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Autore: Anthea_    14/05/2017    0 recensioni
Il mondo è fatto di strade. Sono infinite, ognuna diversa dall'altra, ma qualcosa le accomuna tutte: ogni strada prima o poi è destinata ad incrociarne un'altra. Due strade si intersecano tra di loro creando qualcosa di nuovo, insolito, inedito e succede così anche con le persone. Nascono sole, ma sono destinate ad incontrare qualcun altro lungo il loro cammino chiamato vita. A volte si incrociano per stare insieme, altre volte per dividersi dopo poco tempo. Nessuno sa cosa potrebbe succedere. Le persone sono strade e neppure sanno di esserlo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Un mese prima
 

Eppure s'accorse che da un po' di tempo questa vita per lui andava, impercettibilmente, perdendo sapore.

(Italo Calvino, Gli amori difficili)

 

Settembre è un mese strano, il più strano dell'intero calendario. Un mese di inizio e fine. Un mese di prospetti e bilanci. Un mese che mi confonde perché mi ricorda i miei fallimenti, ma allo stesso tempo mi dà la possibilità di avere un nuovo inizio. È stato così sin da sempre, quest'anno però è diverso. Vedo chiari dinanzi a me i miei fallimenti, però non c'è nessun buon proposito, nessun nuovo inizio per me. Non ha più senso ormai volerne uno.

Osservo il soffitto bianco della mia stanza, con le mani intrecciate dietro la testa, mentre me ne sto disteso sul letto e non riesco a far a meno di pensare a tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Sembra quasi un incubo, il mio incubo e a volte vorrei tanto che lo fosse, vorrei tanto svegliarmi nel mezzo della notte col cuore a mille solo per capire che quello che sto vivendo non è reale, ma so che non sarà così.

In queste settimane ho scoperto che ricordare è importante, ti permette di sapere chi sei, ma la verità è che a volte ricordare ti distrugge, vorresti tanto poterne fare a meno, però non si può. Ad essere peggiore, forse, è la consapevolezza che il dolore che sento è il più temibile, è un dolore insopportabile perché lento, terribilmente lento, così tanto che mi costringe a vivere in una costante agonia.

All'inizio mi ripetevano che tutto sarebbe passato, che il tempo mi avrebbe aiutato, d'altronde io stesso ho sempre pensato che si va avanti cercando di mettere ordine, di dar senso a tutto ciò che ti circonda, a tutto ciò che ti succede affrontando i problemi singolarmente, così da poter passare a quello successivo sentendosi più leggeri, poi ho scoperto che a volte ti imbatti in qualcosa che non riesci a risolvere, qualcosa a cui non sai dare un ordine, qualcosa a cui non sai neppure dare un senso ed è allora che iniziano i problemi, quelli veri.  

Il "ci si abitua a tutto" è solo una bugia, anche se a fin di bene. Non è affatto vero, alcune cose non si superano, sono sempre lì dietro l'angolo ad aspettarci e così, quando ho capito di non aver via di fuga, ho deciso di arrendermi. Scappare sarebbe stato inutile, ma la realtà è un'altra: non ho mai provato a farlo perché nonostante il dolore sia forte è anche l’unica cosa che mi permette di ricordare ciò che di bello c’è stato. mi permette di ricordare momenti che non torneranno mai, che sono ormai solo miei ed è proprio per questo che voglio siano ben vividi in me. Anche se il dolore è tanto vale la pena sopportarlo, soprattutto se questo è l'unico modo per non cancellare tutto ciò che mi resta.

«Alessandro?», sento la voce di mia madre provenire dall'altra stanza. Non voglio alzarmi, ma so che se non lo farò tra non molto arriverà qui urlando, così mi faccio forza e la raggiungo in cucina, proprio mentre mi chiama per la seconda volta.

«Siediti, pranza con me», dice mentre è ancora indaffarata tra i fornelli. Sposto lo sguardo sulla tavola imbandita e vedo che ha apparecchiato per due, segno che mio padre non è in casa.

«Tieni, mettiti pure seduto», dice passandomi un piatto di pasta al sugo fumante. Lo afferro, lo poggio al mio solito posto e mi siedo osservando mia madre fare lo stesso. Sorride guardandomi e ricambio debolmente il sorriso. Continua a mangiare, mentre io non faccio altro che giocare con la forchetta rigirando la pasta nel piatto.

«Non ti piace?», domanda nonostante sappia perfettamente che non ho neppure assaggiato il cibo che ho davanti a me. Lo fa per farmi parlare, per capire cosa mi passa per la testa, ma come posso esprimere quello che sento, quando i miei stessi sentimenti confondono anche me? Sarebbe impossibile esprimerli e così non lo faccio.

«Mi sono svegliato da poco, quindi non ho molta fame», mento, in realtà ho semplicemente lo stomaco chiuso. Non mi va affatto di mangiare.

Gli occhi di mia madre sono fissi su di me, come per spronarmi e così cedo. Mi porto la forchetta alla bocca per farla felice, ma non appena assaporo il cibo è come se la fame che non sentivo da un po' improvvisamente tornasse. Lentamente mangio quasi tutto quello che ho nel piatto e colgo, con la coda dell'occhio, il sorriso compiaciuto di mia madre.

«Quando inizieranno i corsi?», chiede partendo alla carica su un altro argomento dolente: l'università.

«Non tornerò all'università, voglio portare in segreteria il modulo per la rinuncia agli studi», dico tenendo lo sguardo basso, sollevandolo solo alla fine per farle capire che faccio sul serio e che il mio non è solo un capriccio.

Lo sguardo dolce di mia madre si tramuta in una furia. «Tu non farai un bel niente, continuerai a studiare!», il suo tono non ammette repliche. Si alza e porta via il suo piatto ancora pieno dalla tavola senza neppure incrociare il mio sguardo, troppo delusa e ferita dalle mie parole.

«Invece lo farò, non voglio più studiare», ammetto per la prima volta ad alta voce.

«Devi!», urla. Vedo le sue spalle tendersi, mentre afferra e stringe con tutta la forza che ha la superficie di marmo della cucina.

«Non puoi rinunciare così, prova a riprendere gli studi. Tutto sta nell'iniziare, poi vedrai che sarà tutto più semplice. Ti chiedo di provarci per l'ultima volta, sei troppo vicino alla fine per mollare così», dice cercando di convincermi. «Un ultimo anno», propone, quasi come se stesse cercando un compromesso.

Ascolto le sue parole, mentre continuo a fissarmi le mani. So benissimo che ha ragione, non voglio negare l'evidenza, so di essere nel torto, ma non so cosa fare a riguardo. Da poco meno di un anno lo studio non mi interessa più, in realtà non mi è mai interessato particolarmente, però ora il mio rendimento ne ha risentito, negli ultimi mesi non ho studiato per nessun esame ed i miei genitori, per quanto comprensivi, non fanno altro che farmelo notare. Non riescono a capire che ho altro per la testa. Laurearmi non è affatto tra i miei primi pensieri. Non mi interessa più, non come mi importava un tempo, le cose mi vanno bene così come sono, però mentre sento mia madre urlare non posso far altro che capirla e sentirmi in colpa, terribilmente in colpa. Ha sempre fatto grandi sacrifici per me, così come mio padre, ma qualcosa in me si è spento e non so come tornare ad essere il figlio che lei vorrebbe, quello che sono stato un tempo, nonostante non sia mai stato perfetto. So che dovrei tornare ad essere quello di una volta, però le persone non sono come i computer, non esiste un modo per fare il downgrade del software, bisogna solo andare avanti e capire in che direzione dirigersi, ma soprattutto bisogna capire cosa fare per imboccare quella strada ed è proprio quello il mio problema perché non so davvero come fare, da dove iniziare. Ho grandi propositi, ma poche intenzioni.

«Mi stai almeno ascoltando?», chiede vedendomi totalmente disinteressato alle sue parole. Alzo lo sguardo giusto in tempo per vederla portare le mani sui fianchi e guardarmi con sguardo severo.

Non rispondo neanche questa volta, non voglio dire nulla perché so di non poterle promettere niente, non so neppure io cosa aspettarmi. Il silenzio mi sembra meglio di una bugia, così sto zitto.

«So che non è facile per te, - il suo tono cambia diventando nuovamente dolce e la cosa mi mette in allerta - però devi provarci, devi provare a superare la cosa, ad andare avanti. Fingere che non ti importa di niente e di nessuno non è da te, non è quello che...»

«Basta!», dico quasi urlando, mentre serro i pugni sul tavolo in un gesto istintivo, prima che possa aggiungere altro. Non voglio essere scortese con lei, so che le sto facendo passare già troppi brutti momenti, ma sa che sono testardo e sa soprattutto che parlare di certe cose mi fa scattare, quindi in qualche modo mi sembra quasi come se lei se la fosse cercata. Questo è quello che mi piace pensare, così da poter alleviare il mio senso di colpa.

«Sai che ti dico? Se vuoi comportarti da ragazzino, deciderò io per te. Quest'anno studierai e non accetto un no come risposta. Ora sparisci, non voglio averti tra i piedi», urla ancora, mentre la dolcezza che ha usato poco fa svanisce di nuovo a causa mia. Mi dà le spalle, troppo esausta per continuare la discussione e mi verrebbe quasi voglia di abbracciarla, di chiederle scusa, però alla fine non lo faccio anzi, in tutta risposta, vado via. Mi alzo, vado in camera mia restando sempre in religioso silenzio. Ogni parola potrebbe rovinare tutto, ancora di più, anche se non credo sia neppure possibile.

Una volta in camera vado spedito verso la finestra e la apro lasciando entrare il rumore assordante del traffico. Le strade sono affollate, ma a settembre è sempre così in città. Gli studenti universitari ritornano, le famiglie riprendono la loro solita routine e il silenzio viene rimpiazzato dal rumore. Un rumore che un tempo amavo, un rumore che sapeva di vita, mentre adesso preferisco di gran lunga la calma, il silenzio.

Afferro una sigaretta dal pacchetto e la stringo tra le labbra, mentre l'accendo e inspiro tutta la nicotina che contiene, sentendo il fumo pizzicarmi la gola per lasciarlo poi penetrare nei polmoni. Il vizio del fumo negli ultimi tempi è peggiorato, quella che un tempo era solo una sigaretta fumata in compagnia, è diventata la mia più cara amica. Guardo nel pacchetto e fortunatamente vedo che non ne ho altre. Mi godo con lentezza quasi disumana questo piccolo e fugace piacere, mentre osservo fuori dalla finestra, cullato dai miei pensieri. Spengo la sigaretta e la getto fuori dalla finestra proprio quando sento bussare alla mia porta.

Sobbalzo leggermente a causa del rumore inaspettato, ma mi riprendo subito quando sento la voce di mia madre.

«Posso entrare?», chiede, ancora fuori dalla stanza.

«Entra.»

La porta si apre e la vedo venire verso di me con passo titubante. I suoi occhi sono lucidi e non capisco se sia in procinto di piangere o abbia appena smesso. Vederla così mi fa provare una fitta di dolore ancora più forte e così prima che lei possa dire qualcosa, vado da lei e l'abbraccio.

«Tornerò all'università», prometto e in quelle parole sono implicite anche le mie scuse, scuse che spero abbia percepito.

«Grazie», esclama e si allontana un po' da me per guardarmi negli occhi. «Grazie per aver capito le mie ragioni. Vederti così mi fa stare male, ho bisogno che tu prenda la tua vita tra le mani. Ho bisogno di vederti di nuovo entusiasta per qualcosa. Ho bisogno di vederti felice e spensierato come un tempo.»

Mi sforzo di sorriderle, non sapendo che altro dire. Non sono affatto convinto che tornare all'università possa servirmi, ma so che non voglio causare altro dispiacere ai miei.

«Andrà tutto bene», promette accarezzandomi il viso e in quel momento torno un po' bambino, mentre mi lascio calmare da quel leggero tocco protettivo.

          Si dice che bisogna sempre fidarsi della propria madre perché lei sa cos'è meglio per il proprio figlio e mi piace                   credere che sia così, ho bisogno che sia così perché da oggi in poi la forza che ho perduto la troverò in lei. Per lei.

   
 
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