina assaporò ancora qualche sorso. Si era accorta nel momento stesso in cui era entrata nella saletta che le serviva qualcosa per rinfrancarsi. Era la prima volta in cui doveva fronteggiare apertamente uno straniero, da quando Giacomo era morto.

Era molto più facile fare il bello e il cattivo tempo coi propri sudditi. Con uno sconosciuto, invece, le sembrava di camminare sulle uova. Temeva di dire troppo o troppo poco o di non cogliere i segnali di un eventuale trappola.

Forse era stata lontana dagli affari esteri troppo a lungo.

La Tigre fece schioccare le labbra, riappoggiando il calice al tavolo: “Strano che veniate a parlarne proprio con me. Non so se ve ne siete accorto, prima di venir qui, ma ho preso d'assedio Cusercoli e ho tutta l'intenzione di tenere la città e la rocca per me, dopo aver abbattuto le difese di vostro fratello.”

Il Gottifredi deglutì a stento, la gola così secca da portarlo a sorbire a sua volta un po' di vino per riuscire a parlare senza strozzarsi: “Credetemi se vi dico che mio fratello non se ne starà con le mani in mano.” assicurò: “Da sempre è amico di Pandolfo Malatesta.”

Caterina cercò di non lasciar trasparire nessuna emozione, ma quella novità le gelò il sangue nelle vene. Essendo il giovane Gottifredi benvoluto da Guido Guerra, la Contessa aveva dato per scontato che non fosse in buoni rapporti con il signore di Rimini.

“Perché me lo state dicendo?” chiese la donna, appoggiandosi a uno dei braccioli dalla poltrona.

Con quel gesto apparentemente casuale, la Tigre aveva messo in mostra ancora di più il suo profilo formoso e il Gottifredi maggiore, come da attese, ci mise qualche secondo, prima di riuscire a distogliere l'attenzione da una simile distrazione.

“Voglio darvi le informazioni necessarie a sconfiggere mio fratello, a patto che poi io possa rimanere castellano della rocca di Cusercoli.” soffiò l'uomo, tutto d'un fiato.

Caterina valutò molto rapidamente quell'offerta. A conti fatti, il Gottifredi le aveva già dato un'informazione che da sola le avrebbe salvato la campagna. Sapendo il padrone di Cusercoli in buoni rapporti col Pandolfaccio, la Contessa era conscia già in partenza di dover mandare dei rinforzi sostanziosi ai suoi.

Dunque che altro poteva sperare di spremere da quel soldatucolo così impaurito e così disperato da andare fino a Ravaldino per chiederle protezione?

Caterina prese la terza coppa di vino e, con un sospiro profondo, lanciò uno sguardo graffiante al suo ospite: “Siete certo che io abbia bisogno di voi?”

Il Gottifredi si specchiò nelle iridi verdi della Leonessa e deglutì, prima di provare a rispondere: “Io direi di sì. So essere un uomo riconoscente. Se fossi un castellano alle vostre dipendenze, non vi tradirei per nessun motivo.”

Su quello Caterina aveva non pochi dubbi, ma importava solo relativamente. Aveva capito in quel breve colloquio che il Gottifredi maggiore, malgrado tutti i suoi deliri di onnipotenza legati al fatto di essere il primogenito, non valeva poi molto. Quasi per certo non aveva alle spalle nessuno e, ad assedio finito, se per qualche motivo la Contessa avesse preferito a lui qualcun altro, probabilmente toglierlo di mezzo sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Quindi, perché non spremerlo a fondo, finché poteva?

“Va bene, vi offro la mia protezione.” disse la Tigre, cogliendo di sorpresa l'uomo, che si aspettava più difficoltà da parte sua: “Ma da oggi dovrete considerarvi al mio servizio.”

Gottifredi scattò in piedi e si buttò, per la seconda volta nel breve lasso di tempo di quella conversazione, ai piedi di Caterina, tanto prostrato da toccare quasi terra con la fronte.

Sì, decisamente sarebbe stato semplice liberarsene, a guerra finita.

“Ora andate dal mio castellano.” concluse la Contessa, toccandogli la spalla per invogliarlo a rialzarsi: “Vi dirà dove potete soggiornare, qui a Forlì. E vi fornirà anche una piccola somma per le vostre spese.”

Gottifredi ringraziò ancora varie volte, visibilmente sconvolto per la sua fortuna e, quando fu alla porta, Caterina aggiunse: “Domani mattina voglio che vi presentiate qui alla rocca di buon'ora, per spiegarmi bene alcuni dettagli sulla rocca di Cusercoli.”

