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Autore: John Hancock    21/04/2017    0 recensioni
Nel 2039 una potente setta religiosa, il Sacro Ordine, conquista il mondo sottomettendo tutte le Regioni al suo volere. Tre anni dopo scoppia la rivolta, che vede a capo il Quartiere 16 di Astoria, uno dei ghetti più discriminati della capitale di Sinnoh. Capitanati da un ex poliziotto ormai stanco della situazione in cui viveva la sua gente, i rivoltosi inizieranno a lottare per la loro libertà, braccati dai Sacerdoti.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blue, Gold, Green, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Manga, Videogioco
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“I Bastiodon Ubriachi"
 
Il Sole di mezzogiorno splendeva forte sulle teste della gente di New Hope; i suoi raggi colpivano perpendicolarmente il terreno, così donando un flusso continuo di calore, nella frescura di fine Marzo.
Kyle era, ovviamente, del tutto spaesato fra le varie case e costruzioni in legno, cemento o pietra, disseminate per la grande valle. Cole si muoveva con disinvoltura nella piccola cittadina, riconoscendo vie che a Kyle parevano tutte identiche fra loro. Mentre si districavano nel sempre più complesso labirinto di costruzioni, Cole veniva inondato da decine di persone, intente a salutarlo o a ringraziarsi con lui per averle salvate in passato.
- Sono passati anni da quando magari ho assaltato la loro carovana di schiavi, liberandoli, e ancora mi ringraziano. È più difficile farli smettere che combattere a mani nude contro di un Garchomp infuriato, credimi.
Cole salutò l’ennesimo uomo che, agli occhi di Kyle, era apparso come uno dei fabbri o qualcosa di simile. Portava un enorme martello sulla spalla, mantenendone il manico con la mano destra, mentre la sinistra era impegnata a portare un grosso contenitore pieno di ferraglie che cozzavano e facevano un rumore assordante, ovunque l’uomo andasse.
Voltarono l’angolo, dirigendosi adesso verso la parte bassa della valle; l’erba sotto le scarpe restava sempre soffice e fresca, passo dopo passo, seguendo il dolce declivio della terra.
- Lui si fa chiamare Siegfrid, è uno dei nostri fabbri più forti e intelligenti, è lui che ha progettato quella strada sospesa. È una specie di genio, però è anche molto scorbutico, e se non gli si parla con calma e delicatezza, diventa mezzo matto – Cole strinse leggermente le labbra, pronunciando le parole seguenti – È così da quando gli hanno ucciso moglie e figli.
- Qui non c’è nessuno che non abbia perso qualcuno…
- Beh, quasi nessuno, Kyle. Negli ultimi due anni ci siamo stabiliti qui, senza più spostamenti improvvisi, ormai è casa nostra. E dove c’è una casa sicura, ci sono bambini che nascono e crescono. Piano piano, stiamo riportando in vita la civiltà, dritti verso il futuro.
Cole si fermò davanti ad una porta di legno finemente lavorata su cui, leggendo dall’alto in basso, da sinistra a destra, si potevano vedere piccole incisioni raffiguranti una lotta fra due Bastiodon, palesemente ubriachi. Per l’appunto, l’insegna recitava “I Bastiodon Ubriachi” con una grafia che a Kyle ricordò quella utilizzata in alcune parti di un vecchio tomo che lesse da piccolo, intitolato “Il Signore Degli Anelli”. In particolare, li trovò molto simili agli idiomi utilizzati nell’antica lingua utilizzata dagli elfi.
Ricordava di averne amato ogni pagina, anche se molto rovinato quando lo trovò fra le macerie di una vecchia scuola elementare di Rupepoli. Gli balenò davanti agli occhi tutta la storia di Frodo e dell’Anello, e di come lui e i suoi compagni si erano inoltrati fra mille pericoli, pur di salvare la loro terra dall’annientamento. Si rammaricò al pensiero di non averne mai scoperta la fine, in quanto il volume finiva subito dopo l’ingresso di Sam e Frodo all’interno di Mordor, dove viveva l’Oscuro Signore. Aveva sentito Sur vantarsi un paio di volte di conoscere l’intera storia a memoria e di aver conosciuto addirittura il vero scrittore e ideatore del tutto. Non credeva a ognuna di quelle parole, ma Kyle si ripromise di chiedergli almeno il finale della storia, non appena l’avesse rivisto.
La voce familiare di Cole lo scosse dai suoi pensieri, profonda e potente come sempre. Lo sentì borbottare fra sé e sé, maledicendo la porta arrugginita sui cardini, per poi riprendere il discorso di pochi istanti prima.
