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Autore: Lady1990    22/04/2017    2 recensioni
[Questa storia è il seguito di "Nell", di cui si consiglia la lettura per un'adeguata comprensione.]
Sono trascorsi poco più di vent'anni dalla scomparsa di Ysril. Nell, dopo aver atteso invano il suo ritorno, ha lasciato la valle di Mesil e si è messo sulle sue tracce. In compagnia di Reeven, un improbabile ladro che somiglia in modo inquietante al suo amato demone, e altri compagni, dovrà scoprire cosa è successo a Ysril e salvarlo da una minaccia ancor più grande della guerra che incombe sul mondo intero. E se una strega arriva a complicare le cose, la missione non si profila certo una passeggiata.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nell aveva marciato ininterrottamente per una settimana, prima che la capitale di Dunaster si profilasse all’orizzonte, minacciosa e sinistra, ma non avvertiva traccia di stanchezza. Non aveva mangiato né dormito, o compiuto alcuna sosta, eppure nessun indolenzimento faceva gemere i suoi muscoli. Di questo doveva ringraziare Ysril, altrimenti avrebbe impiegato il doppio o il triplo del tempo. 
Dun’har era esattamente come la ricordava: triste e desolata nonostante fervesse di attività. La prima cosa che saltava all’occhio da lontano era il colore delle mura, nero come la pece, poiché erano fatte con la pietra lavica che si trovava sui monti Lerisa. Erano poi state rinforzate con diaspro rosso e rivestite da una robusta armatura di ferro, che aveva il compito di tenere assieme i blocchi e impedire che si muovessero. Le travi di ferro erano anche un repellente per chi si voleva infiltrare in città: essendo arrotondante nella parte esterna, chiunque avesse provato ad arrampicarsi sarebbe scivolato e ricaduto sulle rocce appuntite come spilli piazzate strategicamente là sotto, morendo trafitto. Il diaspro rosso era piuttosto comune a Dunaster, lo potevi trovare nei monumenti, nei gioielli e persino come pietra ornamentale per le else delle spade. Gli abitanti del luogo credevano che avesse il potere di tenere lontano il male, portare la pioggia e guarire dalla pazzia. Per Nell erano tutte sciocche superstizioni. Tranne che per la pioggia: quella, in effetti, non mancava mai.
Le mura si estendevano a ferro di cavallo davanti ai monti Lerisa per migliaia di braccia, una linea di confine che separava la pianura circostante, vasta, libera e accarezzata dal vento, dall’agglomerato soffocante di case, templi e palazzi rudimentali che sorgevano all’interno. Nell occhieggiò in direzione dell’imponente entrata ad arco posta a sud, dove alcuni soldati sorvegliavano l’ingresso dei contadini che arrivavano dalle campagne con la merce da vendere al mercato. Altre guardie passeggiavano sulla cinta muraria con fare indolente, e ogni tanto si fermavano a chiacchierare senza curarsi del lavoro che in teoria avrebbero dovuto svolgere. 
Il sole era sorto da poco e presto il via vai sarebbe aumentato, permettendogli di sgusciare dentro la città inosservato. Si calò il cappuccio sulla testa e si incamminò confondendosi tra i carri, la borsa coperta dal mantello.
Quella tappa era obbligatoria, purtroppo. Come aveva detto a Qolton, se c’era una minima possibilità che un oggetto potente come l’Occhio di Xion fosse nelle mani del re, doveva accertarsene. Inoltre, la guerra non era più una diceria da taverna, come aveva potuto appurare dai discorsi che aveva origliato mentre aggirava le pattuglie di ronda, accampate nei boschi intorno a Dun’har. L’invasione di Ashra era cominciata, l’esercito di re Sylas era già impegnato a espugnarla da almeno due giorni. Presto anche gli altri regni sarebbero stati coinvolti.
Oltrepassò le sentinelle con facilità e si inoltrò nella strada centrale del mercato, superando bancarelle e persone come un fantasma. Le abitazioni fatiscenti costituivano il panorama preponderante, sebbene qua e là spuntassero opere architettoniche un po’ più lussuose come templi e magioni di ricchi aristocratici, senza però esagerare con le decorazioni.
A differenza di Ferenthyr, che era organizzata a terrazzamenti concentrici ordinati per ceto, con il ghetto alla base e il palazzo reale in cima, Dun’har era più caotica. Non vi erano castelli o ville sfarzose, solo catapecchie o edifici grigi, stretti e alti, che suscitavano claustrofobia al solo guardarli. Il palazzo di re Sylas si stagliava sopra le case per via dell’altezza delle sue torri, ma era situato a nord, in prossimità dei monti Lerisa, e la sua architettura, eccetto per la pesantezza e l’eccessivo rigore, non risaltava granché. Era circondato da un fossato con un ponte levatoio, separato dal resto della città alla stregua di un’isola. Da vicino, appariva come un mostro di granito dai mille occhi e corna affilate, a causa sia dei numerosi accessi protetti da inferriate e spesse grate, sia delle guglie appuntite che svettavano verso il cielo plumbeo come lame. Dalle finestre non si scorgeva neanche la timida fiammella di una candela e la pietra che rivestiva l’edificio nella parte bassa pareva assorbire la luce convertendola in oscurità. Sembrava una prigione, più che il palazzo di un re.
Quella visione trasmise a Nell un brivido di paura, ma lo scacciò. In fondo doveva solo controllare, mica compiere un furto. Non era una sua responsabilità sventare una guerra, né gli premeva mettere a repentaglio la sua vita per i capricci di un sovrano folle come Sylas. Lo scopo era vedere con i propri occhi se l’Occhio fosse veramente là, quindi vagliare le opzioni nel caso fosse stato costretto a ripassare per Dun’har. L’ultima cosa che voleva era ritrovarsi in mezzo al fuoco nemico.
Tagliò per viuzze laterali, percorrendole raso muro a capo chino, dando l’impressione di essere uno del posto, e per prima cosa si diresse verso il tempio centrale. Sapeva che vantava una biblioteca ben fornita, sebbene non quanto quella reale, e lì forse avrebbe reperito qualche informazione più precisa sull’Occhio di Xion e la sua attuale ubicazione. Con un po’ di fortuna, non ci sarebbe stato bisogno di sgattaiolare nel castello.
Costeggiò case e locande che parevano bettole di infimo livello, erano quasi peggio di quelle del ghetto di Ferenthyr. Gatti e cani randagi sostavano nei pressi, nella speranza di racimolare qualche briciola commestibile tra i rifiuti, e stormi di corvi sorvolavano la città disegnando strane forme nel cielo e riempiendo l’aria del loro gracchiare. Gli capitò di incrociare alcuni drappelli di soldati, ma essi non gli badarono e passarono oltre.
Raggiunse il tempio che era quasi mezzodì, tra qualche minuto la campana di ferro sulle mura avrebbe suonato i rintocchi. La cupola di marmo, che un tempo accecava gli sguardi col suo biancore, si innalzava sopra i tetti grigia e rovinata dalle intemperie; le colonne di diaspro rosso erano state sfregiate e vandalizzate, senza che qualcuno si fosse mai preso la briga di restaurarle; i portici piastrellati, in passato decorati con bellissimi affreschi a tema religioso, adesso ospitavano derelitti e mendicanti rivestiti di stracci. Nessuno si soffermava a osservarli, sembravano parte dell’architettura, indegni persino di un sorriso. Nell si avvicinò e gettò una moneta di rame alla donna anziana rannicchiata all’entrata, per poi addentrarsi nel tempio senza nemmeno ascoltare i suoi balbettii di ringraziamento. 
Attraversò il loggiato interno a passo spedito. Le suole degli stivali producevano un ticchettio ritmico e ridondante, che riecheggiava sui muri di pietra lavica e sulle colonne di diaspro. Tutte le stanze e i corridoi erano rischiarati dal fuoco che ardeva notte e dì nei bracieri di ferro, poiché nemmeno durante il giorno si riusciva a vedere più in là di quattro braccia: le pareti, i pavimenti e i soffitti erano di un materiale troppo scuro, catturavano qualsiasi tipo di luce e la rimpiazzavano con ombre ancor più dense. 
I forestieri che visitavano Dun’har la prima volta rimanevano spesso folgorati dalle tenebre che parevano pervadere persino l’aria, grazie anche a quell’abbondanza di rosso e nero. Il sole poi, quando saltuariamente e sempre per brevissimi istanti faceva capolino dalla fitta coltre di nubi perennemente ammassate sopra la capitale, acuiva l’impressione di camminare nell’anticamera dell’Oltremondo. In realtà, era a causa delle correnti calde che provenivano da dietro i monti Lerisa, che si scontravano con quelle fredde dell’entroterra, creando perturbazioni continue. Perciò il sole, quando spuntava, in qualche modo alimentava l’oscurità, invece di scacciarla. 
E poi non li biasimo i cittadini, che hanno sempre quell’espressione da aspirante suicida stampata in faccia.
Cercando di ignorare le sagome sinistre disegnate dalle ombre sulle pareti, imboccò il corridoio che, andando a memoria, lo avrebbe condotto alla biblioteca, aperta al pubblico dall’alba al tramonto per la consultazione dei manoscritti. Alcuni di questi erano conservati dentro delle teche di vetro per proteggerli dall’umidità e serviva un’autorizzazione speciale per leggerli. Nell si augurò di non averne bisogno, perché di certo non avrebbe potuto procurarsi alcun permesso scritto.
Era già stato lì sei anni prima, per consultare un vecchio tomo sull’antica magia rituale. In quell’occasione aveva fatto la conoscenza di un monaco, Hodren, che gli aveva concesso di visionare, tra le altre cose, un bestiario molto raro, recante raffigurazioni di animali mitologici appartenuti al folklore dei popoli del nord, i quali poi avevano fondato Dun’har e le sue province. Nell si era divertito a commentare le varie incisioni con lui e, grazie alle sue spiegazioni, aveva realizzato che molte delle leggende su mostri e simili che circolavano nel regno di Dunaster derivavano dall’avvistamento di demoni. L’anno addietro, durante il suo soggiorno nella città di Carlon, al confine ovest, nella biblioteca di un nobile Nell aveva infatti trovato e sfogliato con attenzione una cronaca dettagliata che riportava ogni singolo avvistamento, con relativa descrizione del demone, datati tutti tra sette e quattro secoli prima. Esattamente il periodo in cui erano nate le leggende e i bestiari. Hodren, probabilmente, ne era all’oscuro, altrimenti avrebbe di sicuro fatto qualche commento; e Nell non aveva detto niente, preferendo tenere la scoperta per sé. Quella ricerca gli era stata utile per avvalorare l’ipotesi che l’ingresso a Lankara si trovasse proprio oltre i monti Lerisa, a nord-est, poiché gli avvistamenti erano avvenuti in quella zona.
Mentre superava l’entrata a doppio arco della biblioteca, sperò di rivedere il suo amico: magari avrebbe potuto dargli una mano a scovare qualsiasi manoscritto che trattasse dell’Occhio di Xion, senza dover perdere ore preziose a esplorare gli scaffali ricolmi di libri dei più disparati argomenti.
La sala di lettura era di forma circolare, con due grandi tavoli rettangolari al centro, panche di legno di quercia ai lati e almeno una decina di bracieri sparsi qua e là. Tre scale a chiocciola erano poste a sud, est e ovest, e conducevano al soppalco, allestito con alte file di scaffali che si diramavano dalla sala a raggiera. La zona nord del soppalco, sotto la quale era situata la porta, era adibita alla conservazione dei testi rari, quelli per cui occorreva l’autorizzazione. Era anche chiamata “stanza dei misteri”, poiché solo pochissimi eletti fra il clero e la nobiltà vi avevano accesso.
Nell si inoltrò nella sala, al momento deserta, puntando verso una porticina di legno incassata nel muro su cui c’era scritto con una calligrafia svolazzante “Ufficio del segretario”. Sotto era stata aggiunta una targa di ottone, che recitava “Bussare”. La guardò con cipiglio sarcastico, afferrò la maniglia di ferro e spinse.
Immediatamente, nel suo campo visivo entrò la figura china di un uomo di mezza età, seduto di profilo rispetto alla porta. Era vestito con la toga azzurra del suo Ordine monacale, i Fratelli del Sole. La lunga barba bionda, intrecciata con anelli d’argento, era adagiata sul petto e la testa era completamente rasata. Il tatuaggio stilizzato di un sole coperto da due frecce incrociate spiccava sulla nuca. In teoria, avrebbe dovuto indossare il copricapo, che consisteva in un buffo cappello di stoffa blu dalla forma esagonale, con tanto di piccole nappe dorate sulla tesa quadrata posta sulla cima, ma Hodren lo odiava.
Nell sorrise, riconoscendolo. Non era cambiato per niente, pareva essere trascorso solo un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto: sempre intento a scribacchiare cose sulle sue pergamene, archiviare e registrare, instancabile e laborioso come una formica. Si schiarì la gola, spezzando il silenzio raccolto che regnava nella stanza. 
L’uomo sussultò sulla sedia, la piuma d’oca gli cadde di mano e l’inchiostro lasciò una grossa macchia sul documento che stava compilando. Il suo sguardo scattò in direzione della porta e, subito dopo, strabuzzò gli occhi nel rimirare il ragazzo fermo sulla soglia, il fiato bloccato in gola come dinanzi ad una apparizione divina. Si riprese a fatica e balzò in piedi con un sorriso gioviale.
“Che mi venga un colpo! Nell, quanto tempo!” esclamò, gli andò incontro e lo abbracciò forte.
“Ti trovo bene, Hodren.” lo salutò, ricambiando impacciato l’abbraccio.
“Anch’io ti trovo bene. Non sei cresciuto neanche di un pollice.”
“Vuoi dire che sono basso?” 
“No, direi piuttosto che sei diversamente alto.”
Entrambi scoppiarono a ridere e Hodren lo invitò a sedersi. Nell si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania del monaco, ingombra di scartoffie e volumi consunti, e posò la borsa ai suoi piedi, mentre l’altro lo imitava dall’altro capo del tavolo.
“Allora, dimmi tutto. Qual buon vento ti porta qui, stavolta? Ancora alle prese con vecchie leggende e libri di magia?”
“Cerco informazioni sull’Occhio di Xion.” esordì senza troppi preamboli.
Il sorriso morì sulle labbra di Hodren e la sua espressione si fece seria all’istante. 
“Ciò che chiedi potrebbe essere… complicato. So che detesti le domande e la gente che ficca il naso nei tuoi affari, ma purtroppo mi vedo costretto a interrogarti sul motivo della tua richiesta.”
“Come mai? È un argomento tabù?” domandò il ragazzo, una scintilla ironica nelle iridi azzurre.
“Rispondi, per favore.” insisté severo il monaco.
Nell lo guardò giocherellare con l’anello che portava all’indice destro, un cerchietto d’oro con un piccolo diaspro rosso. Aveva appreso la volta scorsa che toccare il diaspro quando si sentiva nominare entità o oggetti maligni era un gesto scaramantico, glielo aveva insegnato proprio Hodren.
“Mi è giunta voce che sia in mano al re e voglio sapere che cosa può fare.” snocciolò annoiato, ma anche un po’ divertito, “Possiedi un libro, o più di uno, che tratta dell’Occhio?”
“Esistono due libri che ne parlano: Compendio sulle Pietre Divine e Storia dei Miti Perduti.” rispose, seguitando ad accarezzare distrattamente il diaspro.
“Bene. Potrei consultarli?”
“No.”
Anche il ragazzo perse il sorriso cordiale e strinse i braccioli della sedia: “In che senso, scusa?”
“Il re li ha confiscati.” rivelò Hodren in tono grave.
Nell si appoggiò allo schienale sospirando, si grattò il mento e corrugò le sopracciglia, riflettendo sul da farsi. Se non poteva avere accesso alle informazioni, l’unica opzione che gli restava era intrufolarsi nel palazzo reale e reperirle da solo. Pessima idea. Ci mancava soltanto che lo arrestassero.
“Che intendi fare? Se ti conosco abbastanza, immagino che non ti fermerai finché non otterrai quello che vuoi.”
“La conoscenza è potere, mio buon amico. Ma non correre troppo con la fantasia, non desidero sottrarre l’Occhio a Sylas.” lo rassicurò, fissando l’anello di Hodren con aria assorta.
“Ah, no?”
“Voglio capire di cosa è capace, tutto qui. Se scoppierà una guerra di proporzioni epiche in questo territorio e in quelli circostanti, vorrei saperlo in anticipo per non finirci invischiato. È la verità.”
Hodren trasse un profondo respiro, abbandonò l’anello e si mise a giocherellare con la barba. 
“Non c’è bisogno di consultare quei libri, la leggenda che ruota attorno all’Occhio di Xion mi è nota da tempo. Conosco a memoria ogni particolare.”
“Fantastico! Ti dispiacerebbe condividere le tue informazioni con me?” lo pregò Nell, tornando a illuminarsi.
“Cosa te ne faresti? Non sarebbe meglio evitare direttamente Dunaster e i regni limitrofi per un po’ e rifugiarti su un’isola?”
“Ho delle faccende da sbrigare al nord, prima.”
“A nord? Vuoi dire oltre i monti Lerisa? Ma non c’è niente laggiù, solo lande desolate.”
Nell fece spallucce: “Per favore, dimmi ciò che sai.”
“Perché è così importante, se non hai intenzione di mettere un freno alla follia del re?”
“E tu perché sei così riluttante?” rilanciò, cominciando a infastidirsi.
“Il re ha predisposto la forca per chi anche solo osa sussurrare il nome di quella pietra.”
“Oh, capisco. Non immaginavo che la situazione fosse così pericolosa.” considerò preoccupato.
“Esatto. Perciò perdona la mia riluttanza.” sbuffò, rimarcando l’ultima parola con palese sarcasmo.
Il ragazzo tentennò, ma poi decise di vuotare il sacco, almeno in parte. Era diventato un maestro nell’omettere determinati dettagli. Tuttavia, in fondo non gli pesava rivelargli certe cose, perché se c’era una persona di cui si fidava, quella era Hodren. Lo aveva già aiutato molto in passato, anche se non aveva nessun obbligo nei suoi confronti. Gli doveva un’adeguata lealtà. E poi era certo che non lo avrebbe tradito: negli anni aveva imparato a distinguere chi era degno di fiducia e chi no, e il monaco rientrava senza alcun dubbio nella prima categoria.
“Conoscevo il precedente custode dell’Occhio, era un mio amico.” confessò.
“Eri in rapporti di amicizia con Lord Fergus?!” 
“No, con suo padre, Lord Dinys. E sua madre, Lady Bawsh.”
Hodren ammutolì, si prese alcuni istanti per fare due calcoli e alla fine si abbandonò ad una risata. 
“Impossibile. All’epoca, se anche li avessi conosciuti, dovevi essere un bambino.”
“Ci sono molte cose di me che non sai...” sussurrò Nell, sfiorando con un polpastrello le venature del legno della sedia, le labbra appena arricciate in un sorriso indecifrabile.
L’uomo tornò serio. Una mano andò a stringere il bracciolo e l’altra gli coprì la bocca, mentre le dita lisciavano la barba in un tic a cui cedeva quando era immerso in profonde elucubrazioni. I suoi occhi chiari non lasciarono mai quelli di Nell, li sondarono alla ricerca della menzogna, ma non la trovò.
Così Nell proseguì: “Mi è nota la storia di come l’Occhio sia andato perduto, perché ero presente. Quello che non so è come voglia usarlo Sylas e perché i custodi non siano intervenuti per riprenderselo. Di’, che ne è di Fergus? Perché non lo ha ancora rivendicato? È lui il custode designato.”
“Morto assassinato.”
Il biondo si ritrasse impercettibilmente e inarcò un sopracciglio: “E sua sorella gemella Fedra?”
“Dispersa.”
“Il loro erede?”
“Disperso.”
“Lady Bawsh?”
“Morta cinque mesi fa. Infarto, dicono. Data la sua età, nessuno si è stupito.”
“E Dinys è stato ucciso da un sicario.” concluse Nell mestamente, con un accenno di sincera tristezza.
Non ci voleva un genio per intuire che dietro a quelle morti e sparizioni ci fosse re Sylas. Si era messo in cerca dell’Occhio, lo voleva ad ogni costo, non sapendo che non era più in possesso dei legittimi guardiani da ormai molto tempo. Alla fine, comunque sia, era stato l’Occhio a trovarlo. 
Nell si era sempre domandato perché proprio la famiglia di Lord Dinys lo custodisse. Perché non rinchiuderlo nelle stanze del tesoro a corte? Non esisteva un luogo più inespugnabile.
“Eri presente quando l’Occhio fu rubato, dicevi.” mormorò Hodren, i gomiti poggiati sulla scrivania e il mento tra le dita.
“Sì.”
“Come andò?”
“In realtà, sono stato messo al corrente degli eventi quindici anni dopo il furto, ma il punto è che mi trovavo in casa quando accadde.”
“Eri in casa… dove abitavi?”
“Non ti serve saperlo.” lo sedò con un gesto seccato.
Hodren si addossò allo schienale e assunse un’espressione meditabonda, mentre le dita lisciavano la barba crespa e il pollice dell’altra mano strofinava il diaspro sull’anello.
Passò qualche minuto, in cui l’unico rumore udibile era costituito dallo scalpiccio di visitatori e monaci nella sala di lettura. La candela che ardeva sulla scrivania crepitò appena, mossa da uno spiffero di vento penetrato attraverso gli infissi della finestrella sulla parete, dal lato opposto della stanza. 
Nell si soffermò a studiare i ricami d’argento sulla toga del monaco, sollazzandosi a seguirne gli intrecci come in un intricato labirinto, finché Hodren non interruppe il silenzio con una proposta.
“Ti va uno scambio?” 
“Sentiamo.” lo invitò, ristabilendo il contatto visivo, e accavallò le gambe.
“Io ti dirò tutto sull’Occhio di Xion. In cambio, tu mi racconterai chi sei.”
Nell assottigliò le palpebre, si irrigidì e serrò le mani tra loro. Il suo cervello iniziò a lavorare a ritmo frenetico per individuare una scappatoia ed evitare di esporsi, ma l’unica soluzione pareva essere quella di mentire.
“Se mentirai, me ne accorgerò. Sai che sono un ottimo osservatore.” lo avvertì Hodren, quasi leggendogli nel pensiero, “Spetta a te decidere, informazione per informazione. Entrambi lo facciamo per mera curiosità, no? Il guadagno sarebbe reciproco.”
Il biondo sospirò, non aveva alternative. O meglio, una l’aveva, ovvero infiltrarsi di soppiatto nel palazzo, ma sarebbe stata l’ultima spiaggia.
“Accetto, ad una condizione.”
“Cioè?”
Stavolta fu Nell a sporgersi verso di lui, gli occhi più freddi del ghiaccio: “Ciò che ti rivelerò non dovrai mai spifferarlo a nessuno. Se scoprirò che hai diffuso i miei segreti, verrò ad ucciderti. È una promessa.”
Il monaco serrò le labbra accarezzandosi i folti baffi, infine annuì.
“Ci sto. Ne discuteremo stasera alla taverna chiamata ‘Nebbie d’Oriente’, al piano superiore ci sono delle camere che si possono affittare. Ti aspetterò un’ora dopo il tramonto nella stanza gialla. Chiedi alla donna seduta dietro il bancone, ti darà la chiave senza fare domande.”
“Perché non ne parliamo adesso?”
“Qui anche i muri hanno le orecchie, mi sto già esponendo troppo. Queste sono le mie condizioni, prendere o lasciare.”