L'uomo fece tre brevi inchini e finalmente sparì.

La Tigre l'aveva guardato fino all'ultimo minuto, trovandone la figura tozza e sgraziata e le gambe troppo storte anche per un uomo di fatica.

Prese la caraffa di vino e si versò in rapida successione qualche altro bicchiere. Attese che il vino le desse una piacevole sensazione di lontananza dal mondo e poi abbandonò il capo contro lo schienale imbottito della poltrona.

Si stava chiedendo che avrebbe fatto, se il Gottifredi fosse stato fisicamente di suo gradimento.

Prima di vederlo, si era posta la medesima domanda. Quella sua debolezza, che si era acuita in modo tangibile da quando aveva ceduto per la prima volta con il ragazzo trovato dal Novacula al postribolo, rischiava di farle commettere grossi errori.

Se il Gottifredi fosse stato di bell'aspetto, forse Caterina non avrebbe saputo resistere. Per esperienza stava scoprendo che gli uomini non la rifiutavano, quindi stava a lei decidere che fare. Se ne sceglieva uno, non poteva, in tutta onestà, sperare che egli opponesse un rifiuto risparmiandole un errore.

In quel caso, sedurre – o farsi sedurre, a seconda dei punti di vista – un potenziale nemico avrebbe potuto avere effetti molto seri. Le ripercussioni di una conoscenza più intima avrebbero potuto portarla su una via pericolosa, inducendola a fidarsi troppo facilmente o, al contrario, a diffidare in misura eccessiva del suo potenziale alleato. In un caso o nell'altro, probabilmente passare una notte con il questuante di turno le avrebbe tolto lucidità.

Ecco perché non aveva mai provato a cercare compagnia, nemmeno per una sola notte, tra i nobili rimasti a Forlì o tra i soldati che avevano un ruolo importante nel suo esercito. Aveva evitato anche gli uomini che sapeva o che si dichiaravano sposati o sentimentalmente impegnati. Tanto meno si sarebbe mai concessa a un ambasciatore o a uno dei suoi Consiglieri. Artigiani, mercanti, ragazzi del lupanare, reclute, contadini, ecco quali erano le categorie tra cui pescare. Per trovarli liberi, doveva cercare tra i più giovani, ma era tutt'altro che un problema, a ben guardare. E dopo una notte, non li voleva vedere più.

Inclinando ancora una volta la brocca e trovandola con disappunto vuota, Caterina si premette una mano contro le tempie che pulsavano e ringraziò la sorte di averle mandato Gottifredi, uomo brutto quanto patetico.

Sperando di non dover mai trattare di politica o guerra con uomini attraenti, la Tigre lasciò la saletta e si diresse alla sua stanza, per scrivere una risposta alla missiva di Achille Tiberti e altre due lettere, da cui potevano dipendere le sorti della guerra.

 

Il fratello Gottifredi più giovane aveva abbandonato il suo posto quasi di nascosto, lasciando in consegna ai suoi di non cedere né la città né la rocca per nessun motivo.

“Tornerò con dei rinforzi – aveva detto al suo luogotenente – e rispediremo i soldati di quella maledetta strega all'inferno.”

Così si era allontanato da Cusercoli uscendo dalla porta opposta a quella presidiata dai forlivesi e aveva condotto il suo cavallo fino a Rimini senza fermarsi nemmeno una volta.

Si era recato a gran velocità fino al palazzo dei Malatesta e aveva atteso con fiducia di essere accolto da Pandolfo, signore della città e sua migliore speranza.

Pur essendo stato messo da Guido Guerra a capo della rocca di Cusercoli, il giovane Gottifredi aveva sempre mantenuto buoni rapporti anche con il signore di Rimini, certo che fosse buona cosa tenere un piede in due scarpe e non precludersi nessun tipo di amicizia.

La sua famiglia era della nobiltà cesenate, ma il Conte Guerra era stato capace di strappare loro terreni e castelletti. Se lo aveva tenuto buono, l'aveva fatto solo perché il Gottifredi aveva fatto in modo di intessere con lui un'amicizia personale – per quanto molto fasulla almeno dal suo lato – e così gli era stata risparmiata la fine toccata ai suoi parenti.

Pandolfo fece attendere il cesenate nel salotto delle udienze e si presentò a lui dopo almeno un'ora.

