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Autore: KamiKumi    13/04/2017    3 recensioni
Emily Mayton è una giovane ragazza in carriera:
Eccelle nel suo lavoro dei sogni.
La sua migliore amica è una pazza scatenata su cui si può sempre fare affidamento.
Il suo fidanzato da cinque anni è perfetto in tutto.. fuorchè tra le lenzuola.
Tuttavia la sua vita cambia radicalmente all'incontro col focoso Duke Worten. Un'attrazione magnetica che si trascinerà fin nel suo ufficio.
Un triangolo d'amore e negazione.
Ogni certezza svanisce quando inizia la passione.
Genere: Comico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Quando rientro nel mio appartamento lo faccio sbattendo forte la porta, in preda ad un attacco di rabbia troppo forte per essere fermato. È inutile che mi guardate con quegli occhi compassionevoli, non ho bisogno della pietá di nessuno, non sará certo un pugno in faccia a farmi a pezzi e tanto meno lasceró che sia Emily a farlo; lei ed il suo abbandono. Abbandono poi, che stronzata del cazzo. Io sono Duke Worten: sono io colui che usa le donne per il proprio piacere fisico e che poi ne infrange il cuore e le speranze piantandole in asso. La situazione non si è ribaltata. Io che mi innamoro? È una cosa assolutamente impossibile. È solo una convinzione malsana che mi si era piantata nella mente; io non mi innamoro. Esser single è meglio, da questo status si possono trarre i migliori vantaggi della vita, come il sesso con chi si preferisce, senza l'intralcio di una relazione opprimente ed assillante.
Ha ha ha viene da ridere anche a voi, non è cosí? 
Raccontarmi queste balle non serve a niente. L'amore che provo per Emily non è una convinzione auto imposta, bensí una certezza. Ma questo sentimento, che non provavo sulla mia pelle da cosí tanti anni, mi si è ritorto contro spezzandomi il cuore prima ancora che potessi godermi a pieno l'ebrezza che avrebbe potuto donarmi.
Cazzo, ma mi sentite? Sono ridicolo. Eppure è questo che Emily mi ha fatto: mi ha trasformato in qualcuno che non volevo essere e che mai avrei pensato sarei potuto diventare. Ora sono un uomo con le difese infrante, un debole troppo esposto, col cuore a pezzi ed il petto dilaniato.
Lancio un urlo di strazio colpendo il muro con un pugno, preferisco rompermi le dita di una mano piuttosto che lasciar cedere i frammenti di me che stanno uniti a stento, piuttosto che cedere alla tristezza. 
Ne scaglio un altro scaricando l'adrenalina e la rabbia faticosamente trattenuta dall'incontro con Nate. Rivivo la scena nella mia mente: il momento in cui i suoi occhi iniettati di sangue incontrano i miei, l'odio che mi ribolle nel petto, il suo assalto su di me ed infine l'impatto del suo pugno sulla mia mascella; un contatto imprevedibilmente desiderato, un risveglio dallo stato catatonico in cui ero tragicamente crollato dal giorno in cui lei mi ha piantato in asso nel mio ufficio dopo averle rivelato i miei sentimenti. Dopo che Emily ha scelto Nate.
Ho provato gioia nel momento in cui l'adrenalina ha iniziato a montarmi dentro, quando ha iniziato a sbraitarmi contro dando spettacolo nel centro trafficato di Manhattan. Ho goduto nello sbattergli in faccia la nuda e cruda realtà dei fatti e vederlo cadere a pezzi proprio come lo ero, e sono io tutt'ora. Eppure quando ho avuto l'occasione di ricambiare al pugno ricevuto, il suo sguardo ha incrociato il mio ed al suo interno ho visto qualcosa di irrimediabilmente spezzato, andato per sempre in frantumi. Mi sono tirato indietro, limitandomi a spintonarlo ed allontanarlo da me. 
Un'orribile sensazione di colpevolezza mi ha inondato, facendomi provare pietá: ho distrutto una relazione di tanti anni in una sola notte, mi sono intromesso dove non avrei dovuto, poco mi sarebbe dovuto importare dei miei sentimenti. È per questo che non l'ho colpito: la mia presenza ha procurato abbastanza danni inutili, poichè il vincitore in ogni caso è stato lui. Emily ha scelto lui. 
Ricordo l'intensitá del suo sguardo cosí chiaramente che mi sembra di averla di fronte a me: i suoi occhi cosí verdi lievemente gonfi, accerchiati da occhiaie e la loro dolcezza distorta sotto il peso della colpa. L'ho vista inondarsi di tristezza sussultando alla mia rivelazione, per poi andarsene da me una volta per tutte. È proprio come aveva sempre voluto: mi cacciava, mi allontanava da se respingendo le mie avances e, quando nell'ultimo periodo ci siamo avvicinati, mi sono illuso che lei provasse per me ció che io provavo per lei. Invece voleva solo scopare, avere ció che non ha mai avuto e poi piantarmi in asso, proprio come io ho sempre fatto con le altre donne.
Il karma deve aver fatto il suo dovere, come si suol dire: tutto torna, ed ora che so cosa si prova dovrei cercare quelle ragazze che ho sedotto ed abbandonato, strisciare da loro ed infine domandare perdono. Ora so come ci si sente ad avere il cuore infranto, so come ci si sente ad avere un abisso nel petto che trema ogni qual volta la sua voce, i suoi occhi o il suo sorriso mi appaiono nella mente, causandomi quell'orribile sensazione di vuoto di cui tutte le canzoni d'amore parlano.
Josie mi raggiunge miagolando ed io sono stato cosí assorto nel mio dolore e nella mia autocommiserazione da non averla considerata. Si mette su due zampe, conficcando le sue unghiette nel tessuto dei miei pantaloni per attirare la mia attenzione.
Mi passo una mano sul viso per cercare di riprendermi; le dita arrossate con la pelle lacerata mi fanno cosí male che quasi non riesco a muoverle, dovrei preoccuparmi di metterle sotto a del ghiaccio ma quando raggiungo il frigorifero l'unica cosa che afferro è una bottiglia di vino bianco.
È solo l'una di pomeriggio ed io dovrei fare ritorno in ufficio, eppure tutto quello che mi preme al momento è svitare il sughero dal collo di questa bottiglia e scolarne tutto il contenuto.
Prendo il telefono e mando un messaggio a Carlos che, nonostante sia un dannato figlio di puttana, la sapeva lunga e mi aveva avvertito. Gli scrivo che sto male e non cercarmi, dopodichè spengo quell'aggeggio infernale e lo lancio noncurante da qualche parte sulla penisola della mia cucina. Smetto di ignorare il miagolio insistente della mia gatta dandole finalmente da mangiare: doppia razione, cosí se ne stará buona per un po'. Infine prendo il cavatappi per dedicare l’attenzione al mio cuore infranto.




