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Autore: Adeia Di Elferas    06/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico Sforza si tormentava una crosticina sul bordo dell'indice, procuratasi mentre controllava i suoi gelsi a Vigevano. Una scheggia malefica gli aveva strappato un po' di pelle e da quasi due giorni il fastidio non gli dava pace.

Galeazzo Sanseverino guardava il Duca di Milano ancora un po' perplesso. Bianca Giovanna, la figlia illegittima prediletta dal Moro, aveva appena quattordici anni. Un'età corrente, per un matrimonio, ma Galeazzo aveva già trentotto anni e non se la sentiva di impalmare una ragazzina.

“La storia è questa e basta.” riprese Ludovico, che voleva chiudere in fretta la faccenda, dato che ormai era già stato tutto deciso e che il Sanseverino tentennava solo per farlo innervosire: “Mi avete fatto dubitare della vostra famiglia anche troppe volte. In questo modo ci guadagnamo tutti quanti, no? Voi ottenete una moglie, la mia fiducia e feudi che rendono bene, e io in cambio guadagno le vostre abilità di comandante e faccio rientrare in famiglia delle terre che sono fondamentali per la supremazia degli Sforza. Prima della fine di gennaio, sarete mio genero e non c'è altro da discutere.”

Il condottiero si sistemò un po' i capelli castani, tanto crespi da finire sulle spalle arricciati come lana grezza: “Ne sono consapevole. Mi onorate, nello scegliere me. E non vi pentirete a lasciarmi la via che dà verso Genova. Però...”

Il Moro sollevò lo sguardo dal suo dito dolente e puntò gli occhi inquisitori sul viso spigoloso di Galeazzo: “Però cosa?”

“Vostra figlia Bianca Giovanna è molto giovane. Davvero molto giovane.” si risolse a dire il Sanseverino.

Ludovico annuì e aggiunse pure: “Ed è l'amica prediletta di mia moglie.”

“Mi state dicendo che non verrà con me a Bobbio?” domandò esitante Galeazzo.

Il Moro si alzò, dando un colpo sul bracciolo della sedia, e andò ad appoggiare una delle sue manone sul condottiero, accompagnandolo verso la porta con fare accomodante, mentre le sue parole si facevano abbastanza fredde: “No, non verrà con voi a Bobbio e nemmeno verrà con voi a Voghera o dove preferirete andare dopo il matrimonio. Non per molti anni, almeno, su questo non ci sono dubbi, ve lo posso assicurare. Al massimo farà qualche visita, ma solo, e sottolineo solo per farsi vedere dal popolo.”

Il Sanseverino avvertì una contrazione spiacevole delle dita del Moro appoggiate alla sua schiena, così disse subito: “Ho capito. E mi sta bene, decisamente.”

“Ottimo.” concluse il Duca, una volta alla porta della stanza: “Sia chiaro che questa unione la voglio solo per motivi politici, come voi la volete per portare in famiglia la parentela con gli Sforza.”

Galeazzo improvvisò un mezzo inchino e, vedendo che la Duchessa si stava avvicinando allo studiolo del Moro assieme proprio a Bianca Giovanna, ovvero la sua giovanissima promessa sposa, si fece prendere dal nervosismo e se ne andò.

“Come stanno le mie due signore?” chiese Ludovico, succhiandosi ancora una volta l'indice dolorante e sentendo un vago retrogusto ferrigno, mentre Beatrice e la fidanzata ufficiale di Sanseverino gli sorridevano.

“Stavo spiegando a Bianca Giovanna di stare attenta ai due Dal Verme, quando sarà nella casa di suo marito.” disse la Duchessa, facendosi appena più seria.

“Chi, i due figli di Pietro?” chiese Ludovico, trattenendo una risata: “Quei due non valgono niente...”

“Strappare loro i terreni che gli avevi concesso in gestione per darli a un Sanseverino, li indisporrà.” fece notare Beatrice, mentre Bianca Giovanna fissava a turno il padre e l'amica, apparendo molto impensierita: “Bobbio e Voghera erano di tua nipote Chiara e tali dovevano restare. Almeno avresti potuto consegnarli a Galeazzo senza problemi, visto che di lei, ufficialmente, non si hanno più tracce. E invece li hai voluti concedere a quei due... Hai combinato un pasticcio.”

Il Moro sospirò e dando un rapido bacio sulla guancia alla figlia, concluse, sbrigativo, rivolto alla moglie: “Francesco e Francesca Dal Verme non li ha mai sentiti nominare nessuno fino a oggi e nessuno li sentirà nominare mai neppure in futuro. Non pensateci e basta. Vi farete il sangue amaro per niente.”

Beatrice strinse le labbra, gonfiando le guanciotte piene e poi strinse con forza le mani della sua amica e le assicurò: “Torno più tardi, così guardiamo ancora il vestito per il matrimonio e decidiamo che scarpe abbinarci.”

La ragazzina fece la riverenza e salutò la Duchessa e il padre con un ampio sorriso.

La signora di Milano attese con pazienza che Bianca Giovanna fosse lontana per cancellarsi di dosso l'espressione lieta che aveva assunto a suo beneficio e si voltò verso il marito con un'aria truce che non prometteva nulla di buono: “Lo so perché tieni tanto all'amicizia con Galeazzo Sanseverino. Lo so benissimo che è lui che organizza i tuoi incontri con la Crivelli in casa sua. Non sono stupida, Ludovico. Credi che basti non farlo in questo palazzo per non farmelo sapere? Stai attento a quello che fai.”

“Tu... Stai... Ma che..?” Il Duca stava diventando violaceo, mentre il doppio mento traballava nell'agitazione di discolparsi.

Non capiva come avesse potuto sua moglie scoprire con tanta precisione quello che di fatto accadeva e non voleva nemmeno pensarci.

Beatrice, quando ci si metteva, aveva una mente diabolica e riusciva a cogliere anche i segnali più miseri. Come un segugio, riusciva a captare perfino la traccia più sfumata e, quando azzannava, riusciva sempre a trovare il collo della sua preda.

“Questo matrimonio potrebbe convenirci, lo riconosco, ma ti ripeto che i due figli illegittimi di Pietro Dal Verme non mi convincono. Sono cresciuti in un mabiente strano e da quello che si dice di loro, non sono dei tipi tranquilli. Non sottovalutarli. Sappi che se succederà qualcosa di brutto a tua figlia, io non te lo perdonerò mai.” decretò Beatrice, puntando il dito grassoccio contro il petto ampio del marito.

Ludovico, ancora rosso in viso, abbassò gli occhi e fece un cenno con il capo, del tutto simile a un bambino appena sgridato dalla madre.

“Adesso andiamo. Voglio fare una passeggiata.” decise la Duchessa, afferrando per il braccio il Moro.

“Ma fa freddo...” piagnucolò il Duca, ma la moglie finse di non sentirlo e lo trascinò fino nel cortile del palazzo di Porta Giovia, tenendolo stretto a se con l'ostinato orgoglio che mostrava sempre quando era in sua compagnia.

 

Caterina batteva ritmicamente le unghie contro il bordo del tavolo, mentre Luffo Numai e Francesco Oliva si alternavano per dirle le novità di quei giorni, l'uno per gli affari interni e l'uno per quelli esteri riportati dalle spie.

La Contessa era seduta mollemente sul suo scranno, le gambe lunghe sotto al tavolo e una mano a sorreggerle il mento. Altri avrebbero pensato che non stesse ascoltando una parola, ma i suoi collaboratori ormai la conoscevano abbastanza bene per capire che i suoi occhi, fissi sul camino acceso, tradivano un enorme interesse per le questioni citate.

Si parlava, per il momento, soprattutto delle reazioni di Forlì alle nuove ronde cittadine e alla crisi che andava via via mostrandosi. Luffo Numai aveva raccolto molti pareri e non si era fatto scrupoli a origliare anche le chiacchiere degli altri nobili della città.

Ormai la classe più abbiente di Forlì era decimata, per via degli arresti di quell'autunno, e le famiglie importanti rimaste oscillavano pericolosamente tra un timoroso astio verso la loro signora e un tiepido riconoscimento legato al fatto che, eliminata gran parte della concorrenza, la ricchezza era stata spartita tra meno pretendenti, rendendoli ancora più benestanti.

I latifondi, poi, che si erano creati aggirando le disposizioni già una volta espresse dalla Tigre, stavano impoverendo troppo i contadini e presto sarebbe arrivata la fame per i ceti più deboli.

L'unica porzione di popolazione che pareva non avercela con il governo era l'esercito. La quasi totalità dei soldati, infatti, aveva accolto con entusiasmo gli ingaggi ben remunerati e la fedeltà delle milizie alla Contessa pareva di giorno in giorno rafforzarsi.

A conti fatti, il problema maggiore in quel periodo restava la difficoltà riscontrata dagli agricoltori, strozzati dalle tasse e dai latifondisti che ne sfruttavano il lavoro impedendo loro di mettere assieme abbastanza denaro da mangiare tutti i giorni.

Caterina stava rimuginando su un metodo che fosse efficace e duraturo per eliminare quel problema, restituendo le terre ai piccoli proprietari e favorendo la creazione di tanti piccoli capitali invece che di un polo dal potere d'acquisto troppo forte rispetto al resto della società, ma più ci ragionava sopra, più i suoi pensieri sfuggivano.

“Le nostre spie a Firenze, poi, dicono che la Signoria potrebbe presto scegliere un ambasciatore da mandare alla nostra corte.” continuò, le mani allacciate dietro la schiena, l'Oliva, che aveva iniziato a riportare le voci raccolte dai delatori che aveva sapientamente sparso per mezza penisola.

La donna inclinò appena il capo da un lato, come a dire che andava bene, di proseguire pure, che quello non sarebbe stato un problema.

Si sentiva da sempre molto insofferente agli ambasciatori, anche se li aveva sempre tenuti tutti abbastanza lontani dalla sua rocca da non essere costretta a sorbirne la presenza troppo spesso, ma sapeva che erano indispensabili e che nella sua situazione era necessario piegarsi a certe convenzioni.

“Dicono che Ottaviano Manfredi sia stato a Firenze fino a pochi giorni fa.” disse allora l'uomo.

A quelle parole, Caterina ebbe uno scatto improvviso che fece sussultare Luffo Numai, che si trovava un attimo disattento.

Messasi a sedere dritta, il viso rivolto ai suoi collaboratori, la Contessa chiese: “E adesso dov'è?”

“Sembra sia stato ignorato da tutti i fiorentini a cui ha chiesto ospitalità, tanto che alla fine la Signoria gli ha dato un foglio di via e l'ha scacciato ad Arezzo.” riferì l'Oliva.

La donna si rimise di nuovo contro lo schienale del suo scranno, una mano davanti alle labbra e gli occhi verdi puntati verso il camino: “Nessuno l'ha denunciato.” notò.

L'ex ambasciatore milanese scosse il capo: “No, infatti.”

Evidentemente la taglia messa sulla testa dell'esule faentino non era un'attrattiva sufficiente per un paese di mercanti e banchieri. Peccato, sapere la testa di Ottaviano Manfredi su una picca avrebbe tranquillizzato almeno in parte Caterina.

La Tigre aggrottò un momento la fronte e chiese: “Ha preso contatti anche coi Popolani?”

Francesco Oliva cercò di ricordare le parole precise della spia che l'aveva contattato e poi rispose, abbastanza sicuro di quel che diceva: “Loro per primi.”

“Me lo ricorderò.” sussurrò tra sé Caterina, poi fece segno di andare avanti.

“Abbiamo finalmente anche notizie certe sui movimenti di Paolo Orsini – fece l'Oliva, che aveva faticato non poco a indagare su quel fronte che alla sua signora sembrava interessare in modo particolare – pare che abbia fatto pace con Virginio suo parente e che sia passato con lui agli stipendi francesi, lasciando perdere la causa del Fatuo.”

La Contessa fece una smorfia e scosse lentamente il capo: “E cosa dovrebbero fare, per conto dei francesi? Marciare su Napoli approfittando della rotta degli Aragona?”

“Sembra che l'idea sia quella.” confermò l'uomo: “O per lo meno mettere in difficoltà gli aragonesi a L'Aquila. Le ultime voci lo danno diretto proprio lì. Pare che prenda ordine dal Cardinale Cesare Borja, il figlio del papa.”

Quel dettaglio fece sollevare le sopracciglia a Caterina, che subito dopo si rivolse con tono perentorio a Luffo Numai: “Queste manovre non mi piacciono. Fate in modo che le mille lire concesse dal Consiglio vengano impiegate per i falconetti e i cannoni che ho ordinato a Ferrara. Che l'ordine venga inoltrato il prima possibile.”

