Il
Fiore di Envers
Il mio mondo è fatto di luce, i raggi
dorati attraversano la mia gabbia trasparente. L'acqua è uno specchio che non
riflette mai la mia immagine, tranne quando sfioro la superficie: per un
attimo, la mia chioma smeraldina sporca la limpidezza che mi sovrasta e io
posso osservare ciò che lo ha privato della libertà, della vita – la mia pelle
traslucida, i miei occhi di cristallo, le mie labbra di schiuma. Poi emergo, e
i cerchi intorno a me dissolvono il mio riflesso.
L'acqua ha già dimenticato il mio dolore
– il suo e quello di mia sorella – ma io no.
Il porto di Envers era fatto di coralli,
mercanzie pregiate che adornavano le sue piazze e che ogni giorno venivano
imbarcate sui ponti delle navi più belle, caricate nelle stive per salpare
verso terre lontane.
I suoi moli erano più di cento e tutti
si piegavano, come bracci flessuosi, verso il largo della baia, incrociandosi e
intersecandosi tra loro, per poi ripiegare verso terra. Visto dall'alto della coffa,
il Fiore di Envers dava il benvenuto alle navi che entravano in porto.
«Soffia!» urlavano i marinai di vedetta
sugli alberi maestri o abbarbicati sulle sartie.
Era il grido di chi, dopo lunghi viaggi
per mare, poteva rimirare la grande fontana collocata al centro di quel grande
intrico di pontili e ormeggi. Posta su un isolotto galleggiante, scolpita nel
marmo importato dall'occidente, la fontana bianca era la stigma di quel fiore
di legno, il soffio gorgogliante che sbuffava a ogni ora del giorno e della
notte; su di essa si ergeva il faro di ardesia gialla, che illuminava gli
spruzzi d'acqua e la rotta dei naviganti.
Ricordo ancora quando, nascosta dietro a
un barilotto alla deriva, osservavo le divise blu dei marinai che bruciavano
sotto i raggi del tramonto, la merce che veniva scaricata, e tutt'intorno a
loro i suoni del mondo che cantavano alla vita. Le voci degli uomini si
rincorrevano lungo la battigia; le urla delle donne richiamavano i mariti o i figli,
molto spesso qualcuna strepitava in direzione del proprio amante. E i gabbiani
– la loro è l'eco più dolente che dilania il mio cuore – garrivano al meriggio,
sorvolando la fatica dell'uomo con ali spiegate e il vento a sorreggere la loro
superba bellezza.
Era un dipinto da ammirare da lontano,
Envers, una tavolozza di colori che s'infiammava dietro bianche vele e cordame
teso tra di esse. Adesso… adesso è solo una tela affondata nella memoria, su
cui i colori colano come fredde gocce che hanno il sapore del rimpianto e delle
cose perdute.
Mi trovo ancora qui, nonostante tutto,
seduta sul bordo di quell'isolotto raggiante. Anni fa avrei venduto la mia
anima al demone nero degli abissi per poter stare così vicina al regno degli uomini
anche solo per un istante. Adesso vivo al centro del Fiore di Envers e annaspo
in cerca di quelle luci rumorose che si appannavano dietro le vetrate delle
locande.
La fontana alle mie spalle non zampilla
più. Il faro sopra di me è spento e abbandonato. I pontili sono deserti e il
loro legno marcisce. Il tramonto è sangue che imbratta le nere pareti e i vetri
frantumati delle case. Se c'è vita al di là di questo sfondo, a me non è concesso
saperlo. Envers è l'unica città che dà sull'oceano – la mia gabbia – ed è l'unica
dimora dell'uomo che io posso osservare.
La rema sulla baia trascina l'acqua del
mare a purificare la sabbia e la dura pietra; ma essa, quando si ritira, resta
limpida e insensibile ai dolori della terra. Il male cova ancora sulle sponde.
Il
sangue è più denso dell'acqua: ci definisce, ci lega… ci maledice[1].