Sono passati due giorni ed io ho messo residenza fissa sul divano del mio salotto ma, al contrario di quanto possiate pensare, no: non sono ubriaco fradicio e no, non sto affondando i dispiaceri nell'alcol. Questo perchè dopo essermi bevuto quasi metà bottiglia ho iniziato a vaneggiare cercando in ogni modo di chiamare Emily. Avevo bisogno di sentire il suono della sua voce. Nel momento in cui, peró, mi accorgevo che non abbiamo mai avuto l'occasione di scambiarci i numeri, la sensazione che provavo era molto simile ad un pugno nello stomaco, ma peggio. Esilarante: abbiamo scopato per intere ore quella notte, eppure non abbiamo modo di metterci in contatto l'uno con l'altro.
L'alcol non faceva che intensificare le sensazioni. Ogni cosa, ogni piú piccolo dettaglio mi portava a pensare a lei ed era uno strazio a cui non ero disposto a cedere. Quindi ho semplicemente aspettato che la sbronza passasse e per questo motivo ora vedete la bottiglia mezza piena abbandonata sul tavolino, di fianco ai piedi che vi ho appoggiato sopra. Sempre per questo mi vedete fissare la televisione senza realmente prestare attenzione a ciò che viene trasmesso. 
Sto seduto sul divano a braccia conserte e mio malgrado, non riesco a levarmi dalla mente che questo è lo stesso divano su cui Emily è stata seduta insieme a me, accanto a me, lasciandosi toccare e accarezzare illudendomi come un beato coglione. 
Ora capite per quale motivo nessuna donna avrebbe mai dovuto mettere piede dentro a questa casa? Il tempio del testosterone, non a caso era questo il suo soprannome.
Non avrei dovuto lasciarla entrare nel mio appartamento, tanto meno lasciarla penetrare tanto a fondo nella mia quotidianitá e nella mia vita.
Stringo gli occhi, incassando ancora una volta il colpo auto inflittomi pensando alla sua assenza, quando la porta d'ingresso inizia a tremare sotto i colpi incessanti e le urla fastidiose di una voce familiare: è Carlos.
Sono passati due giorni da quando gli ho mandato quel messaggio e comprendo il fatto che si sia presentato qui con così tanta irruenza da ricordare il lupo della favola dei tre piccoli porcellini, ma non mi sono mosso da questa posizione per alcun motivo al mondo e di sicuro non sarà lui ad indurmi ad abbandonare il microclima a cui ho dato vita. Quindi lo ignoro, poichè non sono assolutamente interessato ad interagire con altri esseri umani ancora per un po'.
«Apri la porta, coglione! Sono ore che ti chiamo!» Continua a sbattere i pugni, procurando un fastidioso rumore sordo che non fa altro che urtarmi i nervi. A questo punto mi è chiaro che continuare ad ignorarlo è impossibile.
«Vattene Gomez, tornerò al lavoro tra qualche giorno!» Urlo per farmi sentire sin dall'ingresso, ma sono certo che l'apatia nella mia voce non sia sfuggita a nessuno.
«Apri subito Worten, ti hanno cercato in ufficio.» La mia mente parte subito per la tangente immaginando Emily telefonarmi disperata, implorando perdono, supplicandomi di lasciarle spiegare quanto successo. 
Il cuore che in pochi istanti mi si era riempito di speranza crolla quasi immediatamente, ripiombando in quello stato crudele che noi chiamiamo realtà. Il mondo sembra paralizzarsi quando sento come la frase si conclude: «Ha chiamato tua madre dall'Italia, è urgente!» Mi volto di scatto verso l'ingresso, che all'improvviso sembra lontanissimo ed irraggiungibile. Mi rimetto in piedi, perchè questa è l'unica notizia in grado da risvegliarmi dal torpore degli ultimi due giorni, quindi mi tocca ricredermi: questo stronzo è riuscito davvero a schiodarmi dal mio stato di coma. Improvvisamente mi sento carico di adrenalina e a passo svelto mi appresto ad aprire la porta. Dietro ad essa ci trovo il mio collega col respiro affannato ed il viso tirato. Si passa una mano tra i capelli ricci «Era ora, cazzo! Che fine ha fatto il tuo telefono?» Mi supera ancora prima che possa avere modo di spostarmi e lasciarlo entrare. Il tono di urgenza nella sua voce non fa che agitarmi piú di quanto giá sia. Cos'è successo?
Non sento spesso mia madre, perlopiú mi manda email con allegate foto delle ricette italiane che ha imparato in questi anni da quando si è trasferita, dopo la morte di mio padre. Capirete tutti che l'ondata di panico che mi sta stravolgendo è del tutto assolutamente giustificata.
«Perchè ha chiamato in ufficio?» Domando con impazienza apprestandomi a cercare il telefono «Le hai parlato?»
«Ha detto che era molto urgente e non riusciva a contattarti.» Il suo tono di voce basso non fa che buttare benzina sul fuoco. Mentre parla riesco a trovare il cellulare, che mi sbrigo ad accendere. «Era molto agitata e singhiozzava.» Quest'informazione e i mille messaggi di chiamate perse sono il giusto mix di ingredienti necessari a mandarmi categoricamente nel panico. Compongo immediatamente il numero di mia madre, poco importa se spendo un patrimonio per via della chiamata intercontinentale.
Percorro il perimetro della mia cucina in senso antiorario con fare agitato, mi slaccio due bottoni della camicia per prendere piú fiato (se ve lo steste chiedendo: esatto, indosso i miei vestiti da lavoro da due giorni.).
Il telefono squilla nel mio orecchio e l'attesa mi uccide.
