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Autore: JacquelineKeller01    20/04/2017    3 recensioni
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Lea ha diciassette anni quando torna nella sua città natale in seguito ad alcuni problemi familiari. Tutto ciò che vuole, dopo un anno intero passato a guardarsi le spalle, è recuperare il rapporto con suo padre e un po' di sano relax. Ma sin da subito il destino sembra prendere un'altra piega.
Isaac è l'essere più irritante che Lea abbia mai incontrato nella sua vita, con quella sua arroganza e i repentini cambiamenti di umore, porterà novità e scompiglio nella vita della giovane.
Tra un rapporto che fatica ad instaurarsi, vecchie ferite non ancora del tutto sanate ed un patrigno che sembra darle la caccia, Lea si ritroverà ad affrontare sentimenti che non sapeva essere in grado di provare, specialmente non per uno come Isaac Hall.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Lea fece appena in tempo a rietntrare in casa prima di ritrovarsi piegata sul water a vomitare.
Era sconvolta.
La malattia di suo padre era stata come un fulmine a ciel sereno, o almeno lo era stato per lei.
Improvvisamente tutti i tasselli di quel terribile mosaico stavano tornando al loro posto; la costante pallidità e spossatezza di suo padre, gli edemi sul viso e sulle braccia sempre più frequenti, la pedita di peso...
Vomitò di nuovo, vomitò fin quando, all'interno del suo corpo non rimasero che i succhi gastrici.
Scivolò di lato, aggiustandosi a sedere, prima di tirare lo scarico.
Aveva dolore dappertutto, ma non era un dolore fisico; era come se qualcosa dentro di lei si fosse spezzato e le provocasse delle enormi fitte, talmente forti da intontirla, da renderla incapace di capirne il punto d'origine.
Nascose il viso tra le ginocchia, permettendolo, alle lacrime che aveva respinto fin ora, di scendere.
Marìa Elèna aveva capito da subito che qualcosa non andava.
Lea non si era mai comportata così; sebbene fosse chiaro a tutti che la sua presenza non le andasse poi così tanto a genio, si era sempre premurata di dimostrarsi gentile e disponibile, era quindi estremamente strano che passasse come una furia, senza neanche fermarsi a salutare. Che involontariamente le avesse fatto qualcosa che non le era andato a genio?
Le bastò dare un veloce sguardo alla posta, gettata alla rinfusa sul tavolinetto da fumo in salotto, per capire quale fosse in realtà il vero problema.
Chiuse gli occhi, scuotendo il capo.
Sapeva bene che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma aveva sempre immaginato se ne sarebbe occupato Peter. 
Sospirò mestamente, bussando alla porta ed affacciandosi subito dopo. 

«Possiamo parlare?» Domandò la donna, chiudendosi la porta alle spalle.
Lea tirò su con il naso, cercando di contenere i singhiozzi. Per qualche strano motivo non voleva mostrarsi debole e sofferente davanti a lei. «Vattene, voglio stare da sola.»
«Mi spiace, ma questo non posso farlo.» Replicò l'altra, prendendo posto accanto alla giovane. La puzza di vomito sembrava aver impregnato anche i muri, ma non era esattamente quello il momento di lamentarsi. «So che in questo momento ti senti a pezzi, ma restare sola... chiudersi a riccio non è la soluzione!»
La ragazza alzò il capo, rivolgendo alla donna uno sguardo fulminante. «Ti sbagli!» Esclamò con una freddezza glaciale. «Non hai idea di come mi sento. Non è tuo padre che sta morendo.»
«Ma è mio marito.»
«Non fingere che non aspettassi altro.»
Lo schiaffò che le colpì in pieno la guacia la fece saltare bruscamente all'indietro. 
Lea si portò una mano al viso, sentendo la pelle arrossarsi sotto le sue dita. Gli occhi sgranati e la bocca spalancata erano puntati contro il viso della matrigna che, adesso, aveva perso tutta la dolcezza che aveva pochi istanti prima. 
«Non mancarmi di rispetto, Signorina, non sono una tua amica.» Tuonò la donna. «Non hai idea di chi io sia o di cosa ci sia tra me e tuo padre, sei solo una ragazzina arrabbiata che si diverte a sputare sentenze.»

Dal trasferimento non avevano mai passato troppo tempo insieme, la giovane non aveva mai voluto, ma era sicura di non aver mai visto la matrigna arrabbiata, nemmeno quando Carmensa superava il limite della sopportazione.
Abbassò il capo, sentendosi colpita sul vivo.
Era vero, non la conosceva e non conosceva le basi della relazione tra lei e suo padre, aveva semplicemente costruito delle teorie su fondamenta che non stavano neanche in piedi.
Il senso di colpa la invase.

«Spiegamelo, allora.» Mormorò piano, evitando di incrociare il suo sguardo.
«Aiuterebbe a riscattare l'immagine che hai di me?»
«Forse.»
Marìa Elèna fissò la giovane ancora qualche istante. Era sul procinto di scusarsi, ma non lo fece. Anche se non lo avrebbe ammesso, le parole della ragazza l'avevano ferita, profondamente. Ci teneva davvero a mettere su una famiglia ad essere felice, ma come poteva farlo se chiunque dubitava dei suoi sentimenti? 

Si umettò le labbra, prese un profondo respiro, poi parlò.
«Ho conosciuto tuo padre i primi di Marzo poiché il postino continuava a recapitare la vostra posta a casa mia.
Per i primi due mesi le nostre interazioni si sono limitate a questo e qualche caffé quando ci incontravamo in giro per la città, niente di più. Poi una sera ha bussato alla porta di casa mia con un mazzo di fiori e una bottiglia di vino. Stava per rivedere sua figlia per la prima volta in quasi dieci anni. Voleva festeggiare ma non voleva farlo da solo.
Non ho idea di come abbia fatto ad innamorarmi di lui, ma è successo. Un mattino mi sono svegliata e mi sono resa conto che non ero mai stata così felice di ricevere bollette che non erano mie.
Ho vissuto con lui uno dei periodi più belli della mia vita e quando, a fine agosto, mi ha regalato quest'anello, ho camminato ad un metro da terra per giorni.
Qualche settimana dopo è venuto da me, aveva addosso un bel vestito ed un sorriso radioso, ma era strano, non era il mio Peter. Mi ha presa per mano e mi ha detto: ''Sposiamoci, oggi, io e te. Creiamo insieme la nostra famiglia''. Quando mi ha rivelato della malattia, qualche istante dopo, ho rifiutato. Gli dissi di chiedermelo quando sarebbe guarito, per il momento avrebbe dovuto accontentarsi della mia presenza come fidanzata. Volevo che avesse qualcosa in più per cui lottare, che lo costringesse ad attaccarsi alla vita con le unghie e con i denti, ma lui mi ha risposto che non me lo stava chiedendo per me o per se stesso, ma per qualcuno di ancora più importante...»

Aveva ascoltato il racconto in silenzio, assorta, e adesso si ritrovava con la gola secca. «Chi?» Mormorò, asciugando con il palmo alcune lacrime.
«Per te.» Concluse la donna.
Lea chiuse gli occhi, sbattendo il capo contro il muro alle sue spalle. Adesso tornava tutto, si sentiva così tremendamente stupida.
«Lo ha fatto perché non dovessi tornare a New York.» Sussurrò, portandosi le mani al viso. «Ho diciotto anni. Posso scegliere con quale dei miei genitori preferisco restare. Se lui fosse morto, lasciando ad Harpool Bay un tutore riconosciuto dalla legge sarei potuta restare ugualmente. Dio che deficente.»
Marìa Elèna annuì semplicemente, le sembrava stupido replicare altro.
Si alzò in piedi, diretta alla porta.
La ragazza adesso aveva solamente bisogno di fermarsi a pensare. Aveva scoperto fin troppi altarini per la giornata, poteva immaginare quanto ciò la rendesse esausta.
Sorprendentemente fu la voce di Lea a bloccarla sulla soglia.
«Pensi che potrai mai perdonarmi? Per come ti ha trattata e per quello che ho detto...»
La donna sorrise piano, restando di spalle. «Sono una mamma...» Mormorò. «...Ti ho già perdonata.»


Per i giorni succesivi, la giovane uscì dalla sua stanza solo per raggiugere il bagno.
Marìa Elèna le aveva permesso di restare a casa da scuola, giustificando la cosa con suo padre come una terribile influenza. Per quanto riguardava l'uomo non gli parlava dal giorno in cui aveva scoperto della sua malattia. Non se la sentiva di affrontarlo, non ancora. Se lo avesse fatto l'avrebbe reso reale e Lea voleva sperare, ancora per un po', che si trattasse solo di un brutto sogno.
Aveva ignorato anche tutti i suoi amici. 
Aveva smesso di rispondere ai messaggi e alle chiamate di tutti, limitandosi a starsene seduta sul letto, in posizione fetale, mentre le tapparelle abbassate le evitavano qualsiasi interazione con il mondo.
Dentro di se, non provava che odio.
Odio per suo padre che aveva deciso di escluderla, per se stessa che non era capace di reagire davanti ad un ostacolo tanto grande e odio per la vita che non faceva altro che metterla davanti a sfide sempre più grandi di lei.
Il cellulare sul comodino prese ad intonare le note di ''Where is the love'', svegliandola dal suo sonno.
Non aveva fatto altro per tutta la settimana...
Con un sospiro, allungò svogliatamente la mano fuori dalle coperte, afferrando il telefono. Sullo schermo spiccava una sua foto sulla spalle di Isaac, sorridevano entrambi e Lea si ritrovò a pensare che, al momento, quei giorni le sembravano così lontani.
Bloccò lo schermo, mettendo fine alla chiamata.
Erano le tre del mattino, anche se fosse stata una nottata normale non gli avrebbe risposto. Si voltò dall'altro lato, dando le spalle alla finestra.
«Lea Marie Wilson smettila di ignorare le mie chiamate, so che non sei morta.» Tuonò a gran voce il ragazzo.
Lea sobbalzò pericolosamente, portandosi una mano al petto. Prima o poi le sarebbe venuto un infarto, se lo aspettava. «Vattene via e non urlare, solo perché tu soffri di insonnia non significa che agli altri non preferiscano dormire.»
«Non avrei urlato se non avessi rifiutato tutte le mie chiamate.»
«Ti è venuto in mente che magari non avevo voglia di sentirti?»
«Impossibile! Chi non ha voglia di sentirmi?»
«Io!» Brontolò Lea. «Adesso vattene.»
L'unica persona che voleva realmente vedere era suo fratello, ma lui, per quanto avrebbe voluto, le aveva espressamente detto che, almeno per il momento, non poteva assentarsi dal lavoro ma che sarebbe tornato in città il prima possibile.
«Mi spiace ma questo non posso farlo.»
Lea si alzò dal letto come una furia ed alzò le tapparelle solo per il gusto di spintonarlo all'indietro.
Era furiosa e non perché l'avesse svegliata a quell'ora o per qualsiasi altra cosa, ma perché la situazione era stancante e stressante. 
«Perché non potete nessuno?» Domandò, spingerlo nuovamente. «Perché nessuno mi lascia mai sola? Marìa Elèna, mio padre, Carmensa, Red, Nina e adesso tu. Che cosa diavolo volete tutti quanti da me?»
Isaac la fissò intensamente, riconoscendo in lei parte della rabbia che aveva caratterizzato il periodo più buio della sua vita.
«Vogliamo farti stare meglio!»
«Io non voglio stare meglio, voglio solo stare sola.»
«Stare sola non migliorerà le cose...» Sussurrò.
Quella situazione rendeva l'aggressività del tutto normale ma non era qualcosa che voleva vedere in Lea. Quelle sensazioni potevano portarti alla deriva e tornare indietro era impossibile.
«Perché sembrate capire la situazione tutti meglio di me? Continuate a ripetere che stare sola non mi aiuterà, ma cos'altro dovrei fare? Uscire, fingere che vada tutto bene, tornare a casa e continuare a fingere che questa storia non mi stia provocando un'ulcera?»
«Anche restare chiusa nella tua stanza a piangerti addosso ti provocherà un'ulcera.»
«Allora cosa vuoi che faccia?» Domandò, sbattendo i pugni contro il suo petto. Voleva piangere, ma aveva pianto talmente tanto nelle ultime settimane da non avere più lacrime. «Dimmelo tu, perché, sinceramente, io non lo so. Non riesco a vedere una via d'uscita.»
Le braccia del ragazzo si strinsero attorno alle sue spalle, spingendola contro il suo torace. 
Starsene tra le sue braccia aveva un qualcosa di estremamente rassicurante, ma non era comunque abbastanza. 
Aveva paura di perdere suo padre, di doversi svegliare al mattino e rendersi conto che lui non ci sarebbe più stato. 
Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi, tentando di calmare il battito del suo cuore e l'andamento ansante del suo respiro.
Odiava urlargli contro, ma farlo era anche l'unico modo che aveva per riuscire ad aprirsi del tutto con lui. Era come se non fosse capace di essere del tutto sincera con lui, se non quando litigavano.
«Dovresti smettere di pensarci.» Sussurrò il ragazzo al suo orecchio, lasciandole poi un tenero bacio sulla tempia.
«Come posso farlo? E' costantemente al centro dei miei pensieri.»
«Fatti una doccia e raggiungimi di sotto. Stanotte ho intenzione di insegnarti a smettere di pensare.»
   
 
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