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Autore: psword    14/05/2017    0 recensioni
Sam è un ventunenne timido ed impacciato, che ha da poco fatto i conti con la sua omosessualità. Trasferitosi a Milano per lavoro, Sam si vedrà catapultato in un mondo fatto di lusso, eleganza e buone maniere. "Il Cavaliere" è uno dei più antichi e rinomati ristoranti della città, luogo di ritrovo del mondo della finanzia e della ricca borghesia milanese. Qui Sam, assunto inizialmente come aiuto cameriere, si troverà presto a diventare commis dell’affascinante e tenebroso Marco, il primo sommelier del ristorante. Da subito Sam percepisce una strana attrazione per quel ragazzo scontroso e taciturno, dall’aria apparentemente impenetrabile. Lo ammira da lontano, ne studia gli atteggiamenti e inizia ad essere inconsciamente affascinato dal suo mondo. Pian piano, tra Marco e Sam nasce una strana amicizia che, col passare del tempo, si trasformerà in qualcosa di più profondo. Senza neppure accorgersene, Sam finisce nel baratro di una relazione malata – la voragine oscura – permeata di misteri ed ombre. Chi è realmente Marco? Quale segreto nasconde? E soprattutto, che legame esiste tra lui e i Plincher, la potente famiglia milanese, cliente affezionata del ristorante?
Genere: Erotico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 1






Il treno sarebbe partito alle cinque in punto. Avevo lo stomaco in subbuglio perché sapevo che da quel giorno sarebbe iniziata una nuova vita per me. La mamma mi aveva dato un passaggio fino alla stazione, forse perché non sopportava di separarsi da me prima del previsto.
«Scrivimi, quando arrivi». Mi disse scombussolandomi i capelli sulla nuca. I suoi occhi azzurri, identici ai miei, mi fissavano con un velo di amarezza.
«Non preoccuparti», risposi con un sorriso. «Andrà tutto bene».
Quella di andare a vivere lontano da casa, era una decisione che la rendeva orgogliosa di me. Ma ero anche consapevole che non sarebbe stato facile per nessuno dei due abituarsi a quella separazione. Dopotutto, eravamo stati sempre io e lei. Nessun altro.
Mentre il treno si avvicinava, la salutai un' ultima volta. Abbracciandola, ispirai il suo dolce profumo di pesco.
Poi un ultimo sorriso e salii sul treno con il cuore gonfio di sentimenti contrastanti. Ero felice di partire. Felice di lasciarmi alle spalle quel piccolo paesino di provincia che detestavo. Eppure, una parte di me, quella più prudente e riflessiva, era invasa da mille dubbi e paure.
«Sarà una figata!».
Mi aveva assicurato Max, il proprietario del ristorante in cui avevo lavorato per anni. Era stato lui a propormi di trasferirmi a Milano: un suo amico, Giorgio, stava cercando un giovane commis de rang disposto a prestare servizio nel suo antico ristorante di cucina italiana. Ero stato indeciso fino all'ultimo momento sulla possibilità di accettare quel lavoro. Non ero sicuro di essere adatto per un posto elegante e raffinato come Il Cavaliere. Ma poi, dopo settimane di inutili ripensamenti, mi ero finalmente deciso a fare il grande passo. 
«Sei davvero sicuro di voler andare a Milano da solo?». Mi aveva chiesto la mamma, quando le avevo comunicato le mie intenzioni. Quella notizia l'aveva colta completamente alla sprovvista.
«Starò bene, vedrai. Con lo stipendio che mi daranno, potrò permettermi di pagare l'affitto e anche le bollette!».
«Non ne dubito, ma...Milano è una grande città. E se non dovessi trovarti bene?». 
La mamma e le sue ansie ingiustificate!
«Andrà alla grande. E' un lavoro serio. E poi, mal che vada, potrei prendere il primo treno e tornare a casa, no?». 
Mentre osservavo il paesaggio naturale, i profili delle varie case che si alternavano davanti i miei occhi, mi sembrava di rivedere ancora il volto sorridente della mamma: i suoi grandi occhi da bambina mi scrutavano attenti, mentre i capelli biondi si muovevano piano mossi dal vento. Era sempre stata una grande avventuriera. Adorava le sfide, le novità, ma quando si trattava della mia incolumità, poteva diventare la persona più fifona del mondo.