“Perdonatemi – disse il Malatesta, scuotendo i capelli lunghi per toglierseli da davanti agli occhi scuri e penetranti – avevo cose urgenti da fare. Cosa vi porta qui?”

Il Gottifredi, ritto nella sua mezza armatura, assunse un'aria risoluta: “Immagino sappiate cosa sta capitando a Cusercoli: la Leonessa di Romagna ci ha presi d'assedio e s'è convinta di poter catturare la rocca e la città.”

Pandolfo fece un sorrisetto vago e si mise a passeggiare indolente vicino alle ampie finestre che schermavano la luce plumbea del novembre: “E con questo? Non è territorio di mia competenza.”

“Siamo da sempre amici fraterni – prese coraggio Gottifredi, azzardandosi a fermare il signore di Rimini, che stava continuando la sua vana marcia a vuoto – e io vi sto chiedendo aiuto.”

“In cambio di cosa?” domandò il Pandolfaccio, che, comunque, si stava già lasciando convincere.

Gottifredi sapeva bene che quell'uomo era più che sensibile a un certo genere di cose. La prima fra tutte era l'illusione di sentirsi un salvatore. Pandolfo adorava farsi osannare da coloro che riteneva suoi inferiori e dunque sarebbe stato capace di accettare una simile dispendiosa richiesta, anche sapendo di poter aver in cambio solo un'ostentata riconoscenza.

In più Gottifredi aveva sentito dire che il Malatesta odiava i Riario perché si era sospettato che dietro la morte del padre di Pandolfo, Roberto, ci fosse il defunto Conte Girolamo, primo marito della Leonessa.

Insomma, ben due punti a favore del suo piano.

“In cambio della mia eterna fedeltà e della mia imperitura riconoscenza.” rispose prontamente il Gottifredi, inginocchiandosi con un po' di rigidità.

Per quanto fosse deciso a trovare soccorso, la sua indole orgogliosa gli faceva pesare quel gesto.

Pandolfo sospirò, ma le sue labbra si stavano già aprendo in un sorriso sghembo. Fece cenno al suo nuovo sottoposto di alzarsi pure e, quando Gottifredi fu di nuovo in piedi, il Malatesta lo afferrò per le spalle e poi lo abbracciò con fare fraterno.

“So già chi mandare in vostro aiuto – assicurò il signore di Rimini, sciogliendo la stretta – e lo farò subito. Potete andare.”

Gottifredi avrebbe voluto più dettagli, ma capì che ogni domanda sarebbe stata interpretata nel modo peggiore dal lunatico Malatesta, così si limitò a fare un altro inchino profondo, esclamando, con la voce un po' strozzata: “Voi siete un grande signore! Vi servirò fino alla morte!”

“Ne sono felice. Non chiedo di meglio.” convenne Pandolfo, accompagnando l'ospite fino alla porta: “Ora, su, tornate a Cusercoli, i miei uomini arriveranno entro un giorno.”

L'uomo si appoggiò una mano sulla piastra metallica che gli proteggeva il petto e salutò, prima di lasciare il salotto di rappresentanza del palazzo dei Malatesta.

Il sorriso che aveva increspato le labbra sottili di Pandolfaccio si accartocciò all'istante, quando l'altro se ne fu andato.

Con la mente in lavoro e la fronte corrugata, il signore di Rimini andò alla finestra che dava sulla strada e attese fino a che non vide il Gottifredi uscire da palazzo. Il cesenate non si guardò indietro nemmeno una volta. Montò a cavallo e ripartì, come se fosse inseguito dal demonio.

Pandolfo annuì piano tra sé e poi, allacciate le mani dietro la schiena, andò a passo svelto fino nei suoi appartamenti privati. Chiamò a sé il suo cancelliere e gli consegnò un biglietto destinato al capo del suo esercito.

“Che ci pensino quelli di Meldola – borbottò, mentre congedava il cancelliere – se vinceranno, vedremo di guadagnarci, altrimenti faremo in fretta a lavarcene le mani.”

 

Lorenzo Medici passò una mano sullo scampolo di stoffa e scosse il capo: “No, è davvero troppo ruvido – disse, rivolgendosi al mercante – non avete qualcosa di più soffice?”

Mentre il proprietario della bancarella annuiva e cercava tra i mucchi di rotoli dai vari colori, il Popolano più vecchio fissò di sottecchi il fratello minore: “Cosa c'è?” gli chiese.