Ajanah amava quanto me la libertà, osservare lo strano acquarello di Envers
all'alba e spiare la tangibile virulenza dei marinai a lavoro sugli alberi o con
i piedi penzoloni dalla falca. Questi fumavano una strana sostanza che si
mischiava all'odore della loro pelle e che pungeva il nostro olfatto. A me
nauseava, Ajanah ne era attratta. Restava incantata ore a studiare un uomo con
la pelle di cuoio e il corpo pieno di cicatrici aspirare quel veleno come il
più potente degli afrodisiaci – oppio che offusca la ragione, ecco cos'era. Mia
sorella era sempre stata una sirena testarda, volubile e capricciosa, e l'idea
di innamorarsi di un umano l'affascinava. Mio padre sbuffava dinanzi al suo
ennesimo capriccio e guardava dall'altra parte mentre ero io che la inseguivo
in superficie, contro ogni ragione. Mentre io mi lasciavo sedurre dalla vita
sulla terra, lei si arrovellava con l'immagine distorta che l'acqua le mandava
della bellezza dell'uomo.
L'idea divenne ossessione, però, e
infine si tramutò in un desiderio accecante. Ajanah – questo lo scoprii molto
dopo, quando ormai era tardi – aveva iniziato ad avventurarsi sempre più vicina
alla terraferma, senza di me. Il marinaio con le cicatrici l'aveva scorta e
aveva ricambiato con incredulità il suo sguardo. Lei aveva lasciato che le sue
scure mani toccassero la liquidità lucente del suo corpo, si era lasciata
accarezzare i capelli celesti e infine si era fatta sedurre dalle rozze parole
esotiche di un uomo avido e sporco.
«Torna da me, bella mia» la chiamava a
sé ogni notte. «Resta con me un altro po'.»
E ogni volta giurava il suo amore, e
ogni volta pretendeva un pegno in cambio: un corallo, una perla, un osso di
balena… tutte cianfrusaglie che noi sirene amiamo raccogliere dal fondo del
mare. Infine, però, si prese con l'inganno ciò che nessuna di noi può donare:
la protezione del mare.
Sapete, la nostra pelle è fatta d'acqua,
riflette la luce, ci orna con i colori dell'arcobaleno. Se provaste a scorgerci
dentro i mulinelli di settembre, quando l'acqua e il cielo si confondono in un
infinito di meraviglie, vedreste l'azzurro del nostro corpo farsi schiuma e il
bianco dei veli – le nostre pinne
sono come strascichi che ci accarezzano il corpo – diventare trasparente;
intravedreste il nostro scheletro d'argento brillare tra le squame e seghettarsi
come una chitarra di ossa nel nostro velo caudale, farsi talmente sottile e fulgorante
da brillare come corallo. E su tutto, la prodezza del mare: ci rende sfuggenti,
traballanti come fiammelle su fusti di cera… incorporee come le onde che si
abbattono sulla terra.
Tempo dopo scoprii che l'olio, che il
mare ci offre come protezione, è anche l'essenza più ricercata dai marinai di ventura.
Loro l'avevano scoperto per caso, una scia di luce che la coda di qualche mia
sorella si era lasciata dietro; e Ajanah ne era completamente ricoperta,
brillava sotto i raggi traditori della luna.
Il mare ci proteggeva con la stessa sostanza
del suo cuore, e Ajanah aveva osteggiato tale dono con troppa innocenza davanti
all'avidità dell'uomo. Il fumo che le labbra di lui trattenevano bruciò la
purezza di mia sorella, macchiò la sua anima e inscurì il suo bel volto. Mentre
l'asprezza di quella sostanza soffocava la sua pelle, l'uomo tirava via con
lame affilate la lucentezza del mare dal suo corpo. Abbandonò il sangue del mio
sangue sulla spiaggia e se ne andò lontano dal mare, dove avrebbe fatto fortuna.
Trovai Ajanah che galleggiava alla
deriva aggrappata a un barile, l'acquosità della sua bellezza solcata da vene
rosseggianti di umiliazione e tormento. Il suo corpo non riusciva più a
contrastare le correnti, la sua pelle era straziata e… spiccava! Spiccava come
uno scoglio in mezzo alla vastità del mare. Oh, quanta pena mi fece! Vedo
ancora i suoi occhi trapassarmi con tanto odio quanto i miei la coprirono di
pietà e la fecero arrossire più del dolore già inflittole dalle lame dell'uomo.
Non vi fu pace né rimedio per quel
marchio maligno: la sirena più bella si era trasformata nella figlia sfregiata
del demone nero degli abissi. Il tradimento fu l'onta che più di tutte imbruttì
la sua anima; lo sfregio sul corpo si trasmise come la peste sulla sua coscienza.