Carlos mi guarda, è seduto sul divano con le mani incrociate, curvo sulle sue ginocchia. Sembra teso quanto me, ma non saprei dirlo, perchè in quel momento la voce di mia madre spezza la ripetizione di quel suono irritante che si ripeteva in loop nel mio timpano.
«Mamma, cosa succede?» Domando subito in tono allarmato, senza sprecare tempo in convenevoli.
«Oh Duke, sei tu! Che fine avevi fatto?» La sua voce trema, come se stesse cercando di trattenere i singhiozzi e questo mi fa preoccupare ancora di più perché, so di non aver parlato per niente della mia famiglia dato che è stabilita nell’emisfero terrestre opposto a quello in cui vivo io e non ce n’è stata occasione, ma mia madre è una donna molto forte, che non piange mai… a meno che non sia successo qualcosa di estremamente grave. «Si tratta di Giacomo, tuo cugino.» In seguito non riesco ad apprendere a pieno il significato delle parole che la donna dall’altro lato della cornetta sta ripetendo. Il suo tono è spento, eppure carico e strabordante di dolore. 
In questo momento mia madre non è la stessa che ogni due settimane mi chiama domandandomi come sto, se ho trovato una fidanzata o se mangio come devo. Stupefacentemente vorrei che fossero questi i motivi legati alla chiamata, perché contro ogni mio buonsenso preferirei raccontarle del mio cuore infranto e dell’amore che avevo finalmente trovato, piuttosto che sentire la sua voce spezzata, perché la notizia che arriva a me ancor prima che le mie sinapsi abbiano avuto l’occasione di registrarla mi fa gelare le viscere: «Questa mattina è morto.»
Avete presente quella sensazione di vuoto che si prova quando si è sulle montagne russe e cadete nel vuoto, vi manca l'aria ed annaspate cercando invano di respirare? Ecco, è proprio cosí che mi sento nel momento in cui mi da la notizia che, ammettiamolo, non è la migliore dell'ultima settimana. Mi viene da pensare che la vita mi stia facendo pagare i torti compiuti durante l'arco dei miei ventisette anni. Un rammollito si porta via la ragazza di cui sono innamorato spezzandomi il cuore e poi la morte trascina con se il ragazzo con cui trascorrevo le vacanze fino a tre anni fa. Mi verrebbe voglia di alzare lo sguardo verso il cielo ed urlare inveendo contro quello che tutti chiamano Dio.
Impallidisco mentre la mia mente si svuota, sgrano gli occhi paralizzandomi. Riesco a malapena a sentire la voce di mia madre chiamarmi con voce stanca e tremante dall'altra parte della cornetta.
Ingoio a denti stretti il groppo che mi si è formato in gola, prima di chiederle come sia successo.
Seguono attimi di silenzi in cui percepisco solo il suo respiro. Infine prende coraggio, lo capisco dal modo in cui inspira, e me lo dice: «Si è suicidato.» Ed è un altro salto nel vuoto. Stringo forte gli occhi per attutire il dolore, ma chi voglio prendere in giro? Resto senza fiato, non dico niente perchè non so come reagire. È tutto cosí sbagliato.
Credo che Carlos mi stia chiamando, ma come puó pensare che lo senta se riesco a percepire a malapena me stesso? 
«Ti richiamo piú tardi.» Rispondo. O almeno è quel che credo di aver fatto, non ne sono sicuro, la mia mente è annebbiata: provo tutto e non provo niente, un turbinio di sensazioni travolgenti che si trasformano in rabbia. Scaravento con forza il telefono contro la prima superficie solida che capita sotto il mio sguardo, poco m’importa che si rompa, ma non basta: ho bisogno di scaricare tutta la rabbia e la tensione che ho in corpo. 
Raggiungo l'isola della cucina e con un braccio travolgo tutto ció che vi è riposto sopra, a partire dall'inutile tostapane mai utilizzato.
Le mani di Carlos mi strattonano impedendomi di continuare l'operazione di demolizione che ho iniziato e ho tutta l'intenzione di portare a termine. «Fermati Worten!»
«Non mettermi le mani addosso!» Sbraito spingendolo lontano da me.
Mi fulmina col suo sguardo espirando forte dal naso «Datti una calmata, amico.» Minaccia.
«Altrimenti?» Sibilo avvicinandomi pericolosamente a lui. Lo sovrasto, sono piú alto di lui, ma non so se avrei la meglio in un corpo a corpo dal momento in cui mi ha raccontato di aver fatto boxe per anni ai tempi delle scuole superiori.
In realtá non vorrei mettergli le mani addosso, eppure i palmi prudono dalla voglia di assestare un bel cazzotto su qualcosa di vivo e magari beccarmene un paio anche io. Ho bisogno di sfogarmi, togliermi di dosso lo schifo di sensazioni che mi stanno travolgendo. Vorrei poter tornare indietro nel tempo a quando tutto procedeva senza intoppi, il mio cuore non era in frantumi per una ragazza ed i miei famigliari non si suicidavano.
La reazione del mio amico determinerá la piega della situazione: potremmo andare a botte come due ragazzini, oppure... non lo so.
Fa un passo indietro passandosi una mano sul volto tirato «È chiaro che non ti è stato detto niente di buono.» Sentenzia guardandomi in faccia serio in volto. «Perchè non vai darti una lavata e ti schiarisci le idee?» Questo mi sorprende. Lo guardo in cagnesco fino al momento in cui capisco che lui è, ed è sempre stato dalla mia parte. Sia quando mi metteva in guardia a proposito di Emily, ed anche ora mentre mi impedisce di distruggere il mio stesso appartamento.
Espiro, accorgendomi solo in questo istante di aver trattenuto il fiato, ed accetto il consiglio. «Forse è meglio.»
«Giá.» Conferma lui.