«Questa è la mia grande occasione. Lo sento». 
Per tutta la durata del viaggio, mi sforzai con tutto me stesso di allontanare il suo pensiero dalla mia testa. Per quanto potesse apparire crudele e insensato, volevo buttarmi alle spalle il passato. Dopo la morte di mio padre, la nostra vita era cambiata irreparabilmente, lasciandomi dentro un segno indelebile; un segno che stavo cercando in tutti modi di dimenticare.

***

«Milano! Fermata: Milano!», sentii urlare, ad un tratto, nel dormiveglia. Aprii gli occhi lentamente e gettai un'occhiata al finestrino del vagone. La stazione di Milano era già affollata a quell'ora del mattino. Mi levai le cuffie dalle orecchie e aspettai che il vagone si svuotasse completamente, prima di recuperare la mia roba ed uscire. 
Quando fui finalmente fuori dal treno, tirai su il naso verso le monumentali volte di ferro e vetro che si stagliavano sopra la mia testa. Ovunque, sentivo il chiacchierio dei passeggeri – valutazioni sull'andamento della borsa, commenti sul cattivo tempo che si era abbattuto in quei giorni sul nord Italia. A Milano, come al solito, stava piovendo, ma non mi stupii. Avevo detto addio per sempre al caldo sole della mia Sicilia da tanto tempo, e precisamente da quando, all'etá di sei anni, i miei genitori mi avevano portato in quel piccolo paesino della Brianza, dove ero cresciuto. Mentre camminavo trascinando la mia valigia piena, diedi uno sguardo alla piantina che la mamma mi aveva regalato. La esaminai attentamente, seguendo la direzione della folla. Ad un tratto, mi ritrovai nel bel mezzo della stazione. Spostai il peso da una gamba all'altra, perdendomi nella visione di quel via vai frenetico.
Fu proprio in quel momento che un ragazzo dai modi vivaci mi venne incontro come se mi conoscesse da sempre. Le sue labbra si distesero in un sorriso.
«Tu devi essere Sam, non è vero?». Mi domandò lo sconosciuto fissandomi con un pelo di curiosità. Era un ragazzo dai capelli corti, radi. La carnagione era piuttosto scura, per quella stagione dell'anno. Sembrava appena ritornato da un viaggio nelle Hawaii. 
«Dal  silenzio, devo desumere che sei proprio tu…». Sorrise. «Io sono Alberto, il maître del Cavaliere. Giorgio mi ha mandato a prenderti». 
Dopo un lieve tentennamento, gli restituii la stretta sorridendo. Alberto aveva un’aria simpatica e cordiale; l’abbigliamento curato e il portamento si addicevano senz’altro al suo ruolo di caposala.
«Piacere mio».
«Finalmente ci conosciamo! Che ne dici se iniziamo ad incamminarci?».
«Certo…». Gli cedetti il manico della valigia che Alberto trascinò tra le rosse colonne della stazione, sino ad un auto parcheggiata in fondo alla strada. Mi coprii con il cappuccio del bomber e lo seguii affrettando il passo. 
«Com’è andato il viaggio?».
«E’ andato bene, grazie!».
«Lungo? Noioso?».
«Noioso!». Ammisi, spianando le labbra. 
«Piove spesso qui, vero?». 
Lui, dopo aver gettato un’occhiata verso gli enormi nuvoloni grigi, emise un sospiro scoraggiato.
«Meno che in altre città, anche se quest’anno si prospetta un inverno particolarmente turbolento!». E così detto, Alberto richiuse il cofano con un tonfo. In silenzio, montammo dentro il veicolo e io mi appuntai la cintura. 
«Conosci già Milano?».
«Non molto». Ammisi. «Ci sono stato una volta, ma solo di passaggio». 
Mentre gli parlavo, presi ad osservare di nuovo il cielo plumbeo e minaccioso, che quella mattina assomigliava alla tavolozza di un pittore. Un cumulo di sfumature bianche, grigie e nere. 
«Ho letto che hai vent'anni...».
«Ventuno!». Lo corressi l’attimo dopo. Alberto mi lanciò un'occhiata circospetta da sopra la spalla, prima di tornare a guardare la strada. Da lontano, vidi sfilare alcuni tram di città.