Il demone nero degli abissi dimora nelle oscurità più tetre dove neanche il mio
popolo osa avventurarsi. L'ira di Ajanah, però, proliferò tra i banchi di
squali e le correnti che trasportavano la mia famiglia; corrose la barriera
corallina, e anche il più piccolo mollusco soffocò tra i suoi tentacoli di
rancore. La "strega di Envers", sussurravano tutti al suo passaggio,
mortificandola ed emarginandola.
Ajanah si chiuse in un funesto silenzio,
si ammantò di nera morte e verde terrore; e solcò i mari con austerità e
pericolosa fermezza, rifugiandosi tra i recessi della Lama, il faraglione di
roccia da cui tutti si tenevano timorosamente alla larga e dove molte navi si
erano incagliate nelle notti di bufera.
Avrei tanto voluto saperle donare la
pace, ridarle indietro la sua bellezza e l'amore di un popolo che la osteggiava
con ribrezzo. Andai con lei, per creare quella parvenza di affetto che le era
stato negato. Il mio sangue, mi dissi, le avrebbe ridato il coraggio di tornare
alla luce. Ma le oscurità della Lama divennero il suo tepore costante e la mia
presenza il riflesso di quell'onta subita.
«Ti amo, Freya, adorata sorella» era
solita cantilenare mentre le spazzolavo i crespi capelli – l'acqua si rifiutava
di illuminare il celeste delle sue ciocche. «Guarda come sei bella. La luce che
emani incanterebbe qualunque creatura… anche l'uomo più spregevole penderebbe
inerme dalle tue labbra.»
«Nessun uomo avrebbe scelta, Ajanah, se
io lo baciassi.»
Nessun marinaio avrebbe mai baciato
un'incantatrice delle nebbie. Per loro siamo leggenda, un mero miraggio che gli
uomini raccontano nelle taverne mezzi sbronzi e colmi di fantasia – o così è
stato prima. Ci dipingono come seduttrici-mangia-uomini, belve orrende che la
luna schizza tra le onde di bellezza divina. Ma vero è che, se il mare ci ha
donato la sua discreta protezione, la notte lussuriosa ci ha armato d'incanti
maledetti: un nostro bacio dura per sempre.
Tutto quello che desideravo era
soffocare quelle idee angoscianti. Tutto quello che mi chiese Ajanah fu la
vendetta: un uomo le aveva tolto la protezione del mare, un uomo le avrebbe
fatto dono della protezione degli uomini. Il Fiore di Envers, primo porto della
terraferma e baluardo della civiltà di coloro senza coda, sarebbe diventato
l'avamposto perfetto per la violenza di un cuore spezzato.
Perché, padre mio, non mi hai concesso
la grazia di dimenticare? Ricordo… ogni cosa…
Cammina
come un vecchio uomo, ma la sua pelle è tesa e i suoi capelli sono scuri come
la pietra del molo; a piegare le sue spalle e a rendere incerto il suo passo
c'ha pensato il fumo nero, quello che i marinai trattengono tra i denti come le
labbra di un'amante.
So
cosa lo spinge così vicino al mare, il bisogno impellente lo conduce a me.
L'uomo cala le braghe, ma io non intendo perdere altro tempo – la puzza dei
rifiuti di una locanda mi dà la nausea.
«Marinaio,
uomo di mondo» lo chiamo a pelo dell'acqua, l'unico punto in cui le mie labbra
possono pronunciare la lingua degli uomini senza apparire come un gorgoglio
minaccioso.
L'uomo
s'immobilizza, ebbro d’illusioni per credere fino in fondo nella stranezza di
ciò che gli si para davanti: una donna ricoperta di veli che galleggia poco
oltre la battigia; una fanciulla che sembra in difficoltà.
«Aiutami,
marinaio.»
Non
servirebbe neanche scandire quelle ultime parole. L'uomo si getta in mare come
una papera starnazzante e sbatte le braccia – sembra annegare, come fa a non
affondare? – saltellando goffamente verso di me.
Non
si rende conto che la riva è sempre più distante, non si accorge che l'ombra
della Lama lo sovrasta. I suoi occhi non dubitano delle mie intenzione nemmeno
quando l'oscurità della grotta ci sommerge e gli impedisce di scorgere la mia
figura. A questo punto è la mia voce che lo guida verso di me. A pelo d'acqua
possiamo parlare; avvolte dalla notte possiamo sedurre con il nostro canto.