Numai chinò la testa: “Certo, mia signora. Riferirò subito al castellano Feo.”

In effetti era lo zio di Giacomo a occuparsi di quel genere di affari in quel periodo.

La Contessa si massaggiò la fronte, rendendosi conto che un castellano non funzionava come Governatore. Non aveva modo di uscire dalla rocca e non aveva contatti diretti con la città, se non attraverso chi entrava e usciva da Ravaldino.

Inquieta all'idea di cercare un uomo di fiducia che andasse a ricoprire ufficialmente il ruolo che era stato del suo secondo marito, Caterina si mise in piedi e disse a Numai e all'Oliva: “Avete altro da dire?”

I due scossero la testa, così la donna si ritenne libera e li ringraziò, prima di lasciare la stanza.

Uscì dalla rocca, passando accanto alla statua che ritraeva Giacomo senza guardarla, e, sfidando il cuore dell'inverno, si concesse una passeggiata tra le vie di Forlì per pensare.

Non le piaceva per niente sentire che Cesare Borja aveva al suo servizio un uomo come Paolo Orsini. Tanto meno il sapere che alle sue spalle stavano i francesi. Il papa doveva avere in mente qualcosa di grosso, e i suoi piani stavano coinvolgendo gente troppo esperta per trattarsi di una facezia.

Certo, Caterina si sarebbe attesa che il papa scegliesse Juan, il suo figlio prediletto, ma forse reputava l'impresa che aveva in mente, qualunque essa fosse, troppo pericolosa per includervi il suo erede designato.

Passò sotto alla Torre del Pubblico, sulla cui sommità le teste ormai scarificate e irriconoscibili di tre degli assassini di Giacomo stavano in bella mostra. Non alzò lo sguardo, sapendo quello che avrebbe visto e conoscendo l'effetto che i ricordi di quei giorni frenetici e folli avrebbero avuto su di lei.

Camminò a passo spedito davanti alla chiesa di San Girolamo, chiedendosi quando mai avrebbe avuto il coraggio di recarsi alla pietra tombale dell'uomo che aveva amato. Dal funerale, non aveva più trovato la forza di varcare quel portale e, forse, non l'avrebbe mai più fatto.

Arrivata alla piazza centrale della città, la Contessa rivolse lo sguardo al palazzo doveva aveva vissuto con Girolamo.

I mercanti e i cittadini che si muovevano attorno a lei parevano così avvezzi alla vista di quella struttura imponente, da non farvi nemmeno più caso.

Puntò lo sguardo verso la finestra da cui era stato gettato il cadavere del suo primo marito, e poi verso quella da cui lei si era affacciata per vedere quello che stava accadendo.

Erano passati quasi otto anni eppure ripensarci risvegliava in lei vividi e forti dei ricordi che avrebbe voluto seppellire per sempre. Alla paura per la propria vita e per quella dei figli, della madre e della sorella, che in quella notte l'aveva stretta come un cappio, si univano le immagini mai sbiadite delle vita a cui Girolamo l'aveva costretta per tutto il tempo della loro convivenza forzata.

Quel palazzo le apparve ancora una volta come una prigione. Era l'emblema in pietra e legno della gabbia in cui si era sentita costretta per gran parte della sua vita.

In quel momento, mentre si rivedeva obbligata a sopportare la presanza di Girolamo, a portare in grembo i suoi figli e a fare del suo meglio per proteggerlo, pur malvolentieri, pur di non essere a sua volta travolta dai loro nemici, cominciò a maturare un'idea che avrebbe potuto risolvere molti dei suoi problemi.

Avrebbe fatto radere al suolo parte di quel palazzo, o magari tutto, e avrebbe riutilizzato i materiali per costruire cose più utili.

Avrebbe comprato dei campi vicino alla rocca e avrebbe creato un parco degno di un re, in modo da fare di Ravaldino il nuovo palazzo di famiglia. Tanto lo era già, dunque perchè mai non avrebbe dovuto renderlo chiaro anche ai forestieri?

Mettendo mano a quel genere di imprese, avrebbe anche creato lavoro, dando respiro ai forlivesi e non solo.

Però, per cominciare aveva bisogno di soldi e le serviva un pretesto per trovarli, senza andare a gravare sui suoi sudditi con nuove tasse.

Con quella nuova speranza che vagheggiava nel suo spirito, la Contessa si strinse nel mantello e, salutando con un cenno del capo un paio di anziane che l'aveno riconosciuta, si rimise in marcia, lambiccandosi per trovare una soluzione che convenisse a tutti.

Quando rientrò alla rocca, venne cercata dalla madre Lucrezia, che le chiese, con una certa fermezza: “Adesso che le acque a Faenza si sono calmate, posso andare a Imola?”

Caterina lottò con se stessa per qualche istante, ma poi colse un'urgenza tutta particolare nelle iridi color ghiaccio della madre e così fu indotta a dire: “Va bene.” poi ci pensò e come sempre fu capace di sfruttare l'occasione a suo vantaggio: “Parti domani stesso. Ti darò una scorta armata, per sicurezza. Dovrai passare anche da Forlimpopoli, però, già che ci sei. Dovrai dare una mia lettera a Piero e ti consegnerò anche un dispaccio urgente per Tommaso.”

 

Ercole Este era a un passo dallo schiumare di rabbia: “Dov'è?!” gracchiò, i capelli grigi, portati lunghi fino alle spalle, che ondeggiavano furiosi a ogni passo.

Il medico alzò le mani e cercò di fermare il signore di Ferrara, che però sembrava implacabile e ben deciso a forzare il debole blocco del dottore che si era messo a presidio della porta.

“Io l'ammazzo!” sbraitò Ercole, stringendo i pugni e digrignando i denti: “Lui è il mio erede! Come ha osato..!”

Il dottore si era già pentito di aver parlato tanto chiaramente al suo signore, ma non avrebbe potuto fare altrimenti: “Non è detto che si muoia, per sifilide!” sottolineò, mentre Ercole lo spostava di lato: “Molti convivono per anni con la malattia fino a dimenticarsi di averla avuta... Vostro potrebbe anche...”

Ma ormai Ercole era riuscito a farsi strada ed era piombato davanti ad Alfonso, che si stava ancora rivestendo. Le urla del padre avevano reso i suoi movimenti impacciati e la consapevolezza della diagnosi posta del dottore lo aveva scosso così nel profondo da fargli venire la nausea.

Il signore di Ferrara fu addosso al figlio prima che questi potesse trovare riparo dai suoi colpi. Lo prese a schiaffi e lo strattonò con tanta forza che l'avrebbe stramortito, se Alfonso non fosse stato un giovane muscoloso e di nemmeno vent'anni.

“Come hai osato?!” abbaiò Ercole, mentre il figlio alzava le braccia in un primo misero tentativo di difesa: “Il mal francese! Come un mercenario da due soldi! Come un contadino! Come un poveraccio! Come un..!”

Con il fiato grosso, il signore di Ferrara si fermò di colpo, non riuscendo più a trovare la forza di picchiare Alfonso. Si era fatto pallido e dovette portarsi una mano al petto. Un dolorino pungente gli si era infilato tra le coste, come a volte gli capitava quando si agitava troppo, perciò si impose di ridarsi un contegno.

Alfonso, intanto, aveva messo tra sé e il padre la sedia della scrivania – l'unico oggetto a disposizione – e restava in attesa.

Ercole aveva la fronte imperlata di sudore gelido e le labbra livide. I suoi capelli, di solito in perfetto ordine, erano scompigliati, qualche ciocca sulla fronte e sul naso prominente, e le sue spalle larghe si alzavano e si abbassavano rapide.

Alla fine, dopo un lungo momento di stallo, il medico osò affacciarsi sull'uscio per dire: “Mio signore... Vostro figlio è giovane e forte... La malattia potrebbe non avere ragione di lui... Spesso la prima lesione si riassorbe da sola e per anni non...”

Ercole alzò una mano verso il dottore, facendolo tacere, e intanto saettò con gli occhi verso Alfonso, che pareva essersi ristretto per la vergogna e la paura: “Tu... Sei il mio primo figlio maschio, io ho investito tempo e denaro per farti diventare un uomo e per un soldato d'eccelleza e questo Stato spetta a te e ai tuoi eredi dopo di te. Invece di passare le tue giornate al bordello come un perdigiorno, avresti dovuto pensare a tua moglie! Siete sposati da cinque anni e non sei ancora stato in grado di metterla incinta!”