Cosí mezz'ora dopo riemergo dal getto d'acqua bollente che mi sono lasciato scorrere addosso, cercando di rimuovermi dalla pelle queste sensazioni opprimenti, consapevole che una passata di sapone su una spugna bagnata non avrebbe mai potuto cancellare il dolore di un cuore spezzato e di un lutto famigliare...
Indosso i primi jeans che mi capitano sotto mano insieme ad una t-shirt scelta a caso, diciamo che curare il mio aspetto non rientra nella top ten delle prioritá del momento. Quando torno in salotto Carlos mi fa sventolare sotto il naso un foglio di carta fresco fresco di stampa.
Infastidito me lo levo dalla faccia per strapparglielo di mano «Che roba è?» Domando iniziando a scrutarlo con attenzione, ma proprio nel momento in cui capisco lui risponde:
«La ricevuta di due biglietti solo andata per l'Italia.»





Undici ore di volo dopo atterriamo sul suolo italiano. Perchè parlo al plurale? Beh, era ben chiaro per chi fosse il secondo biglietto acquistato da Carlos. Ha insistito per partire insieme a me, anche a costo di accompagnarmi e poi passare il tempo da solo per godersi i panorami italiani, così ha detto. Non ho avuto la forza di farlo desistere, anche se ciò avrebbe significato spiegargli il motivo che ci stava spingendo a volare fino all'emisfero terrestre opposto al nostro... ma ancora non l’ho fatto.
Si, so che dovrei davvero fargli sapere che una volta arrivati troverà una famiglia in lutto, ma cazzo avete idea di quanto sia difficile, anche solo vagamente, dover riferire a qualcuno che un tuo famigliare si è tolto la vita? Già beh, lo è molto. 
Oltretutto per tutta la durata del viaggio mi sono ammutolito, rinchiuso in un bozzolo isolato in grado solo di autocommiserarsi. Si, esattamente è ció che ho fatto per ore ed ore. Ho voltato lo sguardo verso il finestrino, come Miley Cyrus nel film The last song, ed ho osservato come uno spettatore passivo il panorama che si estendeva sotto di noi, ho infilato un paio di auricolari e ho messo in play l'intera discografia di Passenger. Esatto, come una ragazzina depressa alle prese con le sue crisi ormonali.
Se solo fosse davvero cosí.
Ho pensato e ripensato ricordando i momenti passati con mio cugino, piú un amico che un famigliare. Mi è tornata alla mente quell'estate in cui fu lui a venire in America, per dare uno strappo alle solite abitudini, e a quanto se ne fosse innamorato. Eravamo ubriachi una sera si e l'altra pure, tanto che la maggior parte delle volte non eravamo in grado di fare ritorno a casa, ritrovandoci quindi a dormire nei parchi sparsi qua e la per Manhattan. Oppure quella volta in cui ci siamo ritrovati a fare a botte con tre ragazzi in un bar, perchè a causa della sua pessima mira avevamo colpito uno di loro sulla schiena con una freccetta. Se vi steste chiedendo come ne siamo usciti sappiate che il giorno dopo ci siamo ritrovati parecchi lividi.
Eppure non ci sono state solo questo tipo di avventure con lui; non sono mancati i momenti di serietà in cui ci sbattavamo su un divano e tre piazze con una birretta in mano per parlarci l’un l’altro a cuore aperto, senza preoccuparci di ricevere alcun giudizio.
Un rapporto simile non l’ho ritrovato in nessun altro, nemmeno in Carlos che è la persona che si avvicina di più alla definizione di amico. Ma quand’è successo che abbiamo smesso di tenerci in contatto? Dev’essere successo quando ho iniziato a lavorare per la Blake, non ho più avuto tempo libero e... Si, come no, sono tutte scuse, solo scuse. E dire che non riesco nemmeno a ricordare la nostra ultima conversazione...


Vuoto il sacco con Carlos solo una volta scesi dal taxy ed arrivati davanti a casa di mia madre.
«Merda, mi dispiace amico. Se me l'avessi detto prima-»
«Non sarebbe cambiato niente.» Lo interrompo con voce atona imboccando il vialetto che porta al campanello della casetta bianca che sto osservando. Non sono mai stato qui. 
Dopo aver vissuto per piú di vent'anni in America, dopo la morte di mio padre, mia madre ha deciso di far ritorno a Torino, quella che è stata la sua cittá natale. Quando cinque anni fa mi ha spiegato di volersi trasferire sono stato ben felice di appoggiarla, sapevo che mi sarebbe mancata, come sapevo che era giusto che si ricongiungesse con le sue origini. È stato più difficile però convincerla del fatto che io non me ne sarei andato da Manhattan e che sarei stato bene, che a ventidue anni ormai ero un adulto e che non avrebbe dovuto rinunciare al suo benessere per causa mia.
Una donna dai capelli castani legati in una crocchia disordinata con addosso un maglioncino rosa antico apre la porta d’ingresso. Ha gli occhi azzurri gonfi e spenti, tant’è che il loro colore solitamente così brillante ora si sfuma in sfaccettature di grigio. Eppure si riaccendono di vita quando si rende effettivamente conto di chi c’è davanti a lei in questo istante.
«Duke!» Esclama mia madre con la sorpresa nella voce avvolgendomi immediatamente in un vigoroso abbraccio degno di una mamma che non vede il figlio da troppo tempo. «Oh, mio piccolo Duke!»
Sorrido ricambiando ed accarezzandole la schiena «Mamma, non sono più tanto piccolo.» Le stampo un bacio sulla fronte, prima di lasciarla indietreggiare per farmi poi scannerizzare dalla testa ai piedi, come ai vecchi tempi.
Si asciuga una lacrima prima che le possa scorrere lungo il viso «Lo vedo, lo vedo! Sei cresciuto così tanto.» Mi stringe di nuovo tra le sue braccia, questa volta quasi a voler constatare che io sia davvero li e non sia frutto della sua immaginazione, poi inizia l’interrogatorio: «Ma quando sei partito? Perché non mi ha chiamata? È così tardi, sei stato fortunato ad avermi trovata ancora sveglia!» Mi da una leggera manata di rimprovero su una spalla, ma prima ancora che abbia modo di risponderle il suo sguardo cade sul ragazzo in disparte alle mie spalle, catturando la sua attenzione «E lui chi è, il tuo ragazzo?» Sgrano gli occhi voltandomi verso Carlos che, non avendo capito una parola di italiano, è ignaro di tutto.
«No! Mamma ma che-» Mi passo una mano tra i capelli chiudendo gli occhi, scuotendo la testa «No, mamma: è un mio collega. Lo stesso che ha risposto al telefono quando mi hai cercato in ufficio.» Le spiego «Ha insistito per volermi accompagnare, quindi eccolo qui.»
«Oh.» Risponde mia madre con aria imbarazzata per la gaffe appena fatta, ma quando posa lo sguardo su Carlos i suoi occhi si velano di dolcezza e gratitudine. Gli si avvicina porgendo la mano e, con un inglese eccellente, si presenta.
Lui ricambia in modo serio e composto «Piacere di conoscerla, signora. Io sono Carlos.» In tutta risposta mia madre lo trapassa con un’occhiata di rimprovero.
«Chiamami solo Patrizia, o Patti. Ci pensa già Duke a farmi sentire vecchia.» Il mio amico ridacchia ed annuisce. 
Mia madre ci invita ad entrare offrendosi di prepararci una tazza di caffè, ma quando ci accomodiamo sugli sgabelli in legno del tavolo della cucina cade un silenzio imbarazzato, finchè non apro bocca per porre quella domanda a cui tutti stanno pensando, ma che nessuno vuole domandare.
«Come sta la zia?» Mia madre inspira chiudendo gli occhi ed ecco che l’aria intorno a noi si fa tesa. Quando li riapre leggo il dolore nelle striature delle sue iridi azzurre. Curva le sopracciglia sotto il peso della tristezza, la voce trema mentre tira su col naso.
«È a pezzi, è stata lei a trovarlo.» E in seguito non c’è molto da aggiungere: ci spiega della lettera lasciata da Giacomo sulla sua scrivania in cui spiegava i motivi per cui ha fatto ciò che ha fatto. In pochi minuti mia madre scoppia in lacrime, piange ininterrottamente per l’assenza ed il vuoto lasciato da mio cugino. So quanto male le faccia, perché se per me lui era come un fratello, per lei era come un secondo figlio. La stringo forte tra le mie braccia mentre Carlos si dispiace.
Restiamo in silenzio l’uno stretto all’altra, finchè non si calma. Infine esausta ci propone di andare a letto, sono le due di notte, ormai e data la notizia ricevuta questa mattina ha davvero bisogno di dormire… Ci mostra le nostre stanze, dopodichè ci augura una buona notte.
Saluto anche il mio amico e chiudendo la porta alle mie spalle vado a sedermi sul letto. Li, nel buio e nella solitudine della notte, le mie barriere cedono: lascio che le lacrime spezzino la mia immagine da maschio alfa, non ho bisogno del mio orgoglio. Piango, sopraffatto dagli eventi dell’ultimo periodo; piango per Emily che, come un’ombra, aleggia intorno al mio cuore lo opprime facendomi sentire vulnerabile, esposto. 
Piango per mio cugino, un ragazzo così pieno di forze ed energie, eppure infelice ed insoddisfatto e che ora non rivedrò mai più. Questa consapevolezza mi attanaglia lo stomaco causandomi una fitta di dolore, mi arpiona i polmoni togliendomi il respiro e mi si’impianta nella mente, facendomi rivivere ogni istante vissuto insieme a lui ed ogni momento perduto a causa della nostra distanza, facendomi cadere nel girone del rimpianto. 
Piango avvolto nell’oscurità fino a che la stanchezza degli eventi non mi strema e mi addormento.


 

Sono passati due giorni da quando sono arrivato in Italia ed oggi è il giorno del funerale.
In questo periodo il tempo pare non voler scorrere mai, procede con estrema lentezza espandendo ad ore ogni secondo, prendendosi gioco di me.
Indosso la mia giacca nera, la mia camicia ed i miei pantaloni dello stesso colore e, mentre il prete recita la sua messa e consiglia a mia zia di  cercare conforto parlando con la Madonna, tengo lo sguardo fisso sulla bara al centro della navata, con un grande mazzo di calle bianche posato sulla superficie liscia e lucida in legno bianco.
Se non siete mai stati ad un funerale mi auguro continuiate così e che non dobbiate mai vivere un’esperienza simile. Io sono stato sfortunato e mi è toccata: prima con mio padre ed ora con mio cugino. È una situazione a cui non ci si abitua mai e a cui non ci può abituare. Non immaginereste mai quanto dolore possa suscitare l’assenza di una persona una volta persa per sempre; tutti i famigliari ed i conoscenti, tutti coloro che l’amavano uniti in un solo luogo, in una piccola chiesetta di paese a piangere fiumi di lacrime, avvolti nel dolore.
Ti distrugge vedere tanta sofferenza in un unico punto in funzione ad una sola persona, una persona sentitasi inadatta al contesto in cui viveva, che soffriva tanto da non riuscire a trovare conforto in nessun modo, se non nella morte.
Perché tutti coloro che lo stanno pregando ora non hanno capito ciò che avesse in mente? Perché nessuno si è accorto che l’abbandono della sua fidanzata fosse stato più distruttivo di quanto volesse realmente far apparire? Sono queste le domande che mi affollano la mente mentre io ed altre tre persone ci carichiamo sulle spalle il peso della bara; scuri in volto accompagniamo il corpo di mio cugino nel carro funebre che lo attende e dietro di noi le persone camminano con passo traballante, singhiozzando, trattenendo gemiti strozzati.
Una volta posata accarezzo la bara in legno chiaro e mi domando ancora una volta se qualcuno sarebbe mai stato in grado di salvarlo. Non riesco a credere che sia vero, non posso credere che ci sia lui qui dentro.
Stringo forte gli occhi prima di dire definitivamente addio a Giacomo.
Mentre la folla di persone che lo conoscevano ed amavano consolano, abbracciano e danno le condoglianze a mia zia, lei sorride; sorride facendosi forza e non cedere al dolore. Ammiro quella donna, capace di non farsi schiacciare dal peso della morte del figlio, mostrando gli artigli e restando in piedi.
Il carro funebre nel frattempo si allontana, diretto verso l’ospedale in cui il suo corpo verrà cremato.­



È ormai sera e mi ritrovo seduto sulla panca in legno al centro del balcone fuori dalla quella stanza a casa di mia madre che al momento chiamo come mia. Scruto l’orizzonte: abita in una zona perlopiú agricola, quindi non mi stupisco se davanti a me, ed oltre ancora, si estendono chilometri interi di campi coltivati. Non ci sono lampioni. Nessuna luce oltre quella della luna, che è fioca e semi nascosta dalle nuvole. 

Osservo comunque il cielo, perchè a Manhattan non ne ho mai la possibilitá; tutti quei grattacieli, quelle strutture dall'architettura raffinata e ben studiata in modo da risultare appositamente fredde ed eleganti impediscono alle persone di alzare gli occhi al cielo e lasciarsi trasportare dalla sua immensitá, o di lasciarsi consolare dalla sua oscuritá.
Mi perdo in me stesso, nei miei pensieri, e non mi riconosco più. Vogliamo fare di nuovo insieme l’epilogo della situazione? La mia vita si è stravolta nel giro di un mese e mezzo; da quando Emily ha fatto capolino nella mia vita finendo col muso contro la porta da cui stavo uscendo. Ironia della sorte: poco prima di uscire da quel bagno angusto e lurido, quella sera, avevo spezzato il cuore di una delle tante ragazze ossessionate da me. Ricordo di aver esplicitamente detto, scandendo ogni parola, che non avrei mai e poi mai voluto avere una relazione, men che meno con lei e poi? Poi incontro una ragazza bassina dai lunghi capelli bruni, il sorriso più dolce e gli occhi più verdi che io abbia mai visto. Quella sera la sua bellezza mi aveva colpito, ma solo l’indomani, durante la pausa la pranzo del lunedì seguente, mi sarebbe rimasta impressa nella mente. Con quel suo carattere frizzante e la sua escandescenza ha fatto poco a poco breccia in me.
Insomma ragazzi, sono rimasto fottuto. Tant’è che ora, contro ogni mia aspettativa, mi ritrovo qui, a desiderare che lei sia con me per consolarmi con le sue carezze, che invece sono solo il ricordo di una notte annegata nell’alcol.

«Amico, se quella non la bevi è birra sprecata.» La voce di Carlos mi sorprende alle spalle. Si riferisce alla birra che tengo in mano.

«Fa davvero schifo, non sarebbe grave.» Gli porgo la bottiglia e lui l’accetta. Ne prende un lungo sorso e quando la manda giù fa una faccia schifata.
«Cazzo, è disgustosa!»
«Te l’avevo detto.»
«Perché diavolo l’hai aperta?»
«La bevevo con mio cugino, quando volevamo ubriacarci.» Sorrido al ricordo «Le birre di marca costavano per le nostre tasche, così compravamo quelle sottomarca.» Agitopiano la bottiglia sotto il naso del mio amico facendolo indietreggiare con orrore «Trentanove centesimi di birra infernale.»
«Beh, un affarone!» Esclama Carlos ironico scuotendo la testa con fare di dissenso.
«Puoi dirlo forte.» Rispondo io, dopodichè rivolgiamo entrambi l’attenzione al buio d’innanzi a noi.
Passa qualche minuto prima che lui torni a parlare «Quando hai intenzione di tornare?» Mi domanda. Già, quando? Me lo sono chiesto anche io, ma domanda ancora più importante: voglio tornare? Sono giorni che ci penso, in fin dei conti li non c’è nulla che non possa avere anche qui. Emily ha scelto di stare con il suo ragazzo ed io devo smettere di pensare a lei, cosa c’è di meglio che cambiare nazione?
Soppeso attentamente l’alternativa prima di concretizzarla rivelando le mie intenzioni a Carlos, poi sgancio la bomba «Penso che rimarrò qui.» Come mi aspettavo lui volta la testa di scatto guardandomi con gli occhi sgranati e l’espressione tra il sorpreso e l’inorridito.
«Come sarebbe a dire?! E il tuo lavoro?» Scuoto la testa, non penso riuscirà a farmi desistere.
«Non è nulla che non possa trovare anche in Italia.» Il silenzio ci avvolge di nuovo.
«Ed Emily?» Il mio cuore, all’udire quel nome, manca un battito. Non ero preparato a focalizzare la sua immagine nella mente, compare all’improvviso come uno schiaffo sul viso.
Alzo gli occhi verso il cielo «È come hai detto tu: scelgono sempre il fidanzato.» Mi porto la bottiglia di birra alla bocca e ne ingoio un lungo sorso. Fa schifo, ma almeno ha un grado alcolemico alto, me ne frego del sapore schifoso.
Carlos sospira prima di piegarsi in avanti e posare gli avambracci sulle ginocchia «È una balla, amico.» Mi volto a guardarlo sorpreso e confuso, poi continua a parlare rispondendo a quella domanda che non ho dovuto nemmeno porgergli: Di che diavolo stai parlando? «Quattro mesi fa, quando arrivai alla Blake mi ero appena trasferito da Nashville, in cui vivevo con la mia ragazza.» Mi basta quest’informazione per riuscire a collegare i pezzi del puzzle e farmi un’idea approssimativa di ciò che sta per dire, ma lascio che continui a raccontare. «Ci saremmo dovuti sposare il mese scorso, ma scoprii che mi tradiva da tempo con un altro. La perdonai, perché l’amavo e non sopportavo l’idea di vivere senza di lei.» Si risolleva scuotendo la testa, il tono triste, amareggiato, pieno di rancore «Finchè una mattina non mi sveglio e lei mi dice di essere incinta dell’altro ragazzo, con cui non ha mai smesso di vedersi. Aveva scelto lui e non il suo fidanzato, capisci?» Sospira voltandosi verso di me «Se ti ho detto quel che ho detto è stato solo per farti desistere dal distruggere una relazione stabile e duratura, perché so come ci si sente quando qualcun altro si porta via ciò che è sempre stato tuo.» Le sue parole sono un pugno nello stomaco. Non che non fossi già cosciente delle mie azioni, è che farselo rinfacciare non è tanto piacevole quanto mangiarsi una fetta di torta.
«Questa volta la mia intrusione non ha distrutto nulla: lei è tornata da lui, dopo averle detto che l’amo.»
«Mi dispiace, amico.» Non rispondo, limitandomi ad ingollare un nuovo lungo sorso di birra. «Io sono fuggito, incapace di affrontare la situazione, ma non essere impulsivo come lo sono stato io.»
«Perché non dovrei?»
«Perché la tua vita è a Manhattan.»
«La mia famiglia è qui.»
Carlos sospira, ma non si arrende «Prenditi tempo e riflettici, Worten. Tra due giorni c’è la serata di beneficenza dell’uomo per cui hai lavorato con Emily, no?» Annuisco. «Bene, andiamoci. Porta a termine ciò che hai concluso e solo allora prendi la tua decisione.» E come un tarlo che sguscia nel legno, la proposta del mio persuasivo amico si insinua nella mia mente. Prendo in considerazione l’idea.
«Ci sarà anche lei.»
«Ci sarà anche lei.» Conferma lui. Mi prende la bottiglia tra le mani, beve, ma prima di ingoiarla si affaccia al balcone sputando la birra che aveva in bocca «Cazzo, Duke! Questa roba fa troppo schifo!»

 

È di nuovo mattina, è un nuovo giorno ed io e Carlos siamo in aeroporto insieme a mia madre, che si è offerta di accompagnarci con la sua auto. Hanno appena chiamato il nostro volo, quindi lui la saluta per primo, così da lasciarci soli.
«Ciao mamma.» Apro le braccia per avvolgerla in un abbraccio. Non stavamo così a stretto contatto da quando ero bambino.
«Ciao piccolo mio.» Sorrido alzando gli occhi al cielo prima di allontanarmi da lei «Torna presto a trovarmi.» E vorrei risponderle che se fosse per me nemmeno me ne andrei, ma desisto limitandomi a prometterle che lo farò. Raccolgo il mio borsone da terra e le stampo un bacio sulla guancia, poi mi sorprende sussurrandomi: «La conquisterai.»
Inarco un sopracciglio, confuso «E tu come-»
Mi interrompe sorridendo «Sono tua madre, ti conosco. Inoltre so riconoscere i sospiri di un ragazzo innamorato.» Sorrido anche io Se fosse solo questo..
Carlos chiama il mio nome in lontananza «Forza mammone, o finiremo per perdere il volo!» Mi volto verso di lui facendogli il dito medio, beccandomi così facendo un rimprovero.
«Ciao mamma.»
«Ciao tesoro, chiamami.»



 

R I E C C O M I

Scusate se ho impiegato la bellezza di un mese per questo capitolo, ma diciamo che è stato un periodo piuttosto nero.
Vi chiedo infinitamente mille volte scusa, ma ho lavorato sodo per stendere questo capitolo nel miglior modo possibile! E' stata dura, ma ce l'ho fatta.
Spero di farmi perdonare compensando con la lunghezza infinita dell'aggiornamento (ben nove pagine di word!).

Detto questo: eccoci qui, al penultimo capitolo. Come vi sentite? Come pensate che finirà per i nostri due cari amici?
Voglio sapere tutto in un commento, o in un messaggio! Fatevi sentire!

Mi auguro di riuscire ad aggiornare prima di un mese, senza farvi aspettare nuovamente così a lungo!
Nel frattempo vi auguro buona pasqua, spero di tornare presto!
Un bacione,
KamiKumi

   
 
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