Il
baluginio verdognolo di cui è ammantata la casa di mia sorella si riflette
nello sguardo vitreo del disgraziato. Le mie mani sfiorano la sua pelle,
eludono le sue dita fameliche e lo spingono per l'ultima volta verso le
profondità di quegli antri.
«Marinaio…»
lo chiamo.
«Marinaio!»
invoca il suo nome Ajanah, surclassando la mia voce.
L'uomo,
ormai, può gattonare come un cieco sulla riva, sopra lo scoglio, nei recessi
della grotta. Striscia sul nero strascico di mia sorella e, inerme, le si dona
per placare un po' della sua rabbia. Un bacio, ed è per sempre suo, dormiente nell'abbraccio
leggero delle profondità marine.
«Lascia
che vada insieme agli altri» mi ordina mia sorella, e insieme guardiamo il
corpo affondare, l'acqua chiudersi come un sudario sul suo volto e il pallore
della pelle svanire nella pece del mare.
«Quanti
ancora, Ajanah? Non credi che sia ora di smettere? Gli uomini di Envers si
stanno insospettendo.»
«Freya,
pensi che il mio dolore si sia dissolto? Hai dimenticato, sorella, quanto male
mi ha fatto l'uomo?» Allunga le sue braccia – più simili a tentacoli venosi
oramai – e artiglia le dita, come a voler strappare la protezione del mare dal
mio volto; poi mi accarezza come faceva da bambina. «Consolami, sorella.»
L'acqua
mi ha donato la più perfida delle maledizioni: la mia memoria è fallace,
ricorda solo quello che la ferisce di più. Ma nel momento in cui cerco di
arraffare le immagini di Ajanah quand'era ancora la creatura più effimera, ecco
che queste mi sfuggono come aridi granelli di sabbia – sterili e vuoti come le
pozzanghere lasciate dalle maree sulla riva.
Nascondo
il ribrezzo per la vicinanza di quella sirena sconosciuta; soffoco in un
sorriso malinconico il rancore verso una vita che non sarebbe dovuta essere.
Ajanah è pur sempre mia sorella, e io resterò al suo fianco fino alla fine.
«Quanti
ancora?» sussurro, determinata e pronta a tutto.
Provo
sollievo quando si dirige verso i recessi della sua tana, mi ritraggo quando le
sue parole graffiano il mio cuore.
«Quanti
ancora? Quanti vuoi tu! È carne rovinata quella che mi porti.» L'ira sferza la
distanza tra noi, per un attimo la rende incolmabile. La voce raschia contro le
pareti di roccia, si fa tuono e si abbatte, tiranneggiando, su di me. «L'uomo
ha strappato al mare la mia bellezza. Devi rubare a Envers il suo fiore più
bello. Lo farai per me?» mi seduce con dolcezza, ma per quanto la sua voce si
fa fievole e velata, io posso quasi vedere il veleno con cui ella tesse quelle
parole.
Se
fossi donna e potessi piangere, verserei sangue dagli occhi. La sua voce è la
lama più subdola. Ma è pur sempre la voce di mia sorella. «Se esiste, io lo
condurrò da te.»
Dopotutto,
posso ancora mettere fine a questa follia. Ne basta solo uno.
Lo conobbi prima ancora che lui
imparasse a distinguere me dai riflessi dell'oceano. Era bello perché era
virile. Il suo corpo era fatto di carne, i suoi muscoli erano forza e durezza,
perfetti quando si contraevano per lo sforzo; la sua pelle era macchiata dal
sole e mi piaceva il suo profumo quando iniziava a sudare.
«Puzzano» diceva mia sorella degli
uomini che conducevo a lei. Su di lui, però, io sentivo l'odore della terra e
della fatica, e non badavo a nient'altro, tranne che…
I suoi occhi erano lastre di cobalto,
rosseggiavano quando la sfera di fuoco toccava il mio mondo e ne insanguinava i
lontani orizzonti.
La prima volta che quello sguardo mi
scorse, vidi le nuvole affacciarsi davanti a esso. Lui intercettò uno spruzzo –
la mia coda dispettosa – ed eccolo lì a cercare il mio fantasma dappertutto,
tranne dov'ero io. Ricordo quando fui delusa nel momento in cui scosse la testa
e si voltò. Se solo lo avessi lasciato andare allora…
Divenne un gioco per me: era divertente
attirare la sua attenzione sull'oceano, verso di me; poi guizzare ai margini,
dietro uno scoglio, e osservarlo mentre si affannava a trovarmi.