- Ma adesso, pensiamo al presente. E a mangiare qualcosa, sto morendo di fame – spinse la porta verso l’interno.
Quest’ultima si aprì cigolando e gemendo, come se fosse stata costretta a eseguire uno sforzo sopra le sue possibilità.
Kyle, entrando, pensò che avesse bisogno di un po’ d’olio, per lubrificare le giunture e renderle più scorrevoli. Ma un successivo sguardo all’interno della struttura, dopo che gli occhi si furono abituati alla polvere che saturava l’aria, gli fece capire che lì dentro l’olio sui cardini era l’ultimo dei problemi: c’erano innumerevoli tavoli e sedie in legno, completamente usurati; il parquet era diventato scolorito e scivoloso a causa del continuo passare e spassare dei clienti, le lampade che pendevano dal soffitto erano polverose ed emanavano una flebile luce, lasciate accese nonostante fosse giorno. L’enorme bancone in legno di quercia si trovava al centro della sala, con una forma ottagonale. Su di ogni lato era poggiata una tovaglia dal colore diverso, dal più vivido arancione al più cupo color porpora. All’interno del bancone si trovava una collezione di alcolici ben fornita, le cui bottiglie erano per lo più Gin e Vodka di diverse annate e tipologie. Alcune erano così vecchie e polverose che era impossibile anche solo vederne il liquido all’interno. Un’enorme vetrata nel soffitto, anch’essa di forma ottagonale, era posta esattamente sopra al bancone e, col Sole di mezzogiorno alto nel cielo, lasciava fluire sul legno e il vetro delle bottiglie la luce solare, inondando il bancone ed ergendolo a pilastro indiscusso della sala. La luce che penetrava era poi riflessa in tutto il locale dal vetro posto sulla passerella del bancone, per poi rimbalzare diverse volte fra i vetri e gli specchi posti su pareti varie, creando un gioco di ombre e luci come di un flusso continuo di raggi fluttuanti, percorsi da migliaia e migliaia di acari di polvere che sembravano volare nei più ristretti sprazzi, dove la luce era più intensa.
Mentre Kyle osservava l’ambiente, perso nei suoi pensieri, Cole attraversò di gran passo la stanza, giungendo all’estremo opposto alla porta, dove si trovava anche un piccolo palco dove un vecchio Sax, tirato a lucido e ben tenuto, era dolcemente appoggiato sulla piccola sedia imbottita del pianista, posta di lato a un pianoforte in legno di mogano, con una grossa macchia scura sul lato sinistro del corpo centrale.
Proprio sotto al palco si fermò e, abbassata una sedia dal tavolo posto di fronte agli strumenti, urlò ad alta voce.
- Ehi, Bryan, siamo arrivati!
Kyle rimase immobile pochi attimi. Quasi istantaneamente, una voce provenne da una porta a doppie ante mobili, situata sul lato destro del palco, seguita poi da un grosso sferragliare di pentole e posate, molte delle quali parvero rovinare sul terreno.
Un uomo di bassa statura e tarchiato fece il suo ingresso nel locale, inciampando poco prima della porta a doppia anta e finendo quasi con lo spezzarsi il collo sul pavimento. Si aggrappò a un tavolo lì vicino, tirandosi su lentamente. Si stropicciò i folti capelli ricci e mori, cercando di liberarli dalla farina che li ricopriva completamente. I suoi ricci ricordarono a Kyle delle foto di un cantante Pop vissuto molti anni prima che lui nascesse, un certo Michael Jackson, il cui viso da bambino al momento gli sfuggiva. Ma i suoi capelli li ricordava benissimo, ed erano uguali a quelli del cuoco.
Quest’ultimo starnutì più volte, facendo volare farina ovunque e saltando quasi sul posto. Si sistemò un’ultima volta il grembiule, annuendo soddisfatto una volta che fu sistemato.
Dopodiché guardò Cole dritto negli occhi, sorridendo.
Gli andò contro, pulendosi nel mentre le mani sul suo grosso grembiule blu da cuoco. Kyle intravide un paio di pantaloni mimetici verde militare e una t-shirt grigia che spuntavano dai lati lasciati scoperti dal grembiule, mentre la farina iniziava a turbinare nell’aria attorno al cuoco, avvolgendolo simile a un panno morbido che circonda una pagnotta di pane appena sfornata.
- Cole, che piacere vederti! – Bryan gli strinse energeticamente la mano – È da molto che non ti vedo, la missione è andata bene?
- Certamente, tutto liscio come l’olio. Ho anche trovato un nuovo cadetto per la nostra barriera, stavo proprio andando a consegnarlo al capo. Sai se è in casa?
- Figurati, è nel suo laboratorio come sempre. Come se tu non sapessi che lei non smette mai di inventare e ingegnare. Ma conoscendoti so che non sei passato solo per salutare, non è più come una volta.
- Eh sì, il lavoro chiama, non ho più tempo per un goccio come facevo un tempo, devo restare abbastanza lucido mentre mi occupo delle mie faccende. Appena sarà tutto finito, sicuro rimedierò.
- Sarà meglio per te. Ma, avanti, cos’è che ti porta qui da me?
- Beh, è lui – Cole indicò nella direzione di Kyle – Forza ragazzo, non fare il timido e vieni avanti, c’è un caro amico che devi conoscere.
Kyle si avvicinò ai due, con passi incerti e titubanti. Lanciò un paio di occhiate alle pareti della grande sala da pranzo, notando solo allora diversi quadri appesi in modo apparentemente casuale, molti dei quali erano vecchie e lacere raffigurazioni di Arceus, intento ora a creare, ora a punire chiunque osasse mettere in discussione la sua autorità. Uno fra tanti, quasi completamente consumato da vecchie fiamme, sembrava rappresentare la strana figura lucente che aveva avvistato giorni addietro, nella tenda di Earl.
Non ci diede troppa importanza, ormai era al fianco di Cole e si rese conto di essere già stato presentato a Bryan, che ora stava tendendo verso di lui la sua mano, piena di farina e condimenti vari.
- Piacere di conoscerti, Kyle. Cole ci ha parlato molto di te, non ha smesso un solo istante di pensarti e di tenerti al sicuro, di questo ne puoi essere sicuro – ammiccò, lui.
- Il piacere è mio – Kyle strinse la mano, ritrovandosela tutta appiccicosa e pastosa – Mi scusi se sembravo con la testa da un’altra parte, stavo osservando tutti quei quadri fissati alle pareti e i mobili in generale… Non avevo mai visto qualcosa simile a questo posto.
A quest’affermazione, Bryan parve accendersi: gli occhi gli brillarono e iniziò a non poter più stare fermo sul posto. Con la sua piccola stazza, sembrava una pentola a pressione prossima allo scoppio.
- Oh, maledizione, adesso riparte. Bryan, per l’amor di Arceus.
- Silenzio! – lo interruppe, lui.
- Ti piace davvero qui dentro, Kyle?
- Ehm… sì, molto… - il ragazzo sentì d’improvviso il panico impadronirsi di lui, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato e mortalmente erroneo.
- Bene, molto bene. Se c’è una cosa che rende orgoglioso un cuoco, è un complimento per il suo ristorante. Anche se, purtroppo, abbiamo dei limiti visibili, dato che tutto ciò che vedi qui non fa parte di un unico blocco di arredo. Sai, l’ho dovuto racimolare un po’ qui, un po’ là, girovagando per Sinnoh durante i nostri spostamenti; non ci sono due sedie uguali, purtroppo.
- È proprio questo il bello: il fatto che sia tutto incompleto e del tutto isolato dal resto, lo rende… particolare – Kyle disse quest’ultima parola quasi come un sussurro, cercando di non ferire il cuoco.
- Particolare, tu dici? – Bryan guardò Cole con aria accusatoria, come se avesse appena ricevuto la notizia di dover morire per mano dei Sacerdoti.
Poi, come una pentola a pressione che si dimentica sul fuoco per lungo tempo, esplose. Saltò in aria e raggiunse altezze che Kyle non credeva possibili per un uomo così piccolo e grassoccio.
- Hai sentito, Cole? Al ragazzo piace il mio locale, bisogna festeggiare!
- Calmati, o ti verrà un infarto. Di nuovo – Cole lo bloccò al suolo mantenendolo per la testa, con una sola mano.
- Avete fame? Vi preparo qualcosa?
- Secondo te perché siamo qui, B?
- Perfetto, perfetto – Bryan continuava a muoversi ininterrottamente fra tavoli, sedie e barili e botti di birra, vino e altre bevande.
Non riusciva a stare fermo, sembrava quasi come impazzito.
Kyle quasi urlò quando gli si avvicinò rapidamente, come se volesse infilzarlo con un coltello nascosto nel grembiule.
- Ti piace la parmigiana di melanzane? – chiese lui al ragazzo.