«Caspita!». Ridacchiò. «Sei davvero giovane! A dirla tutta, te ne avrei dati anche di meno…». 
Gli diedi corda. In fondo, non era una novità che qualcuno mi facesse quell'annotazione. Fisicamente ero minuto, smunto, con un folto casco di capelli biondi che tagliavo molto raramente. E poi avevo un viso piccolo, sottile, una pelle rosea da bambino.
«L’altro giorno, chiacchierando con Giorgio, ho dato una rapida occhiata alle tue referenze e sono rimasto davvero molto colpito. Sei giovane, ma ho letto che lavori nel settore da parecchi anni…».
«E' così. Lavoro da quando ne avevo sedici». Dopo la morte di mio padre, io e la mamma avevamo dovuto rimboccarci le maniche. Col tempo, lei era diventata un agente immobiliare molto ricercato. Io, invece, mi ero arrangiato a fare diversi lavori: barista, cameriere, aiuto cuoco.
«Com'è lavorare al Cavaliere?» Domandai sbirciando la strada. Nel frattempo, superammo anche alcuni semafori verdi. Non riuscivo a tenere gli occhi fissi in un punto. Dal finestrino vedevo alberi spogli, grandi pannelli pubblicitari, vetrine e palazzi signorili. Sui marciapiedi, la gente camminava a passo veloce con gli ombrelli spiegati.
Alberto abbassò un poco il volume della radio. «Il nostro è un lavoro molto faticoso, inutile negarlo. Ma riserva anche molte soddisfazioni».
Presi a giocherellare con le cordicelle del mio bomber nuovo.
«Max, il mio vecchio capo, mi ha detto che Il Cavaliere è un bel posto...»
«Beh sì. Un bel posto davvero!». Mi sorrise, forse divertito da quella definizione spicciola, che non dava affatto giustizia al luogo che avevo appena menzionato. 
«Da noi viene una clientela parecchio esigente. Gente importante, piena di soldi! Insomma, persone disposte ad aprire il portafoglio volentieri». 
Nell'udire quelle parole, avvertii una leggera fitta allo stomaco. Non sapevo se sentirmi più eccitato o nervoso, all’idea di dover servire una clientela di quella portata. 
«Comunque tranquillo. All'inizio ti seguirò io. Imparerai velocemente». Tirai un bel respiro e abbandonai la nuca sul sedile.
«Da quanti anni lavori lì? Al Cavaliere, intendo». Alberto fece un rapido calcolo.
«Avevo qualche anno in più di te quando ho cominciato. Dio...sembra passato un secolo!». 
Mi rivolse un sorriso frettoloso. 
«All'epoca, frequentavo la Cattolica, ma poi ho deciso di abbandonare gli studi e mi sono trovato un lavoro. Ho iniziato come te, come aiutante, poi, dopo diversi anni, ho ottenuto il ruolo di caposala. Il mese prossimo, festeggio tredici anni di servizio!». 
«Forte...».
Pensai ad alta voce, guardando il diretto interessato. Ad un tratto, l'auto si fermò proprio davanti ad un'alta palazzina, dalle pareti bianche e grigie. La osservai con attenzione, soffermandomi sugli ampi balconi dallo stile liberty.
«Eccoci: siamo arrivati!». Alberto spense il motore e tirò via la chiave dal cruscotto. Lo seguii fuori dall'auto e mi avvicinai al cofano per recuperare la mia valigia. Mi guardai attorno con interesse. Non molto distante da noi, un gruppetto di bambini se ne stavano al riparo sotto i balconi. Si stavano scambiando delle figurine, parlando ad alta voce.
«Che te ne pare?».
«La zona mi sembra tranquilla!».
«Vedrai, ti ci troverai bene! Dal ristorante sono pochi passi».
Trascinai la valigia, mentre Alberto faceva tintinnare le mie chiavi tra le mani. Entrammo nell'atrio e prendemmo l'ascensore in silenzio. Al terzo piano, le porte si aprirono automaticamente e noi ci avvicinammo ad uno dei portoni del pianerottolo. Mi asciugai i piedi sullo zerbino, mentre Alberto infilava la chiave nella serratura. 
Appena varcai la soglia, sentii un intenso odore di cannella. Era così forte che Alberto fu costretto ad aprire tutte le serrande.
«Mia cugina...». Borbottò. «E' fissata con i deodoranti per gli ambienti! Per un po' ha vissuto lei in questa casa. Ora, invece, si è trasferita al piano di sopra, in un appartamento più grande. Se dovessi avere bisogno di qualcosa, puoi rivolgerti a lei! Ma ti avverto: è un tipo un po’ strambo! La conoscerai stasera. Lavora anche lei al Cavaliere».
Adagiai la valigia sulle mattonelle e seguii Alberto in cucina. La casa in cui avrei vissuto nei mesi seguenti era un bilocale molto accogliente, con un'ampia zona giorno, munita di tutti i comfort.
«Quella in fondo è la tua stanza...». Disse Alberto indicando una porta bianca smerigliata che si affacciava nel bel mezzo del corridoio. La camera da letto era parecchio grande, con un letto a due piazze, una scrivania vuota proprio sotto la finestra. Sulla sinistra, invece, era posizionato un armadio a muro che occupava quasi tutta la parete. Alberto tirò su le serrande e la stanza si riempì di una pallida luce naturale.
«Eccoci qui. Spero ti piaccia».
«Direi che è perfetta». Alberto si accostò all'armadio e spalancò un'anta. Quindi mi fece segno di darci un'occhiata.
«Qui dentro ci sono le camicie e la tua divisa nuova. Dovrebbero essere della tua taglia». 
La divisa era elegantissima: uno smoking nero con giacca e pantalone isacco dello stesso colore abbinato ad un cravattino di seta. 
«Devo davvero indossare un abito così?». Domandai meravigliato. 
«Temo di sì». Fu la risposta ironica di Alberto.
«Davvero... E'...».  Non trovavo più le parole. Era così bella, che avevo il timore di rovinarla.
«Noi del personale indossiamo la divisa poco prima del servizio in sala. Sai com'è... Giorgio ci tiene che siamo sempre in ordine. Ogni settimana, consegnerai lo smoking e le camicie sporche al reparto lavanderia. Ogni lunedì la ritroverai bella e pronta nei camerini del ristorante...».
Mi limitai ad annuire ed Alberto chiuse nuovamente l'anta dell'armadio. 
«Perfetto. Credo di averti spiegato più o meno tutto». Mi consegnò le chiavi della casa che io presi con la mano che mi tremava un poco.
«Ti aspetterò giù alla fermata verso le sette. Mi raccomando, cerca di essere puntuale». 
Alberto fece un sorriso e mi diede una pacca sulla spalla. Lo seguii per accompagnarlo sino all'uscita.
«Bene, allora a stasera».
«A stasera». 
Alberto annuì con un sorriso ed uscì dalla porta. Lo vidi rientrare in ascensore e scomparire in fretta dalla mia vista. Chiusi il portone e poggiai le spalle al muro, tirando un bel respiro. In quell’ambiente a me poco familiare, mi sentivo spaesato. Non avevo mai provato niente del genere, prima di quel momento. Quando riuscii a recuperare un po’ di autocontrollo, presi a gironzolare qua e là per l'appartamento. Terminata quella veloce ispezione, rientrai nella mia stanza e presi a sistemare in fretta la mia roba nell'armadio. Ero stanco per il viaggio, così, non appena finii di riordinare la stanza, mi distesi sul letto. Sentivo solo il rumore della pioggia che picchiava forte sui vetri, il brontolio continuo del temporale che si avvicinava.
Non mi erano mai piaciuti i temporali. Da bambino, per sconfiggere la paura, correvo sempre da mio padre, perché lui era l'unica persona che mi facesse sentire al sicuro. Poi, col tempo, dopo la sua morte, avevo imparato a fare da meno di lui. Mi coprivo con le lenzuola fino al naso e rimanevo rannicchiato nel letto fino a che i rumori non cessavano del tutto. Mi tolsi le scarpe e mi infilai sotto le lenzuola. Rimasi in quella posizione, in silenzio, con gli occhi completamente chiusi. L'ultima cosa a cui pensai, prima di addormentarmi, fu il sorriso di mio padre mentre mi teneva stretto a sé, tra le sue braccia forti e vigorose. La sua pelle odorava di erba e di limoni fioriti. Quelli della nostra Sicilia.
   
 
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