“D’accordo.” si arrese, ma mentre si stava per alzare si bloccò, “Dov’è questo posto?”
“Hai presente Piazza delle Spade?”
“No.”
“Quella con il monumento di Gordar II.”
“No.”
“Quella in cui sbuca la strada degli armaioli…”
“No.”
“Sei un caso perso.” esalò Hodren esasperato, “Non ti ricordi? Ti portai in giro per Dun’har sei anni fa e ci fermammo proprio davanti a quel monumento perché volevi conoscerne la storia. Provasti a toccarlo e io ti schiaffeggiai la mano.”
“Ah! Quella statua di bronzo di re Gordar, al cui cavallo manca uno zoccolo?”
“Esatto!”
“E come ci arrivo da qui?”
Hodren lo fissò con occhi sgranati e scrollò nuovamente la testa: “Sei un caso perso. Senza speranza. Ma come hai fatto a sopravvivere fino ad ora? Sai almeno dove hai la testa?”
“Oh, senti, a ognuno il suo.” borbottò Nell imbronciandosi e incrociò le braccia sul torace.
“Ho quasi paura a lasciarti da solo.”
“Va bene, me la caverò. A stasera.” 
“Vuoi che ti venga a prendere? Dove alloggi?” insisté, sporgendosi verso di lui con apprensione.
“Non sono così impedito! Ma insomma! Addio, a stasera.”
“Nell…”
Il ragazzo gli voltò le spalle, uscì a passo di marcia dall’ufficio e sbatté la porta. Era stanco di essere oggetto di inutili ansie da parte di terzi per il suo inesistente, o comunque scarso, senso dell’orientamento. Bastava Ysril.

Un’ora dopo il calar del sole, puntuale, Nell si presentò alle “Nebbie d’Oriente”. Era partito con tre ore d’anticipo per essere sicuro di non arrivare in ritardo, altrimenti chi l’avrebbe sentito Hodren? E dire che, se non si fosse perso, avrebbe impiegato soltanto mezzora a raggiungere la destinazione dall’osteria “Il capretto”, in cui si era rifugiato per passare il tempo sorseggiando idromele di bassa qualità. L’oste gli aveva pure spiegato con attenzione e molta pazienza la strada, ciononostante si era confuso e aveva sbagliato, ritrovandosi a vagare in una zona residenziale dall’altra parte della città.
Osservò la facciata della taverna, chiedendosi per l’ennesima volta a cosa si riferisse il nome, dato che di orientale non aveva niente. Era fatta di legno e pietra, come tutti gli altri edifici che la circondavano, tanto che se non fosse stato per l’insegna nessuno l’avrebbe notata. Sul tetto Nell contò sei comignoli, dai quali fuoriuscivano spirali di fumo nero. Al primo piano, cinque balconcini aggettavano sulla via e le finestre erano tutte illuminate. Dall’interno, udì provenire una melodia dolce e lenta, suonata da uno strumento a corde e un flauto, ma nessuno schiamazzo. Si guardò intorno circospetto e si avvicinò. 
Alcuni dettagli, come le decorazioni sugli stipiti della porta e sulle finestre dai vetri a mosaico, gli ricordarono i bordelli di Karkossa, eccetto che per la totale assenza di prostitute sulla strada e di clienti assiepati di fronte all’entrata. Ora che ci pensava, nemmeno sei anni prima aveva scorto puttane in giro. Forse non era un costume diffuso da quelle parti o forse non erano cose da mostrare alla luce del sole - o della luna, in quel caso. Era alquanto strano. Addirittura nel regno più prospero, dove i poveri non erano che uno sparuto gruppetto di sventurati, c’erano le case di piacere, spesso con un intero quartiere dedicato loro. A meno che gli uomini di Dun’har non fossero tutti casti e puri, doveva pur esserci almeno un bordello. 
Non che mi interessi, eh.
Ad ogni modo, Hodren aveva detto che era una taverna. Si era dimenticato, però, di specificare di che tipo. Nell si augurò che non fosse un luogo di ritrovo per individui loschi e violenti. Benché avesse viaggiato in lungo e in largo e avesse visto quasi di tutto, non si era mai avventurato in posti simili: primo perché non ne avvertiva alcun desiderio, secondo perché non ne aveva la necessità. Quindi adesso non poteva esimersi dal provare un po’ di paura, e la sua fervida fantasia non aiutava. Già vedeva brutti e sporchi balordi che lo acciuffavano appena varcata la soglia per deriderlo, derubarlo e approfittarsi del suo corpo ancora giovane e bello. Rabbrividì e si maledisse per non possedere un’arma degna di tale nome, se non un coltellino grande quanto il palmo di una mano. Beh, fino a quel momento era stato fortunato: persino nelle situazioni peggiori, era sempre riuscito a cavarsela, nessuno lo aveva mai toccato, e se lo aveva fatto, a quest’ora non aveva più le mani o una voce per raccontarlo. 
Tranne Reeven. Nell si sorprese che il viso dell’ibrido gli fosse tornato in mente così ricco di dettagli, anche se aveva fatto di tutto per non pensare a lui durante il tragitto verso Dun’har. Avvampò al ricordo del bacio e un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Reeven era stato il primo ad averlo baciato, dopo Ysril. Aveva dimenticato cosa si provava, e realizzarlo lo aveva fatto precipitare in un abisso di sconforto. Con Reeven aveva percepito una scossa, non forte come quella che gli provocava sempre Ysril, ma comunque c’era stata: il cuore che batteva nello sterno con la forza di un tamburo e una vampata di calore che risaliva dai lombi fino alle guance, facendolo imporporare peggio di una verginella. Solo con Ysril aveva sperimentato quel tipo di reazioni, perciò non si spiegava come mai Reeven, un estraneo, fosse stato capace di risvegliare in lui emozioni sopite o fino ad allora ignorate. 
Scrollò il capo e grugnì sottovoce tutta la disapprovazione per se stesso. 
A parte l’episodio con Reeven, si era conservato come quando Ysril lo aveva preso l’ultima volta e ne andava immensamente fiero. Il sesso, o il contatto intimo in generale, era la sola cosa che aborriva, incapace di concepirlo con qualcuno che non fosse il suo sposo. Fortunato, dunque, perché Ysril non lo aveva dotato di una forza sovrumana, perciò se lo avessero assalito in più di due sarebbe stato spacciato, coltellino o non coltellino. 
Pregò ardentemente che quella taverna non riservasse spiacevoli sorprese. Poi rifletté che se Hodren lo aveva invitato lì, non poteva trattarsi di una squallida bettola frequentata da ladri, stupratori e tagliagole, il suo amico non lo avrebbe mai messo in pericolo. Tuttavia, sarebbe entrato con il cappuccio del mantello ben calcato sulla testa, per precauzione.
Aprì la porta trattenendo il respiro, e fece bene, perché in un istante fu investito da una zaffata di fumo dall’odore nauseabondo, che, pur non respirandolo direttamente, lo stordì non poco. L’intero ambiente era immerso nella penombra, sebbene rischiarato da una decina di lanterne gialle che emanavano coni di luce soffusa, ed era ammantato da una cappa grigia e soffocante. Numerosi avventori, tutti uomini, se ne stavano sdraiati su comodi divanetti rossi, lo sguardo vacuo rivolto al soffitto e un sorriso stupido stampato in faccia. Delle ragazze molto attraenti, con acconciature complesse e abiti talmente succinti da non lasciare nulla all’immaginazione, sedevano inginocchiate accanto a loro, pronte a porgere la pipa nel caso i clienti l’avessero richiesta. Nell si accorse che avevano le dita nere, dai polpastrelli alla seconda falange. Quando ne adocchiò una intenta a pigiare delle foglie scure dentro una tazza di vetro per miscelare il tè, ne comprese la ragione.
Sono finito in una Sala dell’oppio. Ottimo. Davvero stupendo. Ecco perché “Nebbie d’Oriente”. Ma come mai Hodren conosce questo posto?
Avanzò guardingo e a disagio nell’androne d’ingresso. Al margine sinistro della sala, due musici stavano suonando una canzone melensa: uno imbracciava una cetra, l’altro un flauto di legno. 
Superò i divani e le poltrone, fece del suo meglio per ignorare i sorrisi pigri e ammiccanti di alcune ragazze, e anche di qualche uomo, e si fermò davanti al banco in fondo alla sala, dietro il quale c’era una donna di mezza età occupata a scribacchiare numeri su un registro. Aveva i capelli striati di grigio legati in una crocchia sulla nuca, il viso impiastricciato di cipria, le guance simili a pesche mature e le labbra coperte di rossetto. Nonostante il trucco pesante, si notavano le borse sotto gli occhi scuri e le rughe sulla fronte, sulle orbite e agli angoli della bocca. Pareva una maschera grottesca. L’abito che indossava era di seta, di un colore che sembrava ocra, adornato di pizzo nero sul décolleté e in cima alle maniche. Quando gli cadde l’attenzione sul girocollo di diaspri rossi, Nell inarcò un sopracciglio e si lasciò scappare una smorfia carica di sussiego.
Decise di non tergiversare. Tossì con discrezione per attirare il suo sguardo su di sé e strinse le dita sulla tracolla per calmare il nervosismo.
“Salve. Vorrei la chiave della stanza gialla, per favore.” bisbigliò timido, sentendosi come un pesce fuor d’acqua.
La donna lo squadrò dal basso verso l’alto e rimase immobile per interminabili secondi, tanto che Nell ponderò l’idea di fuggire con la coda tra le gambe. Poi, quasi che qualcuno le avesse dato una scossa, la vide rianimarsi. Prese da sotto il banco una chiave di ferro, gliela porse senza commentare o tradire alcuna emozione e tornò ai suoi numeri, dimenticandosi della sua presenza.
Personale discreto… è una buona cosa, no? E nessun cliente sta molestando le ragazze.
Nell si rigirò la chiave tra le mani, titubante. Studiò la sala con sospetto, intercettando le occhiate interessate di un paio di uomini stravaccati su un divano lì vicino, e si morse un labbro a disagio. Quindi trasse un profondo respiro e si diresse verso le scale. 
Giunto al primo piano, ispezionò l’angusto corridoio in cerca della fantomatica stanza gialla, sforzandosi di non origliare i gemiti di piacere che provenivano dalle camere che gli sfilavano a fianco. Anche se non riuscì ad impedirsi di arrossire e provare un po’ di invidia. Quanto era trascorso dall’ultima volta che aveva assaporato le delizie dell’amore carnale? Vent’anni? Forse qualcosa di più, ma sempre troppo.
Sospirò e andò avanti, finché non scorse una porta gialla. Sollevò la chiave, la infilò nella toppa e girò. Un suono secco si propagò nel silenzio, seguito dallo scricchiolio dei cardini che ruotavano. Un attimo dopo entrò nella stanza. 
I muri erano costituiti da travi di legno dipinte di giallo fino al soffitto, il quale, eccetto che per un lampadario con tre sole candele invece delle tipiche otto, risultava tristemente spoglio. Tuttavia, la tinta delle pareti forse era gialla un tempo, perché ora appariva di un beige parecchio smunto. A sinistra rispetto alla porta c’era un divano abbastanza grande per tre persone, ricoperto da un telo verde con ricami floreali, e sul comodino erano state poste altre candele. 
Hodren lo stava aspettando seduto su una delle due poltrone di fronte al camino acceso, dalla parte opposta della stanza. Indossava una tunica nera e semplice, mentre il mantello, dello stesso colore, era stato appeso a un gancio dietro la porta. 
Appena lo vide, si alzò e lo apostrofò in tono scherzoso: “Sei puntuale! Non ci speravo.” 
“Risparmiati le battute. C’è qualcosa da bere? Ho la gola secca.”
“Il sidro ti piace? Oppure gradisci del tè?”
“Sarebbe meglio dell’acqua.”
