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Autore: Gagiord    23/04/2017    1 recensioni
[Prima classificata al contest Seconda chance ~ perché tutti ne meritano una indetto da AriaBlack sul forum di EFP]
E volere bene, per lui, significava anche questo: stargli sempre accanto, soffrire per il suo bene ed essere felice se anch’egli è felice.
Atsuya non aveva consapevolezza di amare realmente Afuro, ma di sicuro gli voleva bene. Ma voleva bene anche a Shirou.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Afuro Terumi/Byron Love, Hayden Frost/Atsuya Fubuki, Shawn/Shirou
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nickname su EFP e sul forum: Gagiord; Shizuha Nakamo;
Titolo: Hold my hand;
Fandom: Inazuma Eleven;
Personaggi (e pairing, se presente): Atsuya Fubuki; Shirou Fubuki; Afuro Terumi; Tadashi Hera; [Atsuya x Afuro onesided]; [HerAfu accennata]; 
Introduzione: [Storia partecipante al contest Seconda chance ~ perché tutti ne meritano una indetto da AriaBlack sul forum di EFP]
E volere bene, per lui, significava anche questo: stargli sempre accanto, soffrire per il suo bene ed essere felice se anch’egli è felice.
Atsuya non aveva consapevolezza di amare realmente Afuro, ma di sicuro gli voleva bene. Ma voleva bene anche a Shirou.
Note dell’autore: Ma salve a tutti! Intanto, ringrazio infinitamente AriaBlack per aver indetto questo contest, ha fatto accendere un sacco di lampadine in molti autori, compresa me! Questa è sicuramente la one-shot di cui sono più soddisfatta ‒ anche se non ne ho scritte poi così tante ‒, quindi ti ringrazio il doppio. Non sono altrettanto soddisfatta del titolo, ma dopotutto non ci sono mai andata d'accordo, quindi penso che mi dovrei rassegnare. :'D Comunque, per specificare, “Hold my hand” è sia figurato sia letterale, ma di questo ne parlerò nelle note finali.
E niente, vi posso solo dire che è triste, triste e ancora triste (valangate di angst, tanto per restare in tema con i fratelli Fubuki ‒ sì, lo so, sono di un cattivo gusto allucinate xD). Ci vediamo alle note finali!

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Hold my hand


 
«Atsuya, tutta tua!» gridò il fratello, e, subito dopo aver preso possesso di palla, gliela lanciò con un lungo passaggio calcolato alla perfezione: gli cadde proprio davanti ai piedi.
Atsuya ghignò, sicuro, mentre si dirigeva a passo spedito verso la porta.
Tuttavia, un ragazzo dai lunghi capelli biondi si parò dinanzi a lui, e, probabilmente approfittando dell’”effetto sorpresa”, gli rubò facilmente il pallone con un movimento elegante.
Il sorriso tronfio e sbilenco fu sostituito da un’espressione stupita.
«Allora? Il tuo migliore amico viene dalla Corea a trovarti, e tu non lo saluti neppure?»
Shirou provò una punta di gelosia alle parole del biondino, ma non lo diede a vedere. In realtà, si vergognava: suo fratello aveva il pieno diritto di avere degli amici, e lui non poteva certo impedirglielo.
I giocatori dell’Hakuren, con cui entrambi si stavano allenando, si riunirono vicino al difensore, e assistettero alla scena, lasciandosi scappare commenti e borbottii incomprensibili. Avevano visto quel ragazzino diverse volte insieme ad Atsuya, ma mai in campo. Prendere palla al loro compagno era qualcosa che ritenevano decisamente irraggiungibile, soprattutto con il campo coperto di neve ‒ loro erano abituati, ma lui no.
Dopo essersi ripreso dall’attonimento, Fubuki fece un passo avanti, lo guardò interrogativo e gli chiese: «Com’è che sei qui?»
Afuro sorrise apertamente, per poi aggrapparsi al collo dell’amico. «Sono tornato, Atsuya!» Si scostò di poco, per scrutare meglio la faccia di Atsuya, il quale aveva le gote leggermente arrossate ‒ magari non per il freddo o per l’affaticamento. «Mi sono trasferito di nuovo in Giappone» spiegò, con gli occhi rossicci che brillavano di felicità.
«Ma...» provò Atsuya.
Terumi, tuttavia, intuendo cosa stesse per dire, scosse il capo; Fubuki vide il sorriso morirgli sul volto. «Mia madre ha trovato lavoro qui.»
Si staccò lentamente dall'abbraccio, e Atsuya avvertì un’orribile sensazione di vuoto. Si schiaffeggiò mentalmente. In ogni caso, non poté che essere felice per Afuro ‒ e per se stesso, dato che rivederlo più spesso non gli sarebbe dispiaciuto affatto.
Dopo la morte del padre, che sosteneva economicamente la famiglia, lui, all’età di otto anni, e sua madre erano stati costretti a trasferirsi da città in città, mentre la donna faceva piccoli lavoretti per continuare a mantenere se stessa e suo figlio. Atsuya ricordava benissimo che la voce di Afuro era perennemente velata da una tristezza inespressa, quando lo sentiva al telefono. Poi, dopo circa due anni di vagabondaggio, sua madre aveva finalmente trovato un lavoro fisso, e si erano dovuti trasferire definitivamente, purtroppo, nella sua città natale.
Circa una volta all’anno ‒ solitamente nel periodo natalizio ‒, Afuro tornava nell’isola di Hokkaido. Non raccontava mai a Fubuki cosa facesse nel suo paese d’origine; si dimostrava, invece, calmo, bonario, orgoglioso ma comunque gentile, come sempre.
 
 
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Shirou gli sorrise caldamente.
Atsuya, per un attimo, si sentì in colpa. Poi, però, ricambiò il sorriso, anche se con una certa titubanza.
«Anche oggi daremo il massimo! Vero, Atsuya?» cercò conferma, mentre s’infilava la maglia a maniche lunghe della sua squadra, con la sua solita calma.
Il fratello si torturò l’interno della guancia con i denti, e frugò nella sua mente per trovare il modo migliore per dirgli che, quel giorno, avrebbe saltato gli allenamenti. Sapeva che Shirou ne sarebbe rimasto deluso, e lui tutto voleva fuorché rendere infelice la persona che da sempre lo sosteneva e gli stava accanto.
«Io... oggi non ci potrò essere. Mi vedrò con Afuro...» Vedendo il fratello maggiore fare un’impercettibile smorfia, smise di parlare per qualche attimo, ma poi riprese, con tono più fermo di prima. «Non ci vediamo da tanto tempo, dopotutto. Mi spiace... Ci alleneremo per bene domani, va bene?»
A sentire il nome di Terumi, Shirou era stato nuovamente assalito dalla gelosia. Non capiva nemmeno lui il perché e ‒ ne era certo ‒, finché non l’avesse compreso, sarebbe stato impossibile non provare quel tremendo sentimento che lo corrodeva.
 
 
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Atsuya spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro, appoggiato al muretto della sua scuola, sembrando un po’ un orologio a pendolo.
Aveva le mani nelle tasche del giubbotto, metà viso e il collo nascosti dietro la sciarpa di morbida lana bianca. Scrutava distrattamente il cielo: stavano addentrandosi nella stagione fredda, e le nuvole grigie che aleggiavano sopra la sua testa lo dimostravano.
Una folata di vento gelido soffiò, un brivido gli percorse la schiena; dopo aver fatto un verso infreddolito, si strinse ancor di più negli abiti e socchiuse gli occhi.
«E così ti stai anche addormentando?»
Fubuki sgranò gli occhi e si tirò in avanti tanto violentemente che, se non avesse avuto un equilibrio così saldo, sarebbe sicuramente finito faccia a terra.
Non l’aveva sentito arrivare: era stato silenzioso e senza dubbio aggraziato come una farfalla.
Il ragazzo dai capelli arancioni scrollò le spalle e arricciò le labbra in un’espressione indifferente. «Non è colpa mia se mi fai attendere come se fossi una ragazzina al suo primo appuntamento.»
Afuro s’imbronciò, colpito nell’orgoglio. E lui era orgoglioso. Tuttavia, decise stranamente di lasciare stare. «Allora, vogliamo andare?» lo esortò, invece, scostando blandamente una ciocca bionda che gli era ricaduta sugli occhi.
Atsuya mantenne l’aria da menefreghista, e s’incamminarono fianco a fianco verso una meta non precisa. In realtà, aveva talmente tante domande da fargli che non sapeva nemmeno da quale iniziare: Terumi era un suo amico d’infanzia, forse il suo unico vero amico. Nel periodo in cui era stato in Corea, però, si erano allontanati e a lui non andava per niente bene. Gli mancava troppo, ma non si sarebbe mai sognato di dirglielo. Alla fine decise di rimanere sul vago.
«Quindi? Che novità ci sono?» Lanciò un’occhiata di sbieco al ragazzo accanto a lui.
Afuro camminava a testa alta ‒ anche lui aveva il collo e il mento fasciati da una sciarpa, ma la sua era azzurra, simile al colore del cielo ‒, ma lo sguardo basso, quasi la neve fosse diventata la cosa più affascinante che avesse mai visto.
Sospirò, una nuvoletta di vapore si venne a creare dinanzi alle sue labbra. «Mia madre è morta.»
Lo disse con un tono che Atsuya reputò indecifrabile. Per la seconda volta nel giro di un quarto d’ora, strabuzzò le palpebre. Non si aspettava una rivelazione del genere.
Mia madre ha trovato lavoro qui.
Era per questo che gli aveva chiesto di “fare una passeggiata”? Sentì formarsi una voragine dentro il petto e il pianto salirgli in gola. Perché voleva piangere? Del resto, non l’aveva subito lui, il lutto. Avvertì, inoltre, una sorta di curiosità, e subito dopo dei sensi di colpa; ebbe la sensazione di essere inadeguato. Come poteva essere curioso riguardo a un argomento del genere? Si diede mentalmente del mostro. Inaspettatamente, però, Afuro continuò a parlare.
«Stava male da tanti anni, sai?» Non si girò a guardarlo, restò con lo sguardo puntato al suolo. «La depressione l’aveva fatta diventare pazza. I lavoretti» lo pronunciò con un veleno che non sapeva neanche lui stesso di possedere, «che faceva in giro non erano altro che lavori sporchi.» Rise amaramente. «Prostituzione.»
Atsuya lo fissava. Sperò che il suo sguardo non fosse compassionevole; anche quando la valanga gli aveva portato via i suoi, di genitori, tutti gli facevano le condoglianze e lo guardavano impietositi. Odiava quelle false cortesie. Il pensiero che qualcuno avesse potuto vivere una situazione come la sua non l’aveva mai sfiorato, aveva sempre posto se stesso e suo fratello al centro del mondo, come se solo loro avessero dei problemi. Soltanto in quel momento si rese conto che non sapeva come trattare Afuro ‒ lui, che tempo fa aveva attraversato quella stessa situazione.
«Poi però ha trovato veramente un lavoro. Non sapevo cosa facesse, e non lo so nemmeno ora.» Inspirò lentamente, e mormorò, con voce tremolante: «Secondo te cosa dovrei provare?»
Atsuya non comprese che era una domanda retorica, e stette a rimuginarci per un minuto buono.
Afuro si fermò improvvisamente, seguito dall’amico, e posò il suo sguardo vacuo su di lui. «Non riesco ad odiarla… ma non riesco nemmeno ad amarla. So che ha fatto tutto per mantenere anche me, ma io non riesco proprio… Non riesco a ringraziarla. Mi sento così stupido, Atsuya.»
Attorno a loro c’era solo un’immensa distesa di neve, e l’Hakuren era già diventata lontana. Fubuki non si era accorto di quanto avessero camminato, o di quanto facesse freddo. Si rese conto solo allora che Afuro piangeva. Si ritrovò senza nulla da dire, si morse il labbro e decise che non doveva dire nulla. Fece ciò che gli parve più sensato fare: mosse un passo avanti e lo abbracciò con trasporto. Sentì il suo corpo cominciare ad essere scosso da singhiozzi, e non poté far altro che stringerlo più forte a sé.
Azzardando, poi, posò una mano sui capelli biondi di Terumi e li carezzò piano. Le mani dell’altro trovarono appiglio sulle sue spalle.
Atsuya si sentì male. Voleva piangere anche lui, ma si disse che non sarebbe stato di alcun aiuto in quel modo ‒ non pensava di esserlo, comunque. Quando il compagno gli sussurrò tra i singulti un “Grazie”, Atsuya lo comprese. Afuro era un baratro, e lui c’era già caduto.
Non si trattenne più: pianse, pianse.
 
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«No, Atsuya, non puoi farlo sul serio!»
Non aveva mai visto Shirou così arrabbiato.
Ma, dopotutto, pensò, il motivo è più che valido.
Lo faceva, però, anche per lui.
Atsuya doveva diventare più forte.
 
 
«Dai, muoviti, che ti devo parlare!»
Atsuya gettò un’occhiata sulla mano del suo migliore amico stretta attorno al suo polso, e sentì le guance diventare sempre più calde.
Possibile che gli fosse impossibile comportarsi normalmente, in sua presenza? Il suo essere arrogante e all’apparenza insensibile scompariva completamente, lasciando posto a balbettii disconnessi e a contatti visivi evitati.
Afuro ‒ aveva scoperto da circa un mese, poco dopo il suo rientro in Giappone ‒ aveva la magica dote di fargli andare il cervello in pappa.
Arrivati nella piccola zona verde in mezzo a quel cupo bosco in cui erano soliti giocare e passare tempo insieme sin da quando erano bambini, il biondo lasciò la presa; Atsuya purtroppo dovette accettarlo rimase piuttosto deluso. Delusione del tutto ingiustificata, si appuntò. Tentando di nascondere l’imbarazzo, rivolse lo sguardo al volto serio dell'amico.
Afuro aveva le braccia lungo i fianchi, le mani chiuse in due pugni: sembrava nervoso. «Atsuya...» esordì. La sua voce aveva perso la nota mite che da sempre la caratterizzava, e ora appariva più pesante che mai. «Tu... mi seguiresti?»
Fubuki si accigliò. Cosa significava?
Afuro dondolò da un piede all’altro, mentre l’agitazione prendeva il possesso del suo corpo. Ma che diamine aveva detto? Una frase senza senso, ecco cosa.
Decise di ricominciare. «Ecco... Mi hanno offerto posto in una squadra. Una squadra forte, ma forte per davvero, Atsuya.»
Il ragazzo dai capelli color arancio non capì ‒ già bastava Terumi stesso a bruciargli le sinapsi, ma ciò che diceva gli pareva quasi insensato.
La sua perplessità doveva essere stampata sul viso, perché Afuro proseguì, ma stavolta la sua voce si ridusse ad un sussurro, tanto che Atsuya fu costretto a protendersi leggermente. «Io... vorrei che tu venissi con me.»
Sbarrò totalmente gli occhi. Terumi sapeva bene che lui giocava nella squadra della sua piccola scuola, insieme al fratello. Erano stati proposti loro numerosi ruoli in squadre di grande fama, ma conosceva Shirou meglio di chiunque altro e sapeva che non avrebbe lasciato quel luogo tanto facilmente. E, nonostante la gloria fosse sicuramente gradita, anche lui era restio a trasferirsi ‒ ad esser sincero, ci si era affezionato, a quella scuola, e il luogo in cui i suoi genitori erano morti era difficile da abbandonare.
O, forse, dipendeva tutto da suo fratello. Perché, pensava Atsuya, Shirou aveva bisogno di lui. Era a conoscenza, tra l’altro, del fatto che il fratello fosse molto possessivo.
Afuro notò, ancora una volta, lo smarrimento dell’amico ‒ non che fosse troppo complesso. «Saremo speciali!» esclamò, e Fubuki colse una scintilla di eccitazione nei suoi occhi. «Saremo più forti! Potremo finalmente giocare insieme, come facevamo da piccoli.» Gli mise le mani sulle spalle, scuotendole un po’, ed incatenò il suo sguardo in quello grigio dell’altro. «Nessuno ci potrà battere.»
Atsuya sentì formarsi un groppo in gola. Erano le parole che Shirou gli ripeteva sempre: il più grande rubava la palla, il più piccolo segnava il goal. Anche suo padre, prima di morire, aveva detto che senza dubbio sarebbero diventati una coppia vincente.
Tuttavia, non riuscì a non essere ammaliato dalle parole di Afuro. Avrebbe potuto diventare più forte, se solo l’avesse voluto. Avrebbe potuto smettere di essere debole. Inoltre, sarebbe stato al fianco della persona per cui aveva scoperto di avere una cotta da diverse settimane. E volere bene, per lui, significava anche questo: stargli sempre accanto, soffrire per il suo bene ed essere felice se anch’egli è felice.
Atsuya non aveva consapevolezza di amare realmente Afuro, ma di sicuro gli voleva bene. Ma voleva bene anche a Shirou.

Occhi negli occhi, quasi fosse in uno stato di trance, Atsuya non riuscì a rifiutare. Recitò un sommesso Sì”, ma subito dopo il groppo in gola mutò in un dolore sordo nel petto.
Il biondo annuì, leggermente incredulo. Atsuya ‒ che fosse questione di principio o di vera e propria riluttanza non lo sapeva ‒ non si lasciava mai convincere senza opporre resistenza.
Fubuki restò fermo nello stesso punto, a capo chino, anche dopo che Afuro lo aveva salutato.
Solo in quel momento, Atsuya lo realizzò.
Non era Shirou ad aver bisogno di lui, ma lui ad essere totalmente dipendente dal fratello.
Ma ormai era troppo tardi per pentirsi.
 
 
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Scorse la figura di Shirou tra gli spettatori. Non si aspettava che avesse anche lasciato l’Hokkaido per guardare la sua partita; o almeno, non dopo che lui aveva abbandonato lui e la squadra.
 
 
I suoi compagni di squadra non gli piacevano particolarmente. Ce n’era uno, soprattutto, che non poteva proprio vedere: un certo Hera Tadashi. Tuttavia, non poteva mostrare questa sua irritazione agli altri, men che meno in campo: Hera, come lui, era un attaccante.
Ma Atsuya aveva notato le occhiate che riservava ad Afuro. E questo non gli andava per nulla bene. Non credeva fosse senso di possessività, e nemmeno gelosia. Semplicemente, lo infastidiva vederli parlare insieme, vedere Afuro ricambiare con uno sguardo che non gli aveva mai rivolto; lo infastidiva, in particolare, la maschera del biondo e l’arroganza degli altri che pensavano di sapere tutto. Perché, invece, lui era
sicuro di sapere tutto: Afuro si comportava, se possibile, ancora più sfrontatamente dei loro compagni, e Atsuya lo conosceva bene abbastanza da poter dire che stava fingendo. Non poteva dire, però, di conoscere l’origine di quella superbia: che fosse la necessità di essere accettato o, più meramente, il Nettare degli Dei, o addirittura entrambi, non lo sapeva.
«Toglietevi dai piedi, perdenti!» gridò Atsuya.
Si stavano allenando nel campo della Zeus, divisi in due squadre. Kageyama Reiji osservava il tutto dal bordo campo, seduto su una panchina. Nessuno riusciva a capire cosa pensasse, dietro quell’espressione imperscrutabile e gli occhialini scuri.
Fubuki ed Hera erano nello stesso schieramento
‒ modulo 4-4-2, loro le due punte in attacco ‒, e il primo correva ad una velocità impressionante, col pallone ai piedi. Per Hera non sarebbe stato un problema raggiungerlo e rubarglielo, ma voleva vedere cosa avrebbe fatto per superare Afuro in difesa.
Di certo, il Nettare degli Dei aveva incrementato di molto le sue possibilità fisiche; ma ciò valeva anche Afuro.
Atsuya avanzava, con quel suo solito ghigno stampato in viso, ed era quasi arrivato alla porta.
Nonostante fosse solo un allenamento, Terumi non poteva passare in secondo piano; così si era fatto conoscere e così doveva continuare a mostrarsi ‒ si era addirittura dato un soprannome,
Aphrodi, per sottolineare che lui era cambiato, non era più lo stesso.
Perciò sfrecciò davanti al ragazzo che un tempo poteva definire “suo migliore amico”, e gli prese palla con una facilità che nemmeno lui si aspettava.
Che sia distratto?, pensò, ma non lo disse.
Fubuki ebbe un
déjà vu. Ripensò al loro primo incontro dopo tanto tempo, in Hokkaido; gli sembrava passata un’eternità, eppure erano solo due mesi. Non restò troppo deluso, comunque, della perdita del pallone: sapeva di non star giocando al massimo delle proprie possibilità, anche perché faceva quasi tutto il Nettare degli Dei. Era letteralmente diventato un burattino.
Prima che potessero fare qualsiasi altra cosa, un fischietto suonò tre volte. Tutti si girarono verso Kageyama, ora in piedi, che aveva una mano alzata. «Va bene così» annunciò, austero e piatto, poi si voltò e si incamminò verso l’uscita del campo.
Atsuya non fece in tempo a volgere tutto il corpo verso
Aphrodi, che già Hera si era precipitato da lui. Avvertì una fitta al petto e contrasse il viso in una smorfia disgustata. No, non era un déjà vu, si disse: il giovane dai lunghi capelli dorati e gli occhi di fuoco non era Afuro, per lui; non più.
Rimase lì, fermo, ad osservare distrattamente e con occhi vacui i gruppetti che si erano venuti a creare; lui era solo.
Si chiese se anche lui stesso non fosse cambiato, e il dubbio gli fece provare sensazioni la cui intensità lo sorprese: rabbia, rancore e impotenza.

Odiava quella maschera. E nel frattempo, la indossava anche lui.
 
 
Si sentì umiliato. Probabilmente, constatò, tutti si sentivano umiliati; tuttavia, il suo egocentrismo gli permise di pensare solo a quanto lo fosse stato lui.
Aveva il capo chino, mentre sentiva gli elogi alla Raimon e le grida di gioia della squadra. Sì, li sentiva, ma non li ascoltava veramente. Riusciva solo a pensare a quanto fosse patetico.
Non voleva incontrare lo sguardo del fratello: aveva paura di essere criticato ‒ non poteva esserne sicuro, ma, in quella sorta di trance, decise che era meglio non rischiare, poiché non era certo di poter reggere altro dolore.
 
 
Shirou entrò negli spogliatoi della Zeus.
Era tutto vuoto.
No, guardando meglio si poteva scorgere una figura minuta, rannicchiata su se stessa in un angolo dell'enorme stanza.
Gli si strinse il cuore, e il corpo cominciò a muoversi da solo e ad avanzare verso la persona che emetteva singhiozzi sommessi.
Atsuya non lo sentì arrivare. Era così immerso nella sua delusione, nella sua tristezza, che tutti i suoni dalla realtà gli pervenivano ovattati.
 
Ho perso sono debole
no cosa devo fare basta vi prego lasciatemi
no non voglio chi sono perché.
 
Shirou lo sollevò dalla panchina e lo strinse a sé, silenziosamente, senza dire nulla. E Atsuya non oppose resistenza.
Poi un vagone di pensieri lo investì, mentre il fratello lo stringeva ancora più morbosamente e lui restava immobile, inerte.
Era stato così ottuso.
Non si era mai reso conto che la sua mano era sempre stata tesa verso di lui, e lui aveva sempre cercato di afferrarne un'altra. Ma non poteva farne una colpa di Afuro: era sempre stato lui così silenzioso, lui aveva preteso che comprendesse senza sapere, di fatto, nulla.
La presa di coscienza non fece altro che aumentare il volume dei suoi lamenti; almeno riuscì a stringersi a Shirou.
«È paura?» chiese il più grande dopo un tempo indefinito che ad Atsuya parve un’eternità, senza sciogliere l’abbraccio.
Atsuya cadde nuovamente a sedere sulla panchina: non era sicuro di potersi reggere in piedi, e nonostante fosse certo che Shirou l’avrebbe sostenuto, non voleva farlo preoccupare; o almeno, non più di quanto lo fosse già.
Si coprì il viso con le mani, fece cenno di sì con il capo e singhiozzò più forte. Si sentiva così imbarazzato…
Il difensore si precipitò accanto a lui, ma non lo toccò, perché aveva la sensazione che, se l’avesse fatto, Atsuya sarebbe tornato alla realtà e si sarebbe chiuso come un riccio.
«Di tante cose, onii-chan...»
Shirou sussultò: non lo chiamava “onii-chan” da così tanto tempo… Aveva parlato, comunque, e lui non aveva intenzione di interromperlo per un solo secondo. L’avrebbe ascoltato, avrebbe ascoltato tutto ciò che si teneva dentro da troppo.
«Ho paura di restare solo, dei cambiamenti… Perché quando le persone cambiano ti abbandonano? Perché ti abbandonano sempre tutti? Ne vale la pena...» Un altro singhiozzo. «Vale la pena di affezionarsi, se poi ti lasciano? Tutti i momenti passati insieme a qualcuno a cui tieni… Davvero possono sovrastare il dolore per la perdita di quel qualcuno?»
Ogni parola creava una piccola crepa nel cuore di Shirou. Non credeva che il suo fratellino fosse così disilluso… Quasi morto. Davvero aveva sempre pensato tutte queste cose? Perché lui non se n’era mai accorto, perché era stato così cieco? Ma, dopotutto, era impossibile rendersene conto: Atsuya era sempre lo stesso; anzi, non era, sembrava. Ma due fratelli non dovevano forse capirsi al primo sguardo?
Gli veniva da piangere, ma come avrebbe potuto continuare a parlare e ad ascoltarlo? No, doveva essere forte e trattenere le lacrime.
«È vero, non affezionandoti a qualcuno o a qualcosa, non potrai mai soffrire per la mancanza di quella cosa o di quella persona… Ma io credo che ne valga la pena.»
Alzò gli al soffitto e sospirò, come dovesse far mente locale e trovare le parole giuste.
«Di affezionarsi, intendo. Si finisce per diventare davvero vuoti, non provi più nessuna emozione. Secondo me, è mille volte meglio sentire qualcosa, anche doloroso, che smettere di essere umani. “L’uomo è un animale politico”, diceva Aristotele. È… impossibile che una persona non si affezioni a nessuno nel corso della sua vita. E amare è la cosa più bella del mondo, Atsuya, credimi. Ti permette di entrare nel cuore di una persona, di percepirlo, di vivere le sue stesse emozioni e sensazioni...» … ed evidentemente, io non ti amavo, aggiunse mentalmente, e dovette trattenere ancora una volta le lacrime.
L’attaccante alzò velocemente lo sguardo, fissandolo in quello del fratello. Shirou si scoprì un groppo in gola, vedendo i suoi occhi rossi di pianto. Ma non ebbe il tempo di farlo uscire sotto forma di lacrime ‒ per fortuna, si disse ‒, poiché Atsuya gli aveva già buttato le braccia al collo e aveva ricominciato a piangere, bagnandogli la maglia.
Shirou gli diede qualche pacca sulla schiena, ma decise che aveva già pianto troppo; non sapeva dire se fosse un gesto egoista o meno, ma non riusciva più a vederlo in quello stato, non poteva. Poggiò le sue mani sulle spalle dell’altro e lo allontanò con delicata forza, fino a che le sue braccia non furono tese davanti a lui.
«Avanza sempre, Atsuya», gli fece un debole sorriso, «proprio come un tiro di collo pieno.» Poi si mise in piedi con un leggerissimo sospiro.
Il fratello non sapeva da dove gli fosse venuto quel paragone, ma sorrise e si asciugò rapidamente le lacrime con il dorso della mano. Poi annuì.
Shirou si voltò le spalle, continuò però a guardarlo e a sorridergli e gli tese una mano. Il più piccolo si alzò senza afferrarla e gli rivolse un’occhiata perplessa.
Gli sorrise. «Prendila
Non era un ordine, era un invito.
E Atsuya accettò. Gli prese la mano e avanzarono, insieme.




Note d'Autrice:
Eh, io ve l'avevo detto che è triste. Però dai, almeno non è un bad ending!
Ma comunque, passiamo al titolo. Penso che l'abbiate capito anche voi, però voglio specificare: "hold my hand" è sia figurato sia letterale; nell'ultima parte, infatti, quando si tengono per mano e "avanzano", ciò sottintende il fatto che quest'azione sia anche figurata. Non so se sono riuscita a spiegarmi bene (?).
Comunque, spero abbiate apprezzato almeno un po'! Al prossimo aggiornamento! :3

Baci
Shizuha

 
  
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