Ercole buttò in terra la sedia che li separava e afferrò per il colletto del camicione bianco Alfonso, tirandolo a sé con fare minaccioso: “Vedi di renderla gravida prima che la malattia ti faccia diventare pazzo o ti uccida, altrimenti giuro che ti ammazzerò con le mie stesse mani. Almeno Ferrara sarà di tuo figlio, se tu non sarai in grado di governarla.”

Il giovane avrebbe voluto contrattaccare con l'arroganza che lo aveva sempre contraddistinto, ma non riusciva nemmeno ad aprir bocca.

Avrebbe voluto, tanto per cominciare, spiegare che se lui e Anna Maria ancora non avevano concepito non era certo perché lui non volesse, ma, casomai, perché lei lo respingeva fin dalla seconda notte di nozze con una riluttanza impossibile da vincere.

“Vattene nella tua stanza. Fai il tuo dovere, una volta nella vita...” concluse Ercole, mollando la presa sulla collottola del figlio in modo repentino: “Quante volte ti ho detto di stare attento? Quante volte ti ho messo in guardia da queste cose? Ti ho fatto prendere moglie presto proprio per evitare questi problemi e guarda come mi hai ripagato... Figlio ingrato. Tu non hai mai ascoltato nemmeno una volta. Mi fai pietà...”

Alfonso strinse i denti e non si fece ripetere le cose due volte.

Quando arrivò nella camera che era sua e di sua moglie, l'erede di Ercole Este aprì la porta senza annunciarsi e si rammaricò subito di averlo fatto.

Fu solo l'immagine di un istante, ma ad Alfonso bastò per sentir tornare lo stomaco sottosopra.

Sua moglie Anna Maria, al rumore improvviso della porta che si spalancava, aveva appena fatto in tempo a scostarsi dalla schiavetta nera con cui, suo marito l'aveva capito da tempo ormai, si intratteneva spesso e volentieri quando sfuggiva dai suoi doveri coniugali.

Coprendosi il petto velato solo da un trasparente vestito di pizzo scuro, la schiava si alzò subito dal letto su cui stava seduta accanto ad Anna Maria e, dopo averle rivolto un fugace sguardo, scappò di corsa.

Alfonso non la trattenne solo perché provava un tale ribrezzo all'idea di quello che lei e sua moglie stavano per fare da non volerla nemmeno sfiorare con un dito, come se in quel modo il loro peccato potesse trasferirsi su di lui.

“Mi spiace avervi interrotte.” disse il giovane, furente: “Ma tu hai di meglio da fare.”

La rabbia aveva preso il sopravvento su tutto il resto e Alfonso sentiva dentro di sé un fuoco implacabile che voleva essere saziato con la vendetta. E lui sapeva benissimo in che modo vendicarsi per la condotta della moglie.

Si avvicinò a lei con passi sicuri, mentre Anna Maria, presa dal panico, passava dal lato opposto del letto e chiedeva, con voce acuta: “Che vuoi da me?! Perché mi guardi così?!”

Alfonso fissava la moglie, di tre anni più vecchia di lui, e ne poteva vedere chiaramente la finezza dei lineamenti e la profondità degli occhi, eppure tutto quello che riusciva ad associare a lei era solo la sua spocchia, la sua presunta superiorità intellettiva che non faceva altro che sbandierare quando lui era presente e, sopra ogni altra cosa, il tanfo del suo tradimento continuo e contro natura.

“Voi Sforza siete tutti sbagliati!” inveì Alfonso, saltando sul letto e raggiungendo Anna Maria che stava dall'altra parte: “Tuo padre era un pazzo assassino! Tua sorella vive in una rocca come un soldato! Tuo fratello si intratteneva con i suoi paggi! E tu...”

Anna Maria provò a gridare, forse in cerca di aiuto, ma il marito soffocò le sue rimostranze premendole una mano sulle labbra: “È solo colpa tua se mi sono ammalato.” l'accusò.

Gli occhi della donna si spalancarono, sconvolti da quella notizia, ma, per quanto si dimenasse, non riuscì a contrastare la forza – ben addestrata da anni di vita militare – del marito, che la inchiodò al muro e che, dopo averle sollevato la veste, ottenne con la forza ciò suo padre gli aveva ordinato di prendere, sperando con tutto se stesso che quella singola volta bastasse.

 
   
 
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