Un giorno lo vidi seduto sulla punta di
un molo, nascosto alla vista degli abitanti proprio dall'ombra della fontana – esattamente dove sono stesa io adesso. Si
tormentava le mani per il nervosismo, giocava con i lacci della sua blusa e
corrugava la fronte mentre tentava di sfidare il rosso del tramonto per
perforare il pelo dell'acqua. Parlava: da solo e allo stesso tempo con me, con
quello spruzzo d'acqua che gli dava il tormento.
«Mi chiamo Daniel e… beh, credo di
essere pazzo.» Se le voci avessero un colore, la sua sarebbe stata della stessa
lucentezza di quella sostanza dolciastra che gli umani mettono sopra i dolci… come miele. «Sono qui a parlare a uno
scoglio o a qualche pesce che si diverte a saltare ogni tanto. Chissà cosa mi è
preso…?»
Stava per andarsene quando la mia coda
fendette un'onda dietro di lui. Si voltò e io sparii nel mare, inghiottita
dalla corazza del mio mondo.
«D'accordo, sono pazzo. Resto!» Ricordo
i suoi occhi spalancati mentre tornava a sedersi sulla scomoda roccia. «Resto
con te.»
Gli uomini non sapevano veramente di
noi. C'erano storie, leggende da marinaio superstizioso che tenevano compagnia
nelle notti di burrasca: raccontavano di sirene e mostri marini, creature
fatate e pericolose che ingannavano e divoravano le persone trascinandole negli
abissi dell'oceano. Ogni tanto qualcuno diceva di averci avvistato a largo di
qualche isola o nei mari del sud, molti attribuivano a noi l'affondamento di
vascelli e navi. A Envers, la voce che una di quelle creature stesse fagocitando
i suoi uomini si stava spargendo come una nube sull'oceano.
Non so se Daniel ci credeva o era solo
un tentativo disperato il suo; so solo che non mi ha mai guardato con disprezzo
o paura, neanche quando ho legato le mie labbra alle sue.
Tornò su quello scoglio ogni volta che
la sua nave rientrava in porto; io lo seguivo di nascosto durante le sue
traversate. In un certo senso mi sentivo fortunata: le donne di terra erano
costrette ad aggrapparsi agli scogli del porto e ad attendere angosciate il
ritorno dei loro mariti; io potevo guidare l'uomo che amavo tra le correnti più
impervie e lungo le rotte più rocambolesche, custodendolo dalla capricciosità
delle acque e dalle mire di Ajanah.
Più mi allontanavo da lei, più il mio
cuore gorgogliava di gioia, gli spiriti d'aria giocavano di nuovo con me e io
riuscivo nuovamente a sorridere a quel mondo che proliferava, distante un colpo
di pinna. Ma era da mia sorella che tornavo, sempre e comunque; e ogni volta
portavo in dono un uomo, e ogni volta non era abbastanza. Ormai c'erano
cadaveri ovunque, corpi in decomposizione su ogni spuntone di roccia e riva
della grotta. E in tutto questo, il mare restava a guardare: osservava e
dimenticava, e poi scrutava di nuovo. Quante suppliche futili ho rivolto a mio
padre! Quanta rabbia ha tormentato le mie notti! Ajanah era sempre più
capricciosa, e il mare sembrava non capire. C'erano volte in cui la distesa di
blu si alleava con le sue smanie e portava a lei povere anime che non erano
riuscite a raggiungere il porto sicuro. In quelle circostanze mi aggrappavo a
un'onda e scorrevo come una corrente improvvisa tra quelle avverse, cercando e
sorridendo quando realizzavo che lui non era tra quelle vittime.
L'acqua, difatti, è l'anima più
capricciosa che esista, peggio di un bambino che punta i piedi o di un
cavalluccio marino che attorciglia con sgarbo la coda. L'oceano – la mia casa –
è imprevedibile e incorruttibile: l'istinto lo porta a far del bene o del male,
senza scrupolo. Egli non ha coscienza e dimentica troppo in fretta per
portargli rancore. Difatti, come si fa a odiare un infante che non conosce
morale?
Daniel diceva che ero uno spirito del
mare, la figlia del più grande mistero del mondo.
«Sembri fatta di schiuma e seta»
mormorava mentre, con tremore reverenziale, sfiorava la mia pelle diafana e
creava giochi d'acqua sulla mia guancia. «È come toccare la superficie del mare
più cristallino.»
Sì, