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Autore: Elena Ungini    05/05/2017    0 recensioni
L’agente speciale Steve Rowling lavora da due anni al Progetto A.I.R.E.S.S., con lo scopo di risolvere casi legati al mondo del paranormale. UFO, streghe, vampiri e affini sono all’ordine del giorno, per lui. Nel bel mezzo di un’indagine, si ritrova fra i piedi la giornalista Livienne Parrish, venticinquenne avvenente e disordinata. Nonostante l’odio atavico che Steve prova nei confronti dei giornalisti, è costretto a collaborare con lei, mentre gli intrighi, intorno a loro, si fanno sempre più fitti e pericolosi. Ma il pericolo più grande, per Steve, sono gli immensi occhi verdi di Livienne…
Genere: Avventura, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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STREGHE
 
 Filadelfia, Domenica 30 aprile 2000
 
Steve si soffermò qualche secondo a guardare la città che si risvegliava sotto il sole d'aprile, poi chiuse le ante e la finestra, raccolse il portafoglio e se lo infilò in tasca, prese le chiavi della macchina e la valigia e si diresse verso la porta ma, un istante prima di abbassare la maniglia, udì bussare insistentemente.
Aprì e i suoi occhi color cenere si soffermarono sulla figura femminile che gli stava di fronte: carina, slanciata, le curve al punto giusto e un delizioso completino che metteva in mostra le sue gambe perfette, Livienne dimostrava molto meno dei suoi venticinque anni. Sorrideva dolcemente e i suoi occhi brillavano d'intelligenza e di curiosità.
Steve la fissò, preoccupato:
“Che cosa ci fai qui?”
“Ho provato a chiamarti al cellulare ma non rispondevi. Allora sono venuta qua”.
“Come hai avuto il mio indirizzo?”, chiese, sapendo che di solito Donald non rivelava mai gli indirizzi dei suoi dipendenti.
“Non è il momento di parlare di questo: ho bisogno del tuo aiuto”.
“Sto andando in ferie”.
Livienne osservò la valigia di pelle che aveva appoggiato sul pavimento: era piccola e poco ingombrante, ma evidentemente conteneva tutto ciò di cui lui aveva bisogno.
“È una cosa importante”, continuò lei.
“Anche le mie ferie lo sono”, ribatté Steve, raccogliendo la valigia e uscendo dalla porta, scostando la ragazza.
“Le ferie possono aspettare: c'è un'emergenza in città”.
Steve sospirò, poi rispose:
“Se ci fosse davvero un'emergenza in città, io non starei andando in ferie, per cui, scusami, ma devo salutarti”. Chiuse a chiave l'appartamento, poi si rivolse di nuovo alla ragazza:
“Buona giornata, Livienne”.
Lei ritornò alla carica:
“Non vuoi neppure sapere di che si tratta? Ne va della vita di parecchi bambini, Steve”.
Dopo un istante di esitazione, cedette alla curiosità, riappoggiò la valigia e, con aria stanca, le chiese:
“D'accordo, che succede?”
“Una donna, Iride Melwise, stamattina è venuta da me. Ha letto i miei articoli e per questo ha deciso di parlarmi: crede che io la possa aiutare. Iride ha un figlio di cinque anni e abita sulla quinta strada”.
“La cosa ti sembra preoccupante?”, chiese Steve, con aria di scherno.
“Sì, se calcoli che in quella via tre bambini al di sotto degli otto anni sono stati ricoverati per meningite fulminante”.
“È una malattia contagiosa: i bambini avranno frequentato la stessa scuola o lo stesso parco, avranno giocato insieme”.
“Il fatto strano è che nella stanza dei tre bambini, la sera in cui si è manifestata la malattia, si è vista una civetta, e in due dei casi, i genitori asseriscono che la finestra della stanza fosse chiusa. Non sanno come abbia potuto entrare là”.
“Una civetta, hai detto?”, chiese Steve, improvvisamente pensieroso.
“Questo mi ricorda un caso del passato: in Cina, nel 1755, molti bambini morirono colpiti da convulsioni, dopo l'apparizione di un gufo nella loro stanza”, continuò.
“Il gufo si rivelò poi essere la metamorfosi di una strega. Quando essa fu bruciata, l'epidemia cessò”, intervenne Livienne. Steve la guardò sorpreso:
“Stai per caso cercando di rubarmi il posto?”, scherzò.
“Il capo mi ha ordinato di seguire il filone del paranormale: entro la fine di ogni mese devo scrivere un articolo, che apparirà sul nuovo supplemento del giornale. Sto cercando di imparare tutto quello che posso, su questi strani argomenti. Non ho potuto studiare molto in queste due settimane, ma ho letto qualcosa a proposito dell'epidemia di Pechino, nel 1755, e, quando Iride mi ha raccontato i fatti, mi è subito tornata in mente”.
“Anche ammettendo che una strega viva tranquillamente in un quartiere della nostra città, che già è una cosa difficile, e aggiungendo pure che possa trasformarsi a suo piacimento in un animale e riesca a entrare nelle case passando attraverso i muri, cosa, questa, alquanto più improbabile, mi dici come facciamo a rintracciarla e fermarla?”, chiese Steve.
“Non ne ho la più pallida idea. Per questo sono venuta da te”.
Steve sospirò forte, poi girò la chiave che aveva lasciato nella toppa fino a quel momento, mise la valigia in casa e richiuse la porta.
“Ho capito: si va a caccia di streghe”, commentò. “Andiamo a interrogare i genitori dei bambini. Forse scopriremo qualcosa di più. Conosci i loro indirizzi?”
“No, ma ho i nomi dei bambini: sono ricoverati al Pennsylvania Hospital. Qualcuno dei genitori è sicuramente là con loro”.
In breve furono all'ospedale. Un'infermiera piccola e carina li ricevette, quando entrarono nel reparto infettivi.
“Posso esservi utile?”
“FBI. Dobbiamo parlare con i genitori di Jodye Link, Emily Pilcher e Stewart Lange”.
“Ve li mando subito”.
“Uno alla volta, se non le dispiace”, specificò Steve.
Di lì a poco l'infermiera ritornò con una donna sulla quarantina, il volto distrutto dal dolore, le occhiaie profonde sotto gli occhi.
“Mi chiamo Marie e sono la mamma di Jodye”.
“Signora, sono dell'FBI e sono qui per scoprire cosa è successo a suo figlio”, incominciò Steve.
La donna lo guardò, perplessa:
“Lei crede che ci sia qualcosa di strano nell'apparizione di quella civetta?”, chiese, preoccupata.
“Siamo qui per stabilirlo: può raccontarci com'è andata?”, s'intromise Livienne, sorridendole per tranquillizzarla.
“Certo”. La donna si sedette stancamente sulla sedia che l'infermiera le porgeva, nella sala d'aspetto. Livienne e Steve presero posto di fronte a lei. Quando l’infermiera se ne fu andata, la donna iniziò a raccontare:
“L'altra sera, erano pressappoco le nove e mezza, ho accompagnato Jodye nella sua stanza, per metterlo a letto”.
“Il bambino stava bene?”, la interruppe Steve.
“Sì, certo! Aveva mangiato alle sette e mezza, com'è nostro solito, poi avevamo guardato un po' la televisione tutti insieme e Jodye aveva riso e scherzato insieme a noi come tutte le sere…”. La donna si interruppe, asciugandosi una lacrima che le rigava il volto.
“Scusatemi”, disse, prendendo un fazzoletto dalla borsa.
“Quando sono entrata nella stanza non ho notato subito la civetta. Ho messo a letto il bambino, l'ho coperto e gli ho dato un bacio. Poi mi sono voltata: lei era lì, di fronte a me, appollaiata sull'armadio. Non sono superstiziosa, ma quando ho visto quell'uccello mi sono comunque spaventata e ho chiamato mio marito. È entrato nella stanza e l'ha visto anche lui. Subito dopo il bambino ha iniziato a stare male. Noi allora abbiamo rivolto l'attenzione al piccolo, spaventati. Quando ci siamo voltati di nuovo, la civetta non c'era più”.
“La finestra della stanza era chiusa?”
“No, era aperta, ma la zanzariera era abbassata. Ho controllato: non c'era nessun buco. Ma la civetta poteva essere uscita dalla porta, che mio marito aveva lasciato aperta. In ogni caso, dopo averci accompagnato all'ospedale, mio marito ha cercato l'animale per tutta la casa, senza trovarne più alcuna traccia”.
“C'è qualcos'altro che l'ha colpita? Qualche particolare?”
“Il suo sguardo: aveva qualcosa di strano, anche se non saprei dire cosa”.
“Niente altro?”
“No. Mi dispiace”.
“La ringraziamo molto, signora Link”.
“Spero di essere stata d'aiuto”, disse, alzandosi per seguire l'infermiera nella stanza di suo figlio. L'interrogatorio alla madre di Steward Lange non portò a nulla di più costruttivo: la madre del bambino riferì per lo più lo stesso racconto della signora Link. Poi fu la volta del signor Pilcher. Steve strinse la mano che l'uomo gli porgeva:
“Salve, signor Pilcher. Sono dell'FBI e sono qui per indagare sulle strane apparizioni di una civetta nella vostra via”.
“C'è poco da indagare! È stata lei, quella maledetta strega! L'ho sempre detto che prima o poi avrebbe combinato qualche guaio!”, sputò fuori l'uomo.
“Di chi sta parlando?”
“Di Sheila Grey. È una signora che vive nel mio stesso palazzo. Non è una donna come tutte le altre. È una strega! Coltiva piante velenose, con le quali produce intrugli magici di ogni tipo! Sono certo che è stata lei a mandare quella civetta nella stanza di mia figlia, col chiaro intento di farla ammalare!”, urlò.
“Si calmi, signor Pilcher. Se le cose stanno come lei dice lo appureremo con le nostre indagini. Ora si limiti a raccontarci i fatti di ieri sera: che è successo esattamente a sua figlia?”
Il signor Pilcher raccontò ai due la storia che già avevano sentito, poi tornò nella sua stanza, inveendo contro Sheila Grey.
“Credo che dovremmo fare una visitina a questa Sheila”, propose Steve.
In breve erano sulla quinta strada, dove raggiunsero l'edificio nel quale vivevano Pilcher e la Grey. Il caseggiato era circondato da uno splendido giardino in fiore, tenuto molto bene.
Dopo essere entrati nell'androne del palazzo si avvicinarono alla guardiola, dove una grassa portinaia alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo e li squadrò, masticando rumorosamente un chewing-gum.
“Salve”, li salutò, scostando leggermente un ciuffo di capelli appiccicato alla fronte dal sudore. Sul suo viso di dipinse un'espressione di stupore quando notò il distintivo che Steve le mostrava.
“Dovrei parlare con Sheila Grey. Abita qui, non è vero?”
“Sì, certo! Ora vengo”. La donna li raggiunse, uscendo da una porta laterale. Indossava un lungo abito a fiori, sgualcito e smunto dai troppi lavaggi, che le stava talmente stretto da dare l'impressione di scoppiare da un momento all'altro.
“Che tipo è questa donna?”, chiese Livienne.
“Un tipo strano. Parla pochissimo con la gente. In compenso le piacciono molto i fiori: da quando è qui si occupa lei del giardino. Non è mai stato così bello e fiorito. Le piacciono anche gli animali e spesso dà da mangiare ai gatti randagi e ai piccioni. A volte penso che vada molto più d'accordo con gli animali che con la gente!”, commentò la donna, salendo faticosamente le scale.
“Questo è un punto a suo sfavore”, commentò Steve, fra sé e sé.
“Da quanto tempo abita qui?”, chiese Livienne.
“Da due anni. Viene da un paese straniero, credo dall'Africa centrale. Quando è arrivata parlava poco la nostra lingua. Probabilmente è anche per questo che non comunica molto con gli altri inquilini. Non è mai venuta a una sola riunione di condominio! Neppure una volta!”
“Si dice in giro che faccia delle strane pozioni... pomate e cose del genere…”.
“Lei non vuole che se ne parli”, esitò la donna.
“Ma, visto che lo sapete già, vi dirò che mi ha dato un unguento, una volta, che mi ha fatto passare completamente il dolore che avevo alla gamba sinistra. Ora sto bene”.
Raggiunsero l'ultimo piano e qui la donna si fermò davanti a una porta, poi bussò discretamente. Poco dopo la porta si aprì.
“Signorina Grey, queste due persone desiderano parlare con lei”.
La donna annuì, guardando i due giovani. Nel suo sguardo, Livienne e Steve notarono subito qualcosa di strano, di magico: aveva delle strane pagliuzze dorate negli occhi, che luccicavano in un modo impressionante.
“Venite”, disse la donna, facendoli entrare. Una volta dentro, i due ebbero modo di notare lo strano arredamento, composto solo da alcune stuoie stese per terra e un tavolino scrostato appoggiato contro il muro, sul quale troneggiava una bilancina di ottone, con tutti i pesi relativi e un'infinità di piccoli vasetti contenenti creme, etichettati con i nomi più singolari. Situato in un angolo vi era un fornello a gas, sul quale bolliva un pentolino. Cosa bollisse in pentola rimase un mistero, ma l'odore che ne emanava non era certo dei più invitanti. Un piccolo distillatore era in funzione, appoggiato sul frigorifero. Ne cadevano piccole gocce che si raccoglievano in un'ampolla contenente un intruglio verdastro. Su una libreria erano appoggiati libri di giardinaggio ed erbe medicinali, ma ce n'erano anche altri dai titoli più strani, chiaramente non in lingua inglese. Vi erano inoltre amuleti sciamani appesi alle pareti e perfino i vestiti della signora erano alquanto singolari: la donna indossava un lungo abito rosso, bordato in oro. Sulla testa aveva un lungo copricapo rosa, che teneva legati i capelli, ricci, lunghi e scarmigliati. Livienne pensò che probabilmente non avevano mai visto un pettine da vicino. Non era giovanissima e le rughe le incorniciavano il viso scuro, solcato da una profonda cicatrice sulla guancia destra. Si voltò verso di loro e li apostrofò, con aria severa:
“So perché siete qui. Voi credete che io abbia fatto ammalare quei bambini, non è vero?”
Anche se questo semplificava notevolmente il loro lavoro, Livienne fu sorpresa dal fatto che la donna avesse centrato l'argomento al primo colpo.
“Siamo qui per scoprire la verità riguardo a questo caso. Lei non è indiziata di nulla, signora Grey”, spiegò Steve, notando che la donna parlava molto bene l'inglese, anche se con uno strano accento. Evidentemente non era la difficoltà a pronunciare quella lingua che la estraniava dai vicini di casa.
“A ogni modo, non sono stata io”, affermò lei, sicura.
“Ci può aiutare a capire cosa è successo?”, chiese Steve.
Lei li guardò e nei suoi occhi Steve notò una sfumatura di rabbia.
“Ci sono cose che voi, cittadini "civilizzati" ed eruditi, non sapete. Ed è meglio che continuiate a non saperle!”
“Sta parlando di magia, Sheila? Quella stessa magia che può permettere a un essere umano di trasformarsi in un animale e di far ammalare decine di bambini solo stando alla loro presenza?”
Lei lo fissò stupita.
“Lei crede nella magia?”, chiese, sorpresa.
“Ho avuto modo di vedere cose che gli altri non hanno mai visto...”.
Livienne ascoltava, silenziosa. Quel discorso la metteva a disagio. Sembrava che i due si stessero, in un certo qual modo, studiando a vicenda.
“Allora sa già quello che è successo. Non glielo devo spiegare io”.
“Lei si proclama innocente: mi dica chi è stato allora! Mi aiuti a risolvere il caso”.
“C'è solo una donna che può avere fatto una cosa del genere! Solo lei mi odia fino al punto di uccidere, pur di screditarmi di fronte agli occhi di tutti!”, disse.
“Lei… chi?”.
“È lei il detective. Lo scopra da solo”, sentenziò, aprendo la porta in chiaro segno di commiato.
“Sono certa che scoprirà delle altre cose molto interessanti…”, aggiunse, sorniona.
“Aspetti! Se questa donna la odia così tanto come dice, perché se la prende con dei bambini innocenti? Perché non cerca di uccidere direttamente lei?”, chiese ancora Steve, uscendo.
“Non può farlo. Ci ha già provato una volta...”. E Sheila si toccò il viso, dove l'orrenda cicatrice la sfigurava.
“Ma non ci è riuscita!”, concluse, sorridendo ironicamente.
Quando furono soli, sulle scale, Livienne chiese a Steve:
“Che possiamo fare?”
“Niente. Non abbiamo prove contro di lei. Nessuna prova”.
“Nessuna prova? Ma non hai visto i suoi occhi? Se quelli non erano occhi "strani" io mi chiamo Napoleone! E la sua casa? È piena di unguenti e pomate, oggetti di culto! Per non parlare del giardino! Hai visto i fiori? Digitale, aconito napello, stramonio, oppio… persino la mandragora! Ce n'è abbastanza per far morire avvelenata l'intera città!”
“Se è vero che è di origine africana, dubito che utilizzi quei fiori per le sue preparazioni: molte di quelle piante non crescono nell'Africa centrale e quindi probabilmente non ne conosce neppure le proprietà curative o, per lo meno, dubito che le conoscesse quando è venuta qua. Inoltre, se dovessimo arrestare tutti quelli che hanno piante velenose in giardino, metà della popolazione di Filadelfia sarebbe in galera”.
Steve si fermò ancora a parlare con la portinaia:
“Ci permette ancora delle domande, signora?”
“Certo. Avete scoperto qualcosa di interessante?”, chiese, incuriosita. Evidentemente non doveva accadere spesso, da quelle parti, di essere interrogati dall'FBI.
“No. Ma ora mi dica, per favore: sa per caso se la signorina Grey ha dei nemici, qui intorno?”
“Non è molto ben vista, nella zona, a causa delle sue stranezze, ma nessuno le vuole particolarmente male”.
“Ha dei parenti?”
“Non lo so. Non riceve mai posta e non ha neppure il telefono”.
“La ringrazio per la collaborazione. Ci è stata molto utile, signora. Arrivederci a presto”.
“Arrivederci”, rispose lei, evidentemente delusa di non aver potuto sapere cosa i due avevano scoperto.
“Dobbiamo indagare sul passato di Sheila”, annunciò Steve, quando furono in macchina.
Raggiunse il suo ufficio, seguito da Livienne, accese il computer e si mise a cercare informazioni sulla Grey.
“Ecco qui: c'è la sua data di nascita, il paese di provenienza e la data del suo arrivo in America. Non c'è altro”.
Steve digitò sul computer il nome del villaggio dal quale proveniva Sheila, situato in una remota regione al confine tra il Congo e lo Zambia. Apparve una lunga documentazione, che lui scorciò, lanciando poi un fischio ammirato.
“Pensa un po': la nostra amica Sheila è niente di meno che la figlia di un nyanga, ovvero uno stregone africano, morto tre anni fa alla venerabile età di centocinque anni!”
“Forse è per questo che è venuta via di là: perché suo padre era morto”.
“Non lo so: l'articolo parla di una spedizione di venti americani, capeggiati dalla dottoressa Valery Stevenson, che andarono laggiù sei anni fa per studiare i selvaggi. Sembra che siano tuttora là. Segue tutta la documentazione sul lavoro svolto dagli americani, ma questo è tutto”.
“Potremmo parlare con qualcuno della spedizione: forse loro sanno chi è la donna di cui parlava Sheila”.
“Probabilmente è una delle donne del villaggio. Se lei e Sheila hanno avuto a che dire, negli ultimi sei anni, i componenti della spedizione dovrebbero saperlo”.
“Che si fa? Si parte per l'Africa?”, propose Livienne, divertita dall'idea.
“Non credo sia necessario: qui dice che due dei componenti la spedizione sono tornati in America un anno e mezzo fa. Uno di loro, lo psicologo Hans Braahm, ha lo studio poco lontano da qui. Possiamo andarci subito”.
“Mi sembra un'ottima idea”.
Steve fece partire lo screensaver del computer e apparvero strani diagrammi che si modificavano in continuazione.
“Che roba è?”, chiese Livienne, incuriosita.
“È il progetto SETI at home. Hai mai sentito parlare del progetto SETI?”
“Certo! SETI sta per "The Search for Extraterrestrial life and Intelligence", se non sbaglio, ed è appunto un progetto atto a registrare, tramite il radiotelescopio di Arecibo, tutte le frequenze provenienti dallo spazio, per poi analizzarle e cercare eventuali forme di intelligenza aliena”.
“Esatto. Solo che, ultimamente, il progetto andava avanti a rilento: il solo computer di Arecibo non riusciva più a elaborare tutti i dati, così è stato chiesto l'aiuto dei computer sparsi su tutto il pianeta. Chiunque abbia un computer collegato a internet dovrebbe dare una mano a questo progetto, scompattando e analizzando i dati, come sto facendo io, per poi rispedirli ad Arecibo una volta analizzati. Potresti farlo anche tu, col computer che usi al lavoro”.
“Mi sa tanto che lo farò davvero. Certo che tu non potevi proprio mancare a dare il tuo contributo a un progetto simile!”, sghignazzò Livienne.
Si recarono allo studio del dottor Braahm, dove attesero che un paziente terminasse la seduta. Poi entrarono nella tranquilla stanzetta, dove il dottore stava seduto dietro una scrivania in radica di noce. L'uomo li sbirciò al di sopra degli occhiali.
“Salve”, li salutò.
“Non credo che ci siamo già conosciuti. La mia segretaria ha preso appuntamento con voi?”
Steve mostrò il distintivo.
“Se non abbiamo un appuntamento lo prendiamo subito”, dichiarò, sorridendo al volto sorpreso dell'uomo.
“C'è qualche problema?”, chiese infatti il dottore, perplesso.
“Ci servono informazioni su una persona”.
“Non sono autorizzato a rivelare nulla, riguardo ai miei pazienti”.
“Non si preoccupi: non credo che la persona in questione sia una sua paziente”.
“Sedetevi”, li invitò il dottore, sempre più confuso.
“Lei è stato in Africa, con la spedizione della dottoressa Stevenson, non è vero?”
“Sì. Sono tornato un anno e mezzo fa”.
“Conosce una certa Sheila Grey?”
“Sì, certo. L'ho conosciuta proprio lì, al villaggio. Ma non la vedo da quando se ne è andata, due anni fa”.
“Lei sa che vive qui in città?”
“Sì, lo abbiamo saputo, al villaggio. Suo fratello era preoccupato per lei quando se ne è andata e l'ha fatta cercare. La dottoressa Stevenson si è occupata delle ricerche”.
“Forse lei sa perché se ne è andata dal villaggio?”
“Lei e la dottoressa non andavano per niente d'accordo. Suppongo sia stato questo il motivo principale”.
“Può dirmi perché non andavano d'accordo?”
“Divergenze di opinioni”.
“La dottoressa aveva per caso accusato Sheila di fare uso di magia nera?”
“No. Semmai è stato il contrario”.
“Cosa?”, si stupì Steve.
“Vedete, la dottoressa Valery Stevenson si era innamorata del giovane fratello di Sheila, Tares. Ma lui era già sposato e la respinse. Poco dopo, la moglie di Tares morì, sbranata da una tigre. Sheila allora accusò pubblicamente Valery: disse di averla vista trasformarsi in una tigre e la incolpò della morte di sua cognata. Valery le rise in faccia e rispose che quella sua affermazione era ridicola. Quella notte una tigre entrò nella capanna di Sheila e la ferì su una guancia. Il fratello entrò nella capanna e la tigre fuggì. La mattina seguente scoprirono che Sheila se n'era andata”.
Livienne prese fra le mani una foto che c'era sulla scrivania, nella quale erano presenti, fra le altre persone, il dottor Braahm e Sheila Grey.
“Questa l'avete fatta al villaggio?”
“Sì. Questo è Tares, con sua moglie. E questa è la dottoressa Stevenson”, spiegò il dottore, segnando col dito le persone sulla foto.
“Ha uno sguardo strano”, commentò Livienne, guardando la dottoressa.
“Già. Pensate: ha un occhio verde e uno celeste. Davvero insolito”, spiegò Braahm.
“Lei ha un'idea del perché Sheila sia venuta ad abitare qui?”, chiese ancora Steve.
“Sì. Sua madre era di qui. Andò in Africa cinquant'anni fa e s'innamorò dello stregone, con il quale ebbe due figli. È morta da diversi anni. Immagino che Sheila abbia voluto vedere i luoghi in cui era cresciuta sua madre: ne parlava spesso e diceva anche che un giorno avrebbe visto l'America”.
“Bene”, disse Steve, alzandosi.
“Noi la ringraziamo molto. Ci è stato di grande aiuto”.
Il dottore si congedò da loro, che si affrettarono a raggiungere la vettura di Steve.
“Direi che ora sappiamo chi è la nemica di Sheila”, commentò Livienne.
“Già. Ma chi è, delle due, la vera strega, se veramente ce n’è una? Inoltre, perché Valery dovrebbe voler rovinare la vita di Sheila ora, a distanza di anni?”
“Forse un odio atavico che non si è mai spento”.
“Beh, sono le otto di sera. Forse dovremmo andare a cena e rimandare tutto a domani, non credi?”, propose lui.
“Buona idea. Ho una fame!”
Cenarono in un ristorante italiano, poi Steve accompagnò Livienne a casa. Una volta giunta in camera, lei si accorse subito che la spia luminosa della segreteria telefonica lampeggiava, così ascoltò il messaggio:
“Signorina Parrish, sono Iride. Venga dubito al Pennsylvania Hospital, la prego. È successo ciò che temevo”, La voce della donna era tremante ed era chiaro che stesse piangendo.
Livienne chiamò Steve sul cellulare. Lui era ancora in macchina.
“Vieni a prendermi: ci sono delle novità”, disse semplicemente.
Giunsero all'ospedale dove Iride li aspettava in lacrime.
“Che è successo?”, chiese Livienne.
“Il mio bambino! Lo stavo mettendo a letto quando ho visto quel maledetto uccello. Ho urlato e mio marito è corso nella stanza. Ha cercato di colpire la civetta, ma lei è scomparsa. È svanita sotto i nostri occhi. Subito dopo, Cody ha iniziato a stare male. I dottori stanno facendo il possibile, ma voi dovete fermare quell'animale! Dovete farlo!”, urlò, disperata.
“Ci stiamo provando, signora. Ma non possiamo metterci a dare la caccia a tutte le civette della città! Che altro ci può dire? C'è qualche particolare che l'ha colpita?”
La donna rimase un attimo in silenzio, poi rispose:
“La civetta aveva uno sguardo strano: quando l'ho guardata mi sono accorta che aveva un occhio verde e uno blu”.
Livienne e Steve si fissarono un istante, quasi increduli.
“Andiamo da Sheila: lei è l'unica in grado di fermarla!”, esclamò Steve.
Poco dopo erano davanti alla porta della donna africana. Bussarono insistentemente e lei aprì:
“Che cosa volete ancora da me?”, chiese, fissandoli infastidita.
“Sappiamo tutto. Abbiamo scoperto chi è la donna di cui ci ha parlato. Ora lei deve aiutarci a fermarla!”, la esortò Steve.
“Perché dovrei farlo? Questa società non mi ha mai accettato, nonostante mia madre fosse nata qui. Perché dovrei aiutare questa gente?”
“Ci sono dei bambini molto malati e la colpa è anche sua, signorina Grey: quei bimbi stanno soffrendo perché Valery possa infliggerle la sua punizione, anche se ancora non ne capisco il motivo”.
“È semplice: Valery ha tentato di uccidermi e non c'è riuscita. Io costituisco un pericolo per lei: sa che sono potente. La mia forza è superiore alla sua. La mia magia è superiore alla sua! Per questo mi teme. Anche se mi odia, lei non può uccidermi. Così deve screditarmi agli occhi di tutti, anche a quelli di mio fratello, che continua a respingerla: in questo modo potrebbe anche incolparmi dell'omicidio che lei ha commesso. Così per mio fratello io sarei un'assassina, e lei l'angelo della vendetta. A quel punto, lui accetterebbe di sposarla e io non sarei più un problema, se mi fosse impedito di usare la mia magia!”
“Allora lei la deve proprio fermare, per scagionare se stessa! Ma non capisce? Se non la ferma, sarà accusata di crimini che non ha commesso!”, esclamò Livienne.
“Non ci sono prove contro di me”.
“Alla gente non servono altre prove: lei sarà tacciata di stregoneria per sempre. Nessuno la vorrà più vicino. È sicura di voler fare questa vita? È sicura di voler portare la morte di quei bambini sulla coscienza? Lei è l'unica che può fare qualcosa per salvarli! Lo faccia, la prego!”, la supplicò Livienne.
La donna rimase in silenzio per un istante, poi disse, con la voce roca:
“E sia! Uscite di qui. Farò quello che è in mio potere”.
I due lasciarono la stanza ma, una volta di fronte alla portinaia, Steve le lasciò il suo biglietto da visita.
“C'è il mio numero di telefono, qua sopra. Se ci fosse bisogno, mi chiami”.
“D'accordo”.
La mattina seguente, verso mezzogiorno, Livienne stava leggendo un libro sugli incantesimi, che Steve le aveva prestato, quando squillò il telefono. Raggiunse l'apparecchio e rispose:
“Pronto?”
“Ciao Livi, sono Steve. Ho delle novità sul caso: stamattina, sul mio computer, ho trovato una e-mail, spedita dal mio capo, che mi informava della morte della Stevenson. La dottoressa è stata sbranata da una tigre, questa notte”.
Livienne stette in silenzio per qualche secondo, poi sussurrò:
“Pensi anche tu quello che penso io?”
“Cioè che quella tigre fosse la trasmutazione di Sheila? Non so più a cosa credere, Livi: stamattina Sheila è stata trovata morta nella sua stanza. Ho eseguito io stesso l'autopsia: sul suo corpo ho trovato dei peli di origine animale, probabilmente di una tigre, dato il loro colore, e sul suo vestito c'era del sangue non appartenente al suo gruppo sanguigno. Nello stomaco ho trovato tracce di cicuta: evidentemente si è avvelenata. Sulle braccia aveva dei graffi, causati da un grosso animale”.
“Scommetto che se analizzassimo il sangue trovato sul suo vestito, scopriremmo che è il sangue di Valery”.
“È probabile… ma non so se ho voglia di scoprirlo”, commentò Steve.
“Sono stata all'ospedale, stamattina: i bambini stanno tutti molto meglio”.
“A quanto pare abbiamo risolto il caso, anche se rimane ancora una domanda a cui trovare risposta”.
“Quale?”, chiese incuriosita Livienne.
“Cosa scriverò nel mio rapporto?”
“Semplice: che sei stato in vacanza!”
   
 
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