“Prima volta in una Sala dell’oppio?”
“Sì, perché?”
“Inalare il fumo ti disidrata, anche se non lo aspiri volontariamente. Una volta che ti entra nei polmoni, arriva subito al sangue.”
Hodren afferrò una brocca dal tavolino intarsiato posto sotto alla finestra e versò l’acqua in un bicchiere di vetro colorato. Quindi glielo offrì e Nell bevve avidamente. 
Si accomodarono sulle poltrone come due vecchi amici, ma la tensione crebbe velocemente non appena il monaco incrociò lo sguardo del ragazzo.
“Per metterti a tuo agio, comincerò io.” esordì Hodren, osservando le spalle rigide di Nell e i suoi occhi che saettavano dappertutto, attenti non sfiorare la sua figura nemmeno per sbaglio.
“Come vuoi. Ah, non ritengo necessario rammentarti che ogni cosa che diremo non dovrà uscire di qui.”
“Mi pare ovvio.”
“Bene.”
“Dunque, vuoi sapere dell’Occhio di Xion, giusto? Allora prima bisogna che ti parli di Xion.” 
Si versò il tè in una tazzina di porcellana e se la portò alle labbra, bagnandosele appena. 
“Xion era un mostro gigantesco, creato dalla terra e dal fuoco. Secondo la leggenda, a plasmarlo fu il dio Ashan, il quale covava rancore nei confronti del fratello gemello Arrhan, che lo aveva condannato a vivere in un vulcano per aver giaciuto con la loro sorella, la dea Mydia. Ashan voleva vendicarsi per quella punizione a suo dire ingiusta - era stata Mydia a sedurlo - e così creò una calamità naturale il cui unico scopo era portare caos e morte nel mondo tanto amato da Arrhan. Il suo corpo poteva essere forte come la roccia oppure liquefarsi come lava, e nei suoi occhi era stata versata una goccia del sangue di Ashan, il cui odio per tutti gli esseri viventi era talmente smisurato da non conoscere limiti. Il mito narra che quando Xion si manifestava innanzi agli uomini, essi, alla vista di quegli occhi, impazzivano e iniziavano a scannarsi a vicenda. Se poi qualcuno sopravviveva al massacro, ci pensava Xion stesso a ucciderli, schiacciandoli sotto il suo corpo di roccia o bruciandoli vivi nella lava. Un giorno Arrhan decise di intervenire e col suo martello fece a pezzi il mostro, strappandogli via gli occhi. Ciononostante, non lo distrusse, perché Xion era immortale. Impaurito e debole, il mostro tornò nel vulcano dove era nato e lì giacque, inerte e stanco. Ashan, furioso per la sconfitta subita dalla sua creatura, sfidò il fratello, ma venne battuto a sua volta. Per punizione, Arrhan lo spedì nell’Oltremondo e lo incatenò sul fondale.”
Nello osservò Hodren sorseggiare il tè, impressionato da quel racconto. Si aggiustò sulla poltrona, trattenendo a stento il desiderio di chiedere cosa fosse accaduto dopo.
“Come uno degli occhi di Xion sia finito nelle mani degli umani è un mistero. Nessuna cronaca, nessun mito ne parla. Mi auguro che ce ne sia effettivamente soltanto uno in circolazione.”
“Sennò?”
“Si dice che se gli occhi dovessero essere riuniti e qualcuno li gettasse nel vulcano dove dorme Xion, egli possa venire risvegliato. Allora la catastrofe sarebbe inevitabile.”
“Ma esiste davvero quel vulcano?”
“Secondo la Storia dei Miti Perduti, sì. È il motivo per cui a nord-est c’è solo un immenso deserto.” rivelò Hodren, scrutandolo di sottecchi.
Nell incamerò l’informazione. Percepì lo stomaco annodarsi e la gola serrarsi in preda a un’emozione che non sperimentava da tempo: terrore. Non poté fare a meno di chiedersi se i demoni avessero qualche relazione con Xion o il dio Ashan. Aveva letto delle storie che parlavano di loro come esseri nati dalla dea Kanlaar, Signora del Buio, e altre entità che abitavano l’Oltremondo, ma non se la sentì di avanzare ipotesi sulla base di antiche leggende. Eppure, solo un legame con il mostro o il suo creatore avrebbe potuto spiegare la resistenza di Ysril al potere della pietra, visto che era stato lui a rubarla. Se non fosse stato immune, l’avrebbe tenuta per sé.
“Ora è il tuo turno. Voglio sapere dove sei nato e chi era la tua famiglia.” disse Hodren.
Il ragazzo sospirò, incantandosi a contemplare le fiamme che danzavano nel caminetto. Si obbligò a riportare alla mente tutto quanto, nonostante fosse doloroso. Riaccarezzare lievemente quei ricordi gli fece prudere gli occhi. Dopo un paio di minuti di silenzio, raccolse il coraggio e per la prima volta in più di vent’anni parlò del suo passato. 
“Sono originario della valle di Mesil.”
“Dov’è? Non ne ho mai sentito parlare.”
“Non mi sorprende. È un luogo sperduto, verso sud-ovest, protetto da colline, foreste e infinite distese di nulla. È raro vedere forestieri. Nel mio villaggio si conoscevano tutti e raramente qualcuno lasciava la valle per andarsene in giro per il mondo. La gente è molto attaccata alle tradizioni. Io sono nato in una famiglia di fornai. Ho una sorella e una nipote.”
“Va’ avanti.”
Raccontò aneddoti della sua infanzia, di Rory, del paesino in cui era vissuto, delle usanze e dello stile di vita che per quattordici anni era stato tutto il suo mondo. Si fermò solo quando giunse all’incontro con Ysril, un groppo in gola e le ciglia umide, incapace di proseguire.
Il monaco si accorse del suo turbamento. Per un istante si sentì in colpa, perché dal tono di voce e dall’espressione triste di Nell aveva intuito che quei tempi, spensierati e bellissimi, erano ormai così lontani che ricordarli faceva male al cuore. Si accontentò e rimandò altre domande allo scambio successivo.
“Molto bene, adesso torniamo all’Occhio di Xion. Come ho detto, gli occhi di quel mostro avevano il potere di seminare discordia e follia, ma senza di essi Xion era diventato troppo debole. Per millenni non si sentì più parlare di lui. Poi, in qualche modo, un occhio andò a finire nelle mani dei mortali. Stando alle cronache storiche di ottocento anni fa, la razza umana conobbe due secoli di aspri conflitti, che condussero alla distruzione di regni e numerose famiglie. I motivi erano i più disparati, dall’incremento delle tasse ai furti, da matrimoni illeciti all’espansione del territorio, eccetera. Queste lotte parevano interminabili e presto misero in ginocchio l’umanità. Per evitare che altre vite venissero sacrificate invano, i monarchi di tutti i regni si radunarono e decretarono una tregua, mentre i loro intellettuali e stregoni più in gamba collaborarono per capire quale fosse la causa di tanta sete di sangue. Infatti, si erano accorti che a un tratto, praticamente dall’oggi al domani, chi aveva provocato la guerra rinsaviva e ritirava le truppe, nella speranza di sancire una pace, ma non facevano in tempo a dire una parola che già un altro, sempre dall’oggi al domani, scatenava un’altra strage, anche per un nonnulla.” 
Stiracchiò le gambe e si massaggiò il menisco con una smorfia sofferente.
“Occorse almeno un decennio, costellato da altre guerre insensate, prima che si scoprisse l’esistenza di una gemma, passata da un regno all’altro tramite canali ignoti a diverse riprese. Una gemma in grado di manipolare la mente e risvegliare il lato oscuro che si annida negli animi. Era una piccola sfera blu scuro, splendida e ammaliante, tanto che chiunque vi si avvicinava si ritrovava a desiderare di possederla per sempre.” 
“L’Occhio di Xion?”
“Mh. Gli studiosi risalirono all’origine della gemma attraverso miti e leggende e dichiararono che si trattava di uno degli occhi di Xion, la bestia di Ashan. A quel punto scaricarono la patata bollente agli stregoni, che cominciarono a lavorare su un incanto che arginasse il suo influsso maligno, così che non fosse più un pericolo. Dopodiché, i sovrani la affidarono allo stregone più potente affinché la custodisse, lontana dagli sguardi degli uomini. Lo stregone si chiamava Andorev. Egli tramandò il compito ai suoi figli, e di generazione in generazione arriviamo alla famiglia del tuo amico, Lord Dinys. Poiché sono i discendenti diretti di Andorev, per quanto non sappiano usare la magia, essa alberga in loro in forma latente, rendendoli immuni all’energia malvagia dell’Occhio. I vari re che nei secoli si sono succeduti, messi al corrente della storia, non si azzardarono mai sottrarlo e la notizia della sua esistenza fu volontariamente gettata nel dimenticatoio, in modo che nessuno provasse a rubarlo per usarlo per scopi personali. I discendenti di Andorev hanno sorvegliato a lungo la gemma, finché un giorno di circa trentasei anni fa essa scomparve dal luogo sicuro in cui era conservata.”
Il monaco fece una pausa e finì di bere il suo tè, lasciando a Nell la possibilità di elaborare le sue parole. Quando ritenne di aver atteso abbastanza, posò la tazzina sul tavolo, incrociò le mani in grembo e si girò verso il biondo, fissandolo con aria insinuante.
“Hai detto che eri presente quando l’Occhio fu rubato. Voglio sapere cosa è successo di preciso.”
Nell continuò a tacere, gli occhi sbarrati puntati sulle lingue di fuoco che divoravano la legna nel caminetto, pallido come uno spettro. Il cuore batteva a ritmo frenetico nella cassa toracica, mentre pian piano connetteva i tasselli. Poi deglutì e legò il suo sguardo scioccato a quello curioso di Hodren, il quale sussultò sulla poltrona e contrasse la mascella, intuendo di stare per ricevere una verità inimmaginabile. 
Nell esitò a lungo. Aprì e chiuse la bocca più volte, la voce che non voleva saperne di uscire.
“Ti senti bene?” indagò apprensivo il monaco.
“I-Io… non lo so. Non so come sentirmi. Sono solo… oh, dei.” esalò in un sospiro tremulo e si coprì la faccia con le mani, piegandosi in avanti.
Seguitò a mormorare “oh, dei” per un minuto intero, dondolando su se stesso, sotto l’espressione basita del vecchio. Quando si decise a vuotare il sacco, Hodren percepì il sangue defluire dal volto frase dopo frase.
“Per fartela breve, mi sono sposato a quattordici anni con Lord Ysril, signore di Rocca Smeralda. Mi portò via dal villaggio in piena notte, con il mio consenso. Da allora non ho più rivisto i miei genitori. Sono morti senza che neanche lo sapessi. Ho vissuto a Rocca Smeralda per vent’anni. Dopo i primi cinque, io e Ysril adottammo un bambino e lo chiamammo Selis. In realtà, credevo fosse davvero mio figlio, poiché portai a termine con successo una gravidanza, ma il piccolo morì nella mia pancia durante il parto e mio marito lo sostituì con un altro neonato a mia insaputa. Scoprii la verità quindici anni dopo.”
“Che…? Che cosa…? Vieni al nocciolo.”
“Il giorno in cui io e Ysril concepimmo nostro figlio, quello mai nato, accadde qualcosa. Io non ero presente, i fatti mi sono stati riferiti tutti, appunto, quindici anni più avanti. Ysril aveva stretto un’alleanza con Lady Gheren, moglie della mia amica Lady Bawsh - la quale poi si risposò con Lord Dinys -, e con Lord Zebb, primo marito di Lord Dinys. Ma quell’alleanza venne spezzata quando loro quattro, e il principe Kwan, scoprirono che Ysril era… un demone.” pronunciò l’ultima parola in un sussurro appena udibile, poi sbirciò timidamente in direzione del monaco e lo vide sbiancare e boccheggiare incredulo.
“Tuo marito, il famigerato Lord Ysril, era un demone?”
“Sì.”
“Co-come…?” balbettò smarrito, “Perché diamine un demone si sarebbe spacciato per un nobile? Perché avrebbe voluto accasarsi con un mortale e mettere radici nel mondo umano? Non ha senso!”
“L’ha fatto per me.”
“Per…? Oh. Questo ha ancora meno senso.” commentò spiazzato, “Ho udito canzoni che lo avevano soprannominato Il Principe Nero, bello come un dio ma malvagio come un, beh, come un demone. E, ironia della sorte, lo era davvero! Pazzesco.”
“Ysril non era malvagio, anzi! È stato il marito migliore del mondo.” lo difese Nell, sbattendo il pugno sul bracciolo, “Mi amava alla follia e ha fatto di tutto per rendermi felice. Diventava cattivo solo quando qualcuno o qualcosa mi minacciava. Ci sono tanti altri uomini che possono comportarsi in modo ancor più crudele. Tipo Kwan. Tutti pensano che abbia combattuto per salvarmi da un mostro, ma il mostro era lui.”
“Che ha fatto? Qual è la verità?” lo interrogò Hodren, emozionato come un bambino.
“Mi voleva e non accettava il rifiuto. Quando venne a conoscenza del segreto di Ysril, di cui io all’epoca ero ancora ignaro, tentò di mettermi contro di lui: lo attaccò, mi rapì, lo ricattò, scatenò la sua ira. Non mi lasciava in pace. Mi picchiò in pubblico, addirittura, mentre Ysril non aveva mai alzato un dito su di me in vent’anni di matrimonio. Questo come lo chiami? Prode cavaliere? Principe valoroso e magnanimo?” sputò furioso.
“Accidenti. La gente ci ha ricamato sopra parecchio, a quanto pare.”
“Già…”
“Quindi tu sei davvero Lord Nell? Quel Lord Nell?”
“So che su di me circolano varie storie, alcune decisamente fantasiose, ma ti prego di non credere a tutto quello che hai sentito.”
“Cioè?”
“Per esempio, non ho mai avuto alcuna tresca col principe Kwan. Sono sempre rimasto fedele a mio marito. Una storia in particolare mi dipinge come una puttana che teneva il piede in due staffe. Vorrei tanto sapere chi l’ha messa in giro.” grugnì scocciato.
“Caspita… finora ero convinto che avessi soltanto lo stesso nome, non che fossi proprio… aspetta. Se sei Lord Nell, adesso dovresti avere, vediamo, su per giù cinquanta…. cinquantacinque anni?!”
“Esatto. Compiuti tre mesi fa.”
“Come è possibile? Ne dimostri a malapena una ventina!”
“Lo so. Colpa di Ysril. Ha fatto in modo che invecchiassi molto, molto lentamente.”
“Perché?”
“Voleva che lo aspettassi mentre lui trovava il modo di trasformarsi in un essere umano. Voleva invecchiare e morire insieme a me.”
“Tutto ciò è totalmente privo di senso.”
Hodren crollò sullo schienale, una mano sulla bocca e l’espressione sconvolta. Il tè si era raffreddato, ma a nessuno importava più. L’atmosfera nella stanza si era fatta elettrica, pregna di domande e tacite rivelazioni.
“D’accordo, torniamo all’argomento principale, altrimenti rischio di impazzire. Hai detto che c’era anche il principe Kwan quando avvenne il furto dell’Occhio.”
“Lui, Lady Gheren, Lady Bawsh, Lord Zebb e Lord Dinys erano con mio marito quando l’Occhio di Xion sparì dal suo ‘luogo sicuro’. È stato Ysril ha rubarlo, per poi darlo a Lord Zebb, che aveva sposato Dinys soltanto per mettere le mani sull’Occhio. Glielo diede per comprare il suo silenzio, affinché si togliesse di torno e non rivelasse mai a terzi che il signore di Rocca Smeralda era un demone. Mio marito desiderava per me, per noi, una vita agiata e tranquilla.”
“Per favore, raccontami com’è andata quel giorno, dal principio. In cambio, otterrai qualsiasi informazione tu voglia, promesso.”
Nell si passò una mano sugli occhi, sentendoli bruciare per la stanchezza e le lacrime non versate. Sospirò, si tolse gli stivali e allungò i piedi nudi davanti al fuoco, stravaccandosi sulla poltrona. 
Quando riportò a galla il ricordo di Ysril, del suo sorriso e dei suoi occhi colmi di amore, soffocò un singulto, serrò le palpebre e i denti, e ricacciò giù il magone. Con le dita strinse il medaglione da sopra la stoffa della camicia e il freddo dell’argento lo tranquillizzò un poco.
Gli disse tutto quanto, senza tralasciare nemmeno un dettaglio. Parlò di Dinys e Bawsh, dell’infatuazione di Kwan, di come essa lo avesse condotto alla follia e di come le sue azioni avessero poi rovinato la sua vita; parlò del Gran Sacerdote, di come avesse negato loro la pozione per avere figli e di come Ysril l’avesse fabbricata da solo; parlò dell’ibrido morto nella sua pancia, poi di Selis, di come era cresciuto e come si erano salutati; spese qualche parola sul mercenario al soldo di Ysril, Djibres, morto per salvare Selis; rievocò la distruzione di Rocca Smeralda, la fuga, l’inseguimento da parte del demone di nome Radek, che aveva l’ordine di ucciderli entrambi; infine, narrò del sacrificio di Ysril, del ritorno alla valle di Mesil e la decisione, dieci anni più tardi, di andare a cercarlo, poiché un altro demone gli aveva detto che Ysril era ancora vivo da qualche parte. 
“Anche se non mi fossi messo a cercarlo, avrei dovuto comunque abbandonare il mio villaggio, perché presto o tardi tutti si sarebbero accorti che non invecchiavo. Solo Melly conosceva la verità. Non so neanche se è ancora viva, non le ho mai scritto. Ho pensato spesso di tornare, ma poi ho sempre ritenuto più saggio tenermi alla larga per non crearle problemi. Ho viaggiato per undici anni, due mesi e diciassette giorni sulle tracce di Ysril, senza alcun risultato. Poi mi sono detto che, se poteva essere da qualche parte, di sicuro era a Lankara, nel regno dei demoni. Non sapevo della sua esistenza finché non mi sono imbattuto in un antico manoscritto anonimo. Lì veniva menzionato questo regno, situato a nord-est, oltre i monti Lerisa, ma nessuna mappa lo riportava. Ho indagato più a fondo, ho scavato e finalmente ho trovato una mappa dettagliata del continente, in cui figura pure Lankara. Sono diretto lì. Se la missione sarà un fiasco, tornerò indietro e passerò al setaccio ogni città e villaggio fino a quando ne avrò il fiato. E se neanche questo mi farà riabbracciare mio marito, tenterò un’evocazione.”
“Cosa?! Sei uscito di senno?”
“Lo so, è pericoloso, per tale ragione mi sono sempre astenuto. Le streghe sono le più esperte in questo genere di cose, ma onestamente non saprei proprio dove trovarne una e come convincerla ad aiutarmi. Si dice che siano delle megere sadiche, l’idea di averci a che fare non mi alletta per nulla.”
“Quindi l’Occhio… la guerra… i demoni…” bofonchiò intontito Hodren, per poi ammutolire.
Un turbine di pensieri e domande gli affollava il cervello, impedendogli di articolare suoni che non fossero balbettii sconclusionati. Rimuginò a lungo, tentando di mettere ordine nella sua mente, troppo scombussolato per parlare.
Nell guardò fuori dalla finestra. Il cielo era nero e privo di stelle, le finestre delle case erano buie e una strana immobilità sembrava aver cristallizzato il tempo. Era molto tardi, non si era reso conto dello scorrere delle ore.
All’improvviso, il vecchio monaco si abbandonò a un commento: “In sostanza, il casino in cui ci troviamo ora è stato provocato da Ysril.”
“Sì, sebbene, in fondo, non gli si possa attribuire tutta quanta la colpa. Forse re Sylas avrebbe trovato il modo di rubare l’Occhio anche se fosse rimasto presso la famiglia di Dinys.”
“Forse. Fatto sta che la guerra è cominciata e un folle è in possesso di una gemma dagli enormi poteri distruttivi. Siamo tutti in grave pericolo. E la situazione peggiorerà, se qualcuno non lo ferma.”
“Gli unici che potrebbero farlo sono i discendenti di Dinys, ma, chissà come, sono stati messi fuori gioco.”
“Io mi riferivo a te.”
“Me? Sei pazzo!” esclamò raddrizzandosi, “Voglio restarne fuori, non mi importa un fico secco della guerra. E poi non sono immortale, se morissi non potrei più ricongiungermi a Ysril.”
Hodren lo trafisse con un’occhiata raggelante, che pietrificò Nell sul posto.
“C’è una cosa che devi sapere. E un’altra che devi vedere.”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, perplesso, e aspettò che l’amico proseguisse.
“Dieci anni fa, un uomo fu fatto prigioniero. Il re lo prelevò dalla cittadella di Rocca Smeralda per ottenere informazioni su di te e su tuo marito. Quell’uomo si presentò come un servo di nome Djibres, ma non ha senso, dato che il mercenario è morto. Giusto?”
“Che aspetto ha?”
“È biondo, con gli occhi azzurri, la pelle bruciata dal sole, ben piazzato.”
“Quale interesse nutre il re per quest’uomo?”
“Era convinto che potesse fornirgli delle risposte, in quanto ‘custode’ di Rocca Smeralda.”
Nell rifletté, tormentandosi il labbro inferiore con i denti, un sospetto che strisciava nel suo animo. Ad un tratto, un brutto presentimento si fece strada nelle sue viscere, depositandosi come un macigno sullo stomaco.
“Potrebbe trattarsi di… no, impossibile.”
“Chi pensi che sia?”
“Credo… no, non può essere lui.” 
“Nell.”
“Devo assicurarmi che non sia lui.” 
“Lui chi?”
“Selis.” soffiò con un filo di voce.
“Oh.”
Nell si prese la testa fra le mani, il battito del cuore schizzato alle stelle in pochi secondi. La descrizione fisica corrispondeva e il fatto che fosse considerato il “custode” di Rocca Smeralda quasi non lasciava adito a dubbi. Senza contare che, quando era tornato a Rocca Smeralda circa undici anni prima, lo aveva visto. Mentre passeggiava per la via del mercato, il volto celato dal mantello e la testa bassa, all’improvviso aveva scorto Selis, ormai adulto, a braccetto con una ragazza molto carina. Non si era avvicinato, preferendo osservarlo da lontano, ma ricordava perfettamente la mole possente, i capelli biondi e la pelle bruciata dal sole. Poi un pensiero lo pietrificò. 
“Vuoi dire che, quando sono venuto a Dun’har sei anni fa, lui era già qui?!” 
“Se avessi saputo chi eri, te l’avrei detto.” borbottò, una sottile accusa nella voce, “Ma non sai se è davvero lui, potrebbe essere qualcuno che gli somiglia.”
“Hai ragione, andrò ad appurarlo. Qual è la cosa che devo vedere?”
“Ecco, Sylas fece smantellare Rocca Smeralda dieci anni orsono. Tutto ciò che si trovava lì, ora è qui.”
“Che cosa?!”
“Per un anno alcuni oggetti furono ospitati dal mio tempio, poiché la Sala del Tesoro a palazzo era piena, ma dopo che il re l’ebbe fatta ampliare vennero di nuovo spostati. Mentre curiosavo insieme a dei confratelli, in mezzo a centinaia di cianfrusaglie inutili, mi imbattei in un certo quadro con, uhm, dei soggetti alquanto discinti…” si grattò la barba, impacciato, e lasciò la frase in sospeso apposta, conscio che Nell avrebbe subito collegato.
Infatti, il biondino emise un gemito sofferente, avvampò con violenza e tornò a nascondere la faccia tra le mani, con la voglia di sotterrarsi per l’imbarazzo.
“Ora non puoi più rifiutarti, dovrai intervenire. Anche solo per sbarazzarti del quadro, a meno che non desideri lasciarlo come eredità per i posteri…” tossicchiò, un accenno di rossore sugli zigomi e sulla punta delle orecchie, “Permettimi di dire che la sua vista mi ha suscitato un po’ di-”
“Per favore, taci.”
Nell inspirò ed espirò più volte, attingendo all’esiguo autocontrollo che gli era rimasto.
“Aggiornami su ciò che mi sono perso negli ultimi dieci anni.”
“Sarà una lunga notte.” bofonchiò Hodren, massaggiandosi il collo, e si mise comodo.

Un drappello di soldati lo superò senza notarlo e procedette in direzione del mercato. Nell emise un sospiro di sollievo e si portò una mano al petto, i muscoli tesi e i sensi all’erta. Gettò un’occhiata fugace sulla strada e sgusciò fuori dal vicolo buio in cui si era nascosto. Si strinse di più nel mantello, il cappuccio ben calato a celare il viso, e sgattaiolò silenzioso come un felino su per la salita che conduceva al palazzo reale. 
Il cielo era di un opprimente grigio scuro e l’aria pesante, pregna di umidità. Presto avrebbe iniziato a piovere. Le finestre delle abitazioni erano sprangate, tutti dormivano ancora della grossa: a Dun’har l’attività cominciava poco dopo l’alba, quindi, eccetto i soldati che dovevano raggiungere le proprie postazioni, a nessuno veniva in mente di andarsene a zonzo a quell’ora. Le vie erano deserte, non si scorgeva neanche un animale randagio in giro, e ciò rendeva la città più inquietante di quanto già non sembrasse alla luce del giorno.
Nell arrestò il passo quando giunse in prossimità del fossato che divideva la reggia dal resto degli edifici. Non c’era modo di entrare se non tramite il ponte levatoio, che era sempre pattugliato dalle guardie. Nessuno poteva accedervi senza annunciarsi, evitare i controlli era impensabile. Tuttavia, Hodren, prima di salutarlo per tornare al tempio, lo aveva messo al corrente di un passaggio che sfruttava i canali fognari e sbucava nelle cantine reali, dove erano conservate le scorte di vino del re. Si trovava proprio nel fossato: bisognava immergersi nelle acque torbide e nuotare verso l’altra sponda, fino ad individuare un’apertura quadrata, chiusa da un cancelletto di ferro facilmente scassinabile. 
Nell, all’idea di fare il bagno nei reali escrementi, avvertì un potente conato risalirgli su per la gola, ma si obbligò a proseguire facendo leva sulla terribile possibilità che Selis fosse prigioniero fra quelle mura. Se così fosse, non poteva abbandonarlo, non di nuovo. Già in passato gli aveva voltato le spalle, affidandolo alla protezione di un mercenario che era sì morto per salvarlo, ma che lo aveva anche messo in serio pericolo. Diciamo piuttosto che era stato il fato, o la mano divina, a risparmiargli una prematura dipartita, e Nell non ci teneva proprio a mettere di nuovo alla prova la Fortuna, dea volubile e capricciosa.
Eseguì alla lettera i suggerimenti di Hodren. Dopo aver avvolto nel mantello la borsa, prese un bel respiro, chiuse gli occhi e si tuffò. Riemerse boccheggiando, la borsa sopra la testa per evitare che si bagnasse troppo e rovinasse il prezioso tomo e la mappa ivi contenuti, e nuotò come poté verso la sponda opposta, cercando con gli occhi l’entrata delle fogne. La scovò un minuto dopo. Si aggrappò alle sbarre del cancelletto con i piedi, estrasse uno spillo spesso da una tasca della borsa e si mise ad armeggiare con il lucchetto arrugginito, che cedette in pochi secondi. Quindi si intrufolò nel condotto, le ginocchia, le mani e i piedi che sguazzavano nella melma puzzolente depositata sulla base. Si tappò il naso e respirò con la bocca, pregando che le cantine non fossero troppo lontane.
Dopo quella che gli parve un’eternità, visto che aveva gattonato al buio, con il battito del cuore a rimbombargli nelle orecchie come unico strumento per misurare il tempo, arrivò alla botola di cui gli aveva parlato il monaco. Stando a lui, avrebbe dovuto essere aperta. Nell spinse in alto, digrignando i denti per lo sforzo, finché non fece capolino in una sala ammantata di oscurità, umida e fredda. Poi fiutò l’odore di vino fermentato, e seppe subito di trovarsi nel posto giusto. 
Certo che Hodren è ben informato. Come sa delle fogne e della botola? Bah, che importa.
Si issò sulle braccia e rotolò sul pavimento della cantina pensando “chi me l’ha fatto fare”. Inspirò aria pura con sollievo, chiuse la botola per evitare che il tanfo si spargesse ovunque e rovistò febbrilmente nella borsa, supplicando divinità a caso. Quando le sue dita agguantarono una boccetta di vetro ancora intatta, la agitò davanti agli occhi con un sorriso e si spruzzò addosso un profumo che sapeva di gelsomino, l’ideale per coprire la puzza di escrementi, a detta di Hodren. Avrebbe dovuto spruzzarselo a intervalli di un’ora per mantenere l’effetto e sopprimere il cattivo odore, anche se la scia di gelsomino, alla lunga, sarebbe diventata insopportabile come ciò che doveva celare. In sostanza, era meglio sbrigarsi a portare a termine la missione, prima che qualche guardia, passeggiando per i corridoi che Nell avrebbe imboccato, si domandasse quale fosse la fonte del profumo, completamente fuori luogo tra quelle mura, e decidesse di indagare.
La prima tappa era la Sala del Tesoro, perché era di strada. Dalle cantine, avrebbe dovuto scendere una rampa di scale, svoltare nel secondo corridoio sulla destra e percorrerlo fino in fondo. La sala era situata dietro un portone di mogano a due ante, sigillato da un complesso sistema di chiavistelli, tutti però scassinabili se si aveva pazienza. Le prigioni invece, ossia la seconda tappa, erano site al livello ancora più basso, per cui bisognava scendere altre quattro rampe.
“Da giovane ero l’assistente del Primo Fratello e Consigliere del re, quindi mi capitava di passare molto tempo a palazzo. Poi hanno scoperto il mio vizietto dell’oppio e sono stato declassato a bibliotecario.” aveva spiegato Hodren con un sorriso birichino, “Comunque, se Sylas non ha apportato modifiche alla planimetria, non dovresti avere problemi.”
Mentre sgusciava da un corridoio all’altro impaziente di arrivare alle scale, notò la totale assenza di diaspro rosso nelle decorazioni, nei muri e sulle colonne. In alcuni punti sembrava addirittura che fosse stato rimosso.
Che strano.
Attento a non fare rumore e restando nell’ombra, riuscì a giungere alla meta senza intoppi. Dopodiché, con le orecchie tese a captare qualsiasi suono, scassinò i chiavistelli e si insinuò con un movimento fluido e silenzioso attraverso lo spiraglio nel portone, chiudendoselo alle spalle. 
La sala era illuminata da dei bracieri, la cui luce aranciata disegnava i contorni dei tesori ammassati al centro con ordine. Nell riconobbe immediatamente alcuni oggetti e una fitta al cuore lo lasciò paralizzato per qualche attimo. Quelle “cianfrusaglie”, per lo più mobili, soprammobili e ninnoli, erano pieni di dolci ricordi. Scorse un forziere colmo di gioielli, fra cui una collana di smeraldi che aveva indossato spesso, regalo di Ysril per i suoi diciotto anni. 
Deglutì, colto da un’emozione violenta e incontrollata. Avanzò lentamente in mezzo a quei cimeli, facendosi travolgere dalla valanga di nostalgiche visioni del passato che lo assalirono all’improvviso. Sfiorò con reverenza ogni oggetto, gli occhi umidi e le dita tremanti, quando la sua attenzione venne calamitata dalla silhouette di un quadro molto grande, accatastato con altri di dimensioni più ridotte in un angolo. Era coperto da un telo bianco. Nell ne afferrò un lembo e lo scostò, facendolo adagiare al suolo con un fruscio. 
Il respiro gli si bloccò in gola non appena lesse la targa di ottone sulla cornice in basso: “Ysril, Lord di Rocca Smeralda, e Lord Nell, suo legittimo consorte”. 
Si ritrovò a contemplare a bocca aperta se stesso e suo marito, sdraiati nudi su una dormeuse, con le parti intime celate a malapena da un lenzuolo candido e i loro colli e le loro braccia adornati di gioielli, che sfavillavano come stelle alla luce del sole morente che filtrava dalla finestra. Nell rammentava molto bene come, prima di ciascuna seduta col pittore, Ysril lo possedesse fino a strappargli via la voce, affinché l’artista fissasse per l’eternità sulla tela la sua espressione ebbra di piacere. Infatti, lì Nell pareva essere appena uscito da una sessione di sesso selvaggio, mentre Ysril, steso sotto di lui a fungere da materasso, aveva un’aria beata e appagata, come un gatto che si lecca i baffi. Solo i capelli arruffati costituivano un indizio sull’attività a cui si era dedicato prima di mettersi in posa.
E lo hanno visto tutti.
Si morse l’interno di una guancia, incapace di reprimere l’ondata di imbarazzo che gli fece fischiare le orecchie.
Ysril, stupido maniaco.
Suo malgrado, sorrise e si accarezzò le labbra, perso nelle memorie di baci ardenti e sguardi carichi d’amore e devozione. Emise un sospiro tremulo e, in un gesto pudico, si abbassò la camicia sulle cosce per coprire il principio di erezione. 
Sì, quel quadro doveva sparire. Anche se, tutto sommato, era un capolavoro. Sarebbe stato un peccato bruciarlo. Però era pur vero che, se lo avevano visto tutti, specialmente re Sylas, sarebbe stato rischioso non far nulla: chiunque avrebbe potuto riconoscere in lui Lord Nell, se si fosse messo a gironzolare per il castello. 
Eppure si trova qui da dieci anni! Quando sei anni fa venni a Dun’har, nessuno mi fece notare alcuna somiglianza, perciò forse mi sto preoccupando troppo. Ysril, ti odio. Cosa avranno pensato di me? Come se le storie diffuse dai bardi non fossero già abbastanza imbarazzanti.
Osservò combattuto il dipinto. Alla fine desisté e decise di mollarlo lì, dato che non poteva di certo trasportarlo altrove, e distruggerlo non era più un’opzione. E poi chi mai avrebbe creduto che un ragazzino vestito di stracci fosse Lord Nell, il quale, in teoria, avrebbe dovuto avere cinquantacinque anni? Al massimo potevano scambiarlo per un parente stretto.
Si strofinò le palpebre e sospirò di nuovo. Senza curarsi di ricoprire il quadro, si allontanò a passi lenti. Poi, passando accanto ai forzieri, si intascò una manciata di gioielli - i suoi gioielli - per rivenderli, dato che aveva finito i soldi. Infine uscì, seppellendo per sempre in quella sala un’era felice che sapeva non sarebbe mai più tornata.

Selis si svegliò sbadigliando. Tossì e si umettò le labbra secche. Aveva sete, ma prima dell’alba non gli avrebbero portato da bere e da mangiare. Si rigirò sul pagliericcio per dormire ancora un po’, le membra indolenzite e stanche, ma mai sofferenti quanto la sua anima e il suo cuore. Gli dolevano le ossa, c’era troppa umidità. Presto si sarebbe scatenato un temporale.
Chiuse di nuovo gli occhi, pronto a ricadere nel sonno, quando all’improvviso udì dei passi avvicinarsi. Aggrottò le sopracciglia e gettò un’occhiata alla minuscola finestra della cella, appurando che il sole non era ancora sorto, quindi non poteva essere la colazione. Si sedette stropicciandosi le palpebre e rimase in attesa.
Enorme fu il suo stupore quando il profilo di un ragazzo biondo si delineò alla sua sinistra. Lo vide fermarsi di fronte alla cella, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca socchiusa in un’espressione sbigottita speculare alla propria. 
Per interminabili secondi non volò una mosca, il respiro bloccato in gola assieme alla voce, il cuore che galoppava frenetico nel petto e un’emozione simile alla gioia più pura che irrorava ogni fibra dei loro corpi. Poi Nell si accasciò in ginocchio con un gemito strozzato.
Selis si trascinò, tremante e incredulo, verso di lui, spazzando la pietra con i vestiti laceri. Doveva toccarlo, accertarsi che non fosse l’ennesima allucinazione. Protese un braccio, allungò le dita e trattenne il fiato. Ma non compì neanche metà del viaggio, perché Nell lo intercettò e accolse la mano nella sua.
“Selis…” esalò incerto.
Sentir pronunciare il suo vero nome per la prima volta da quando aveva lasciato Rocca Smeralda riempì l’uomo di una felicità indescrivibile. Quella semplice parola, scandita con tanto amore, ruppe la stasi. Selis si abbandonò al pianto. Stritolò la mano di Nell con vigore e dolcezza insieme, la stessa mano che durante la sua infanzia e adolescenza gli aveva regalato innumerevoli carezze; la baciò con trasporto e disperazione, se la strofinò sulle guance, sulla fronte, la venerò come una reliquia sacra e si beò del tepore che per troppo tempo gli era stato negato. Gli parve di riemergere da un’apnea durata dieci anni. La speranza si riaccese, timida e pura, nel suo spirito stremato.
“Sei tu… sei davvero tu…”
Calde lacrime gli rigarono le guance scavate e le ripulirono dalla polvere, ma fecero risaltare di più le occhiaie, il pallore e la magrezza celata sotto la barba ispida che gli copriva metà faccia.
“Oh, il mio bambino, il mio piccolo Selis… cosa ti hanno fatto? Come ti hanno ridotto…” singhiozzò Nell costernato, il cuore che gli doleva come se fosse trafitto da rovi.
Lo abbracciò attraverso le sbarre e gli stampò teneri baci sulla testa, incurante della sporcizia, con l’unico desiderio di riversargli addosso tutto l’affetto che non era riuscito a dargli negli ultimi anni. In quel modo provò pure a stemperare l’angoscia che lo opprimeva, ma, per ogni bacio elargito, una nuova spina si conficcava nel suo petto al vederlo trasformato nell’ombra di se stesso. Ed era solo colpa sua. Non lo aveva protetto. Se non si fosse tenuto nascosto come un vigliacco, se fosse rimasto a Rocca Smeralda con lui, se soltanto fosse tornato… che razza di padre era?
Nel frattempo, Selis si lasciò cullare, assaporando ogni momento come se fosse l’ultimo, e ringraziò gli dei per avergli concesso un assaggio di serenità prima di morire. Ad un tratto tossì e ciò lo ridestò abbastanza da comprendere la situazione pericolosa in cui si trovavano.
“Nell…” rantolò con voce gracchiante, “Non sei al sicuro qui. Devi andartene.”
“No, no, shh, tranquillo, non vado da nessuna parte senza di te…”
Selis si staccò e lo studiò da vicino. Nell non era invecchiato nemmeno un po’. Anzi, d’accordo, magari dava l’impressione di essere più adulto, ma non v’era traccia di rughe sul suo bellissimo viso, né un capello bianco in mezzo alla chioma bionda e serica adagiata sulle spalle.
Sorrise e gli accarezzò una guancia con infinita devozione: “Sei ancora splendido.”
“Merito di Ysril.” 
“Ah. Dov’è lui?” domandò, sporgendosi in avanti per ispezionare il corridoio con lo sguardo.
“Non è con me, lo sto cercando.” 
“In che senso? Vi siete separati?”
“È una storia lunga.”
“Ti prego, dimmi cosa vi è accaduto. Non ho avuto più notizie di voi.”
“Dopo che siamo fuggiti da Rocca Smeralda, siamo stati inseguiti da un demone e alla fine ci ha raggiunti. Ysril ha lottato e lo ha ucciso. Si è sacrificato per proteggermi. Credevo fosse morto, l’ho creduto per anni. Poi un giorno ho incontrato un altro demone, che mi ha detto che invece era vivo. Poco dopo ho iniziato le ricerche. Sto andando a Lankara, per vedere se è lì.”
“Lankara.” ripeté Selis, rabbuiandosi.
“Sì… qualcosa non va? Che ti è successo, bambino mio? Perché sei qui? Cosa vuole il re da te? No, non rispondere adesso, non abbiamo tempo. Devo liberarti.”
Nell fece per alzarsi, ma Selis lo trattenne e scosse il capo.
“Io morirò qui, padre. Sono malato, non ho le forze per fuggire.”
Ad avvalorare tale affermazione, tossì forte con una mano premuta davanti alla bocca. Quando la ritrasse, il palmo era sporco di sangue.
“Che hai?! Ti serve un guaritore subito!” esclamò Nell preoccupato.
“No!” gemette, rinserrando la presa, “Ti prego, resta ancora un po’, solo un altro po’. Raccontami cosa hai fatto, dove sei stato, chi hai conosciuto. Voglio sentire la tua voce.”
Nell digrignò i denti, incassò la testa nelle spalle e pianse.
“Non piangere, mostrami il tuo sorriso. Per favore.” lo supplicò Selis, reprimendo a fatica un altro attacco di tosse.
Il ragazzo dovette sforzarsi molto, ma alla fine arrestò i singhiozzi e si costrinse a piegare le labbra nel sorriso più sincero che riuscì a fare.
“Ecco, così. Dei, quanto mi sei mancato.” sospirò commosso, “Su, ora parlami.”
Nell deglutì, si asciugò le lacrime e scoccò altri baci sulle mani del figlio. Era ancora dell’idea di provare a scappare, ma con Selis in quelle condizioni non avrebbero fatto molta strada. Doveva arrendersi all’evidenza di non poterlo salvare?
No, deve esserci una soluzione.
“Nell, non pensare. Abbiamo i minuti contati, non sprechiamoli. Coraggio, dimmi tutto.”
Con grande difficoltà, gli riassunse sommariamente gli anni trascorsi nella valle di Mesil, presso la sua vecchia dimora, in compagnia della sorella, del cognato e della nipote. In seguito, passò alla narrazione dei suoi viaggi: gli parlò delle città che aveva visitato, delle persone che aveva incontrato, delle disavventure a cui era andato incontro, delle fughe rocambolesche, le marce forzate, gli uomini che aveva dovuto uccidere per difendere se stesso e il suo segreto, le scoperte che aveva fatto. Glissò sul suo breve ritorno a Rocca Smeralda undici anni prima, compiuto sotto la spinta di una forte nostalgia, per timore che Selis potesse rimproverarlo di non essere venuto a salutarlo. Gli rivelò della combriccola di ladri che, da Ferenthyr, si era unita a lui durante il tragitto verso Dunaster. Gli disse di Reeven, mettendolo al corrente della sua natura ibrida, e di come lo aveva abbandonato per risparmiargli pericoli inutili. Tenne per sé il bacio e le sensazioni contrastanti che provava per lui, soffermandosi piuttosto su aneddoti divertenti che potevano alleviare la pena di Selis. Riuscì a farlo ridere un paio di volte.
Poi fu il turno di Selis. Volendo accontentarlo, Nell ascoltò paziente, senza interromperlo, anche se aveva fretta di concludere quella conversazione per tirarlo fuori di lì prima che le guardie iniziassero la ronda.
“Dopo che Djibres morì e Kwan fu messo fuori gioco, l’esercito si disperse. I cittadini, me compreso, lavorarono incessantemente alla rimozione delle macerie e in pochi mesi la vita riprese. Alcuni mi chiedevano che fine aveste fatto tu e Ysril, e se avessi intenzione di prendere il mio posto come nuovo signore della Rocca - non dissi mai a nessuno che ero stato adottato, solo mia moglie lo sa -, ma rifiutai. Il castello sarebbe rimasto vuoto, così decisi. E poi, diciamolo, non ero fatto per essere un Lord.”
Nell ridacchiò, richiamando alla mente un Selis bambino che scorrazzava qua e là come un selvaggio.
“Mi proposero di entrare nel consiglio cittadino per ricoprire un posto d’onore, poiché secondo loro, come legittimo erede e uomo di alto lignaggio, dovevo pur vantare una carica di quale tipo. Di nuovo, rifiutai. Tutto ciò che desideravo era vivere una vita semplice con la ragazza che amavo. Ricordi Delia, la figlia della cuoca?”
“Ah! Lo sapevo che vi sareste sposati! C’era sintonia tra voi.”
“Fu una cerimonia tranquilla, con pochi invitati. In quel periodo mi impegnai anche a costruire la nostra casa, in campagna, sulle colline, perché non potevamo continuare a stare dai suoi genitori. A lavori ultimati, ci trasferimmo. Delia era già incinta all’epoca e in primavera mi diede una figlia, Seyran. Cinque anni dopo ebbe un maschio, Wes.”
“Nipotini…” sospirò sognante Nell.
“Li adoreresti. Se mai un giorno ripassassi di là, va’ a conoscerli. E da’ loro un bacio da parte mia.”
“Ci andremo insieme.”
Selis sorrise malinconico, tossicchiò e proseguì: “Comunque, nonostante non volessi avere niente a che fare con l’amministrazione della cittadella, le persone non smisero di considerarmi il loro signore. Spesso venivano da me a chiedere aiuto o consiglio, e io che potevo fare? Fregarmene? Perciò capitava che intervenissi in qualche scaramuccia tra vicini, ma per fortuna Rocca Smeralda è sempre stata pacifica. Col passare del tempo, la gente cominciò a chiamarmi ‘custode della Rocca’, benché non facessi assolutamente niente di così eclatante per meritarmi questo titolo. Ho lasciato che il castello andasse in rovina, non ci sono più entrato. Confesso di aver sempre avuto paura di avventurarmi di nuovo in quei corridoi e in quelle stanze.”
“Perché?”
“Non lo so. Tendevo ad associare Rocca Smeralda a Ysril e la cosa mi metteva i brividi. Sebbene sia sempre stato gentile, negli ultimi giorni, quando Kwan ti prese in ostaggio, mi spaventò a morte. I suoi occhi rossi talvolta compaiono nei miei incubi. Temevo di incrociarlo sulle terrazze, di intravedere il suo volto dalle finestre, di udire il tintinnio dei gioielli che accompagnava i suoi passi…” il suo sguardo si perse in lontananza, ma tornò in sé un istante più tardi, “Perdonami, non dovrei dirti questo, è ingiusto da parte mia. Ysril è stato buono con me, non mi ha mai fatto del male. Eppure, non so come spiegarlo…”
Si morse un labbro e scrollò le spalle, liquidando il discorso.
“Poi, dieci anni fa, dei soldati di Dunaster mi prelevarono da casa mia, davanti agli occhi di Delia e dei miei figli. Il sole era appena tramontato, eravamo seduti a tavola a desinare. Wes rideva per qualcosa che aveva detto sua sorella, non rammento cosa. Fecero irruzione con le spade sguainate, rovesciarono il tavolo, picchiarono mia moglie e urlarono ai miei figli di non muoversi. Non risposero ad alcuna delle mie domande, limitandosi a legarmi i polsi e a mettermi un sacco di tela in testa. Mi trascinarono via di peso. Sento ancora nelle orecchie le grida di Delia e i richiami dei miei bambini. Implorai che risparmiassero la mia famiglia e uno di loro mi promise che nessuno li avrebbe toccati se avessi collaborato. Accettai. Da allora non li ho più rivisti.”
La sua voce si spense e Nell lo abbracciò, cercando di trasmettergli calore.
“Non c’è stato giorno che non pensassi a te, Selis, ma non ho mai avuto il coraggio di tornare a Rocca Smeralda, neanche una volta.” mentì in parte, “Mi dicevo che lo stavo facendo per proteggerti, la mia missione era pericolosa e non volevo coinvolgerti. Mi dicevo che era meglio restare alla larga, poiché se mi avessi rivisto ti saresti allarmato. E se qualcuno del posto mi avesse riconosciuto, mi avrebbero additato come un mostro, dandomi la caccia e spargendo la voce che Lord Nell era ancora vivo. Dovevo mantenere la copertura, far credere che fossi morto per potermi muovere con più libertà. Però la verità è un’altra.” la voce si incrinò, gli strinse la mano e ne baciò le nocche, affranto, “Non potevo tornare perché a Rocca Smeralda avevo troppi ricordi. Il peso di quei ricordi mi ha tormentato sin dal giorno in cui me ne sono andato, e lo fa tuttora, sia quando dormo che quando sono sveglio. Mi dispiace, sono stato un codardo, ti ho abbandonato… sono un pessimo genitore… mi dispiace tanto, Selis.”
“Oh, Nell. Non addossarti colpe che non hai. Invece sei stato un buon padre, credimi. Gli anni trascorsi a Rocca Smeralda come tuo figlio sono stati i più felici della mia vita. Certo, non mi lamento di ciò che è venuto dopo, ma quei giorni della mia infanzia, circondato da amore e ricchezze, sono insostituibili e indelebili. Mi hai dato molto, mi hai reso forte, giusto, gentile, un uomo degno di fiducia. Mi hai allevato nel migliore dei modi e mi hai fornito i mezzi per diventare un adulto di cui essere orgoglioso. Ho conquistato il cuore di mia moglie, ho avuto dei figli e li ho cresciuti con lo stesso affetto che tu mi hai donato. Hai fatto le tue scelte, non importa se erano giuste o sbagliate, e nessuno ti biasima. Tu non sei una persona ordinaria, sei speciale. Lo sei sempre stato. Lo saresti anche se Ysril non ti avesse… cambiato. Non dubitare mai della tua bontà, resta aggrappato ai tuoi valori e ai tuoi ideali, perché in futuro essi saranno la tua ancora di salvezza. E non dimenticare che ti voglio bene. Te ne vorrò sempre.”
“Scusami…” mormorò, abbassando il capo.
“Non hai nulla per cui chiedere scusa. E anche se fosse, ti perdono.”
Selis gli sollevò il mento, fece aderire le loro fronti e gli sorrise dolcemente. Nell ricambiò e portò una mano ad accarezzargli la guancia. Poi si rannuvolò e strinse le labbra in una linea sottile.
“Adesso dimmi: perché re Sylas ti tiene qui? A cosa gli servi?”
“Mi sta facendo tradurre un manoscritto in lingua rak’shra.”
“La lingua dei demoni? Ma tu che puoi saperne?” indagò stranito, raddrizzando la schiena.
“Ysril, qualche volta, mi parlava in rak’shra. Ero piccolo, non capivo quasi niente, ma mi ha dato i rudimenti che adesso Sylas mi impone di sfruttare per la traduzione.”
“Ysril non parlava in rak’shra.” replicò sicuro Nell.
“Sì, invece. Lo faceva sempre quando eravate soli.” rivelò l’uomo, lentamente, mentre lo scrutava con perplessità.
“Come fai ad esserne sicuro?”
“Spesso, quando mi capitava di passare davanti a una stanza in cui c’eravate voi, mi fermavo ad origliare. Componeva per te odi d’amore…” sbuffò una risata e si grattò la nuca imbarazzato, “Non c’era giorno in cui non la usasse, tranne che in compagnia di estranei. In quel caso, tornava alla lingua umana. Sul serio non te ne sei mai accorto?”
Nell scosse il capo, basito: “Non mi sembrava di parlare una lingua diversa. O che Ysril lo facesse. Comprendere ciò che diceva mi veniva naturale.”
Ripensò a Radek, agli scambi di battute che ebbe con Ysril nella grotta, e a quel demone che si presentò a lui nella radura per dirgli che suo marito era sopravvissuto. Ricordava ogni singola parola, li aveva capiti benissimo. Com’era possibile? Era per caso un altro effetto collaterale della mutazione che aveva subito?
“Cosa c’è in quel manoscritto?”
“Incantesimi di evocazione, per lo più, e altri per aprire il portale verso il regno dei demoni.”
“Un portale… sì, ne parla anche il mio libro.”
Prese la borsa e sfilò il tomo, mostrandolo a Selis. 
“È antico. E pregiato. Come ne sei entrato in possesso?”
“L’ho rubato dalla biblioteca di un duca, a Ferenthyr. Lo conservava in un baule nascosto sotto il pavimento.”
“Ti sei dato al furto, Nell?”
“Per una buona causa.” farfugliò imbronciato, “L’ho cercato a lungo. Un mio amico monaco vi accennò sei anni fa e risvegliò il mio interesse. Ho girato molte città, seguendo voci e lettere private di nobili ormai dimenticati che lo menzionavano, prima di imbattermi in un registro datato due secoli orsono, nella biblioteca di un collezionista del sud. All’epoca, i miei viaggi mi avevano condotto a Karkossa, praticamente la capitale del contrabbando, ci puoi trovare di tutto. A quanto pare, in passato era usanza trascrivere i nomi delle persone in possesso di determinati testi considerati pericolosi. In quel registro scovai il titolo di questo tomo, Magia Demoniaca e Luoghi Occulti, con accanto il nome della famiglia del duca. Non avevo garanzie che fosse ancora in mano loro, ma ho avuto fortuna. È scritto molto bene, un’opera notevole. Ho già memorizzato alcuni semplici incantesimi - ce n’è uno che insegna come trasformare il sangue in un acido corrosivo, potrebbe avere molte utilità - e mentre venivo a Dun’har ho iniziato a leggere il capitolo che parla, appunto, di un portale.”
“Fammi vedere.”
Nell eseguì. Non appena lo sguardo di Selis cadde sulle pagine, trasalì. 
“Ma… è scritto in rak’shra!” esclamò, protendendosi per guardare meglio, “Tu sai leggerlo?! Scusa, domanda idiota: sai parlarlo, di certo lo saprai anche leggere. Diamine, volumi di questo tipo non esistono più, sono andati distrutti durante l’Epurazione. I superstiti sono conservati al Grande Tempio e nessuno può metterci le mani. Mi sorprende che un duca qualsiasi ne avesse uno all’insaputa di tutti.”
“Sylas come ha ottenuto quello che ti sta facendo tradurre?”
“La famiglia reale lo ha custodito per generazioni, lontano dagli occhi dei sacerdoti inquisitori. Ma finora si trattava più di un cimelio storico che una vera risorsa. Sylas ha deciso di iniziare a studiarlo circa dieci anni fa, dopo aver trovato l’Occhio di Xion.” spiegò sbrigativo, “Tu riesci a leggerlo veramente?”
Nell sfoggiò l’espressione più confusa del suo repertorio e lesse alcune righe, senza notare nulla di strano.
“Come fai?” indagò Selis, curioso e impressionato.
“Non lo so. Questa scrittura per me è identica a qualsiasi altra, il significato delle frasi si palesa con naturalezza, non devo nemmeno sforzarmi.”
“Va bene, non divaghiamo. Dicevi, sai dell’esistenza del portale?”
“Sì e ho intenzione di attraversarlo.”
“Come farai?”
“Qui viene descritto un incantesimo che mi permetterà di creare una crepa temporanea, in cui mi infilerò.”
“È pericoloso. E se i demoni ti scoprissero?”
“Meglio. Mi porteranno da Ysril.”
“Chi ti dice che non ti uccideranno subito? E se Ysril non è a Lankara?”
“Mi stai sottovalutando, Selis? Non sono uno sprovveduto.” 
“So che te la caverai, sei in gamba, ma fa’ attenzione.”
“Sì, mamma.” sbuffò levando gli occhi al cielo, “Quali sono i piani di Sylas? Perché voleva sapere di me e Ysril?”
“Chissà da chi, è venuto a sapere che Ysril era un demone ed era interessato a scoprire come acquisire poteri demoniaci. Era convinto che io lo sapessi, ma gli è andata male. Non so di preciso cosa abbia in mente ora.”
“Qualche teoria?”
“Secondo me, vuole aprire un passaggio per Lankara e reclutare i demoni per combattere la sua guerra.”
“Reclutarli? Non obbediranno mai ad un essere umano!”
“Se userà l’Occhio di Xion, potrebbe riuscirci. Chissà quali immensi poteri nasconde quella pietra.”
“Tu l’hai vista?”
“No, mai.”
Nell si mordicchiò un labbro, quindi domandò: “Perché Sylas desidera la guerra?”
“Non ne ho idea. Vuole ampliare il territorio? Vuole unire i regni sotto un unico re? Fatto sta che se lo incontrassi, ti sembrerebbe di trovarti al cospetto di un folle. Non fa che seminare morte e caos, non è mai sazio. E chi gli si oppone, fa una brutta fine.”
“Ora che ci penso, perché ci sei solo tu qui? Dove sono gli altri prigionieri?”
“Re Sylas non fa prigionieri.” proferì grave, “Se non contiamo gli inquilini del piano di sotto.” aggiunse dopo un momento.
“Eh?”
“Fa’ silenzio e ascolta.”
Nell tese le orecchie, ma non udì altro suono a parte quello dei loro respiri.
“Non sento niente.”
“Bah. A volte chiacchierano così tanto da tenermi sveglio per giorni. Guarda là, in fondo al corridoio.”
Nell seguì la direzione indicatagli da Selis e assottigliò le palpebre per mettere a fuoco le forme nell’oscurità.
“Cosa dovrei vedere?”
“Nel pavimento c’è una buca. Proprio laggiù. Sono là sotto.”
“Chi?”
“Demoni. Ne ho contati almeno sei.”
Il biondino impallidì: “Che cosa?! Che ci fanno qui? Come ha fatto Sylas a catturarli?”
“Non lo so, ma credo che li voglia usare come cavie. Però, se continua a non nutrirli, moriranno. O peggio, si ribelleranno.”
“Da quanto?”
“Qualche anno. Sono i miei compagni di cella.” scherzò, un sorriso amaro sulle labbra screpolate.
“Di cosa chiacchierano?”
“Non li capisco, parlano troppo velocemente. Quando lo fanno, ovvio.”
“Senti… perché non ci alleiamo con loro? Potremmo aiutarci a vicenda.” propose, mentre un’idea azzardata prendeva forma nella sua mente.
“Sei matto?”
Nell studiò a lungo il punto in cui si trovava la buca, vedendovi un’opportunità, ma non era certo che avrebbe funzionato. I demoni non potevano essere controllati, rispondevano soltanto alla loro regina. O alle streghe, se esse li assoggettavano con degli incantesimi al loro volere. Quindi, a meno che a palazzo non ci fossero delle streghe al servizio della corona, Sylas non aveva speranze di costringerli a eseguire i suoi ordini. Nemmeno Nell.
Beh, tentar non nuoce. Potrebbero rivelarsi utili, se offro loro qualcosa in cambio.
Stava per esporre il suo piano a Selis, quando questi lo ghermì per una spalla e lo spinse bruscamente di lato, facendogli cozzare il fianco contro la dura pietra. 
Prima che Nell potesse afferrare la situazione e reagire, un sibilo metallico gli sfrecciò accanto. Ne seguì la traiettoria con lo sguardo e subito dopo l’ossigeno gli venne strappato via dai polmoni. In un attimo, avvertì chiaramente il sangue gelare nelle vene e il cuore cessare di battere.








 
  
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