Giovanni si stava guardando attorno con attenzione. Appariva un po' teso e la sua mano destra era appoggiata, apparentemente per caso, sul pomello della spada che portava al fianco.

Il mercato era pieno di gente e in quella piazza Firenze sembrava ancora pulsante di vita come la era un tempo. Ogni tanto passava qualche Piagnone o qualche flagellante, ma i commercianti e i compratori parevano non avvedersene, proseguendo con contrattazioni, compravendite e mercanteggiamenti di ogni sorta.

“Niente.” fece Giovanni, tossicchiando e rivolgendo gli occhi chiari al fratello: “Ti guardo le spalle, come sempre.”

Lorenzo sbuffò, mentre il mercante di stoffe srotolava davanti a lui un metro di lana blu lavorata in modo eccellente.

“Questo può andare. Tenetemene da parte un rotolo intero – fece il Popolano più vecchio, saggiando il materiale con indice e medio – manderò i miei sarti a prenderlo e a pagarlo, più tardi.”

Il venditore ringraziò e diede uno scapaccione a uno dei suoi garzoni affinché mettesse subito da parte la lana scelta da 'messer Medici'.

“Non sei la mia guardia del corpo.” fece notare Lorenzo, mentre lui e l'altro Popolano si avviavano in mezzo alla piazza, diretti già verso casa.

“In tutta franchezza, non vedo perché te la prendi.” ribatté Giovanni: “Sono tuo fratello, è il minimo che posso fare per te.”

“Da quando è morto mio figlio mi tratti come se fossi fatto di cristallo.” disse secco il maggiore, mentre imboccavano una stradina laterale, sottraendosi alla folla: “Ma non è così. Piuttosto, hai visto quante belle giovani ti fissavano, al mercato?”

Giovanni lanciò gli occhi al cielo grigio e si sistemò il cappello imbottito sui riccioli: “Ero più interessato a vedere se ci fosse qualcuno pronto a saltarti al collo con un pugnale in mano.”

“Avanti... Parli come se avessi deciso di restare scapolo a vita. Lo sai come ti chiamano?” nella voce di Lorenzo c'era solo una vaga eco del tono bonario e canzonatorio che l'aveva accesa prima della morte di Averardo.

Il fratello minore si era accorto fin da subito che il maggiore era cambiato radicalmente da quando aveva perso un figlio. Si era come spento. Era diventato tetro, anche se cercava di nasconderlo in ogni modo. Non rideva più di gusto, non riusciva più a fare certe battute e, soprattutto, non era più caloroso e aperto coi suoi altri figli quanto lo era stato prima.

Quel tentativo di parlare del più e del meno come se nulla fosse successo era quasi patetico, agli occhi di Giovanni, ma si sforzava di assecondarlo, sperando di poterlo in tal modo aiutare.

“No, come mi chiamano?” domandò quindi il Popolano minore, rallentando un po' il passo, come se fosse davvero curioso.

“Ho sentito dire che molte donne ti chiamano 'il più bel giovane che vive oggi in Firenze'.” fece Lorenzo, con un mezzo sorriso che però non arrivava ad accendere gli occhi tondi: “Non è un soprannome molto conciso, ma dovresti esserne lusingato.”

Giovanni riprese il passo veloce di poco prima, costringendo le gambe più corte del fratello maggiore a lavorare il doppio delle sue, che invece erano lunghe e snelle: “Prima di tutto, ho ventotto anni, quindi non mi si può più ritenere giovane da almeno due lustri. E poi, se secondo loro sono il più bello di Firenze, significa che avevi ragione tu.”

Lorenzo bussò alla porta del loro palazzo, in attesa che qualche servo aprisse: “Che intendi?”

“Che tu mi hai detto che a Firenze la bellezza non esiste più. Ebbene, se io sono visto come il più fulgido esempio di questa qualità rara, significa che hai proprio ragione da vendere. La città è senza speranza.” argomentò Giovanni, ringraziando con un movimento lieve del capo il domestico che aveva aperto il portone.

Il Popolano più vecchio si concesse una mezza risata atona e poi concluse: “Ti sottovaluti. È vero che sei un po' pelle e ossa, ultimamente, ma se metti gli abiti giusti ed eviti quell'espressione affranta che ti ritrovi e sorridi di più, allora nessuno potrà dire che le voci su di te sono false. Non sei più un ragazzino, è vero. E con questo? Non sei certo vecchio per trovarti una moglie. E non dire che sono fissato con l'idea di accasarti. Scusa, vado un attimo a parlare coi sarti. Aspettami nella sala dei quadri, devo dirti una cosa importante.”