- Ehm… S-sì, l’ho mangiata un paio di volte, me la fece Daisy. Era buona.
- Eccellente torno subito da voi! – Bryan fuggì in cucina, facendo sbattere le ante scorrevoli al suo passaggio.
Cole rise fra sé, scuotendo energeticamente la testa. Spostò una sedia di plastica da sotto al tavolo, per poi sedersi, avendo di faccia il piccolo palco.
Inspirò a fondo e poi liberò i suoi polmoni dall’aria che li facevano espandere fino al loro limite; sembrò godere anche dell’odore di legno che permeava quel posto. Assaporò ogni odore che veniva filtrato all’interno del suo naso.
Chiuse gli occhi per un attimo, stiracchiandosi sulla sedia, per poi slanciare le braccia verso l’alto, protese verso il grande lucernario ottagonale.
- Avanti, siediti pure.
Cole indicò la sedia all’altra estremità della tavola, spostandola con un calcio. Il tavolino era piuttosto piccolo e Cole, per poter stare comodo, era costretto a stendere le gambe ai lati della sedia di Kyle, o avrebbe rischiato di alzare e rovesciare il tavolo con tutto il suo futuro contenuto.
Poco dopo, una giovane cameriera apparve, portando piatti, posate, bicchieri e acqua. Sorrise a Cole, con cui scambiò un paio di parole, prima di scomparire nuovamente in cucina, per aiutare Bryan.
- Allora, ragazzo, appena finito di mangiare ho da farti conoscere una persona. O due, dipende da come si metterà la situazione. Avrei preferito farti conoscere immediatamente la testa che c’è dietro tutto questo, però era troppo tempo che non mangiavi qualcosa di decente e non volevo tu svenissi proprio davanti a lei, non avresti fatto una buona impressione, vero?
- È una lei? Non avevi mai parlato di una donna.
- Ragazza, attento a come parli con lei, o ti ammazza. Seriamente, ho visto volare schiaffi per molto meno e, anche se non sembra, ha una mira infallibile.
Kyle sbiancò in viso, lasciando trasparire il suo disagio.
Cole rise di gusto, guardando l’espressione suscitata in Kyle.
- Accidenti, non credevo che tu cedessi in questo modo. Tranquillo, è gentilissima, basta non farla incazzare. E chiamala “Signorina”, meglio.
- D’accordo – annuì Kyle.
- E, nel peggiore dei casi, falle un complimento alle caviglie e tutto andrà bene.
- Le… caviglie?
- Sì, proprio le caviglie. Non so, dille che le trovi proporzionate e aggrazianti, roba così.
- Perché mai le caviglie, Zio?
- E io che ne so, sono donne. Non puoi capirle; c’è anche una leggenda su questo.
Kyle aggrottò la fronte, curioso. – Una leggenda… sul perché non si possono capire le donne?
- Esatto: un bel giorno, un uomo, grande e stimato inventore e scienziato del suo tempo, decise di voler capire come funzionasse il cervello di una donna. Voleva studiarlo, capirne i meccanismi e come facessero a fare pensieri tanto strani. Passò anni a cercare di decifrarne i linguaggi che sembravano criptati e impossibili da capire. Il pover’uomo si sforzò così tanto di riuscire a capire le donne, che impazzì. Perse il senno e ogni capacità cerebrale. Mosso da follia, la sua stessa pazzia lo trasformò in un qualcosa di nuovo.
- Che cosa? – domandò Kyle, visivamente incuriosito.
- Un Pokémon. I suoi discendenti esistono ancora oggi. Si chiamano Wobbuffet.
- E io che ti credevo pure! – Kyle scoppiò a ridere.
Cole rise a sua volta. Anche Bryan, che stava arrivando in quel momento con le pietanze, iniziò a ridere a gran voce.
- Adesso mangiate, forza. E voglio i vostri pareri non appena finite, chiaro? Per qualsiasi cosa, mi trovate in cucina, se serve qualcosa basta fare un fischio.
Detto questo, Bryan fece dietro front e si infilò nuovamente fra pentole e fuochi.
Kyle, ancora fra le risate, iniziò a mangiare di gran gusto, notando che la parmigiana avesse un sapore delizioso.
Cole prese la forchetta in mano, con la pagnotta di pane nell’altra. Stava per infilzare il primo boccone, quando si fermò di scatto e, diretto verso la cucina, urlò a gran voce.
- Ehi, dove diavolo è la mia Birra!?
 
 
- Hancock
   
 
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