Giovanni non cercò più di smontare le teorie del fratello e andò ad attenderlo di fronte alla Primavera dipinta da Botticelli.

Dopo una manciata di minuti, Lorenzo lo raggiunse e prese una sedia, trascinandola fin davanti alla poltroncina in cui stava l'altro: “Non te ne ho fatto cenno al mercato perché avevo paura che qualcuno potesse sentirci – iniziò, parlando in fretta e a voce bassa, una combinazione che riscosse l'attenzione di Giovanni – ma la Signoria sta per scegliere dei nuovi ambasciatori per sostituire quelli troppo anziani. E stanno pensando anche di mandarne uno in pianta stabile a Forlì. Si tratterebbe di riallacciare i rapporti commerciali con lo Stato dei Riario e di fare da supervisore per tutta la zona della Romagna.”

Il Popolano più giovane annuì un paio di volte, senza presagire quale fosse il punto del discorso, ma, anzi, dicendo: “Sarà importante scegliere qualcuno che sia capace di muoversi in un ambiente tanto complicato. In Romagna è appena scoppiata una guerra e pare sia stata la Sforza a cominciarla. Chiunque verrà scelto, dovrà saper gestire una bella confusione...”

“Lo so.” convenne Lorenzo, sporgendosi un po' in avanti: “Ed è per questo che io voglio proporre te.”

Giovanni si ritrasse, incrociando le braccia al petto: “Perché me?”

“Te lo confesso – fece il maggiore, scurendosi in viso – mi sarei proposto in prima persona, ma non voglio lasciare sola Semiramide e non posso chiederle di seguirmi in Romagna. Non adesso.”

Giovanni si grattò il mento e poi disse: “Hai ragione, non è il caso. Però come puoi pensare che la Signoria accetterà di mandare me? Proprio adesso che c'è lo spettro di nostro cugino Piero che sta cercando soldati per fare un colpo di Stato... Il nostro cognome è un ostacolo non da poco.”

“Tutti sanno che noi siamo stati gli unici a riuscire a contrattare con la Tigre, in passato. Siamo riusciti a venderle del grano, e nessun altro a Firenze aveva avuto successo nel guadagnarsi la sua fiducia, nemmeno per un misero scambio commerciale. Chi meglio di noi potrebbe fare da ambasciatore alla sua corte?” il discorso di Lorenzo venne accolto da un breve silenzio.

Alla fine Giovanni si trovò costretto a convenire, ma fece un estremo tentativo di ritrarsi: “Non ho mai fatto il lavoro dell'ambasciatore e poi dicono che la Sforza sia impazzita. Credi davvero che potrebbe essere una buona idea?”

Lorenzo si alzò e liquidò le perplessità del fratello in un lampo: “La Tigre non è impazzita. Quello che ha fatto contro il Conte Guerra è tutto fuorché un atto di follia e lo sai quanto me. Tu sei sveglio, imparerai molto in fretta il mestiere del diplomatico. Allora, posso contare su di te? Posso fare il tuo nome, quando si voterà?”

Giovanni si passò le mani sulle ginocchia, avvertendo una leggera scossa a quella destra. Stava bene da un pezzo, ormai, ma la paura di soffrire di nuovo come durante l'ultimo attacco di gotta lo atterriva. Cosa sarebbe accaduto se fosse stato male mentre era lontano dalla sua famiglia?

Chiuse con forza gli occhi: “Mi stai chiedendo molto.”

Lorenzo sospirò: “Lo so.”

“Accetto.” soffiò Giovanni: “Quando se ne parlerà alla Signoria?”

Il maggiore alzò le spalle: “Non prima che a dicembre, credo. Con ogni probabilità non dovrai partire fino ai primi mesi del prossimo anno.”

Il Popolano minore lasciò la sua poltroncina e assicurò: “Bene. Per il momento, allora, continuerò a guardarti le spalle. Quando sarà il momento, vedrò di lasciare le mie vesti di guardia del corpo e mi darò da fare in altro senso.”

Giovanni lo abbracciò e poi, tenendo il suo naso schiacciato contro quello dritto del fratello, lo ringraziò e aggiunse: “Quello che diceva nostro nonno è proprio vero. Se i Medici stanno uniti, nessuno li può sconfiggere.”

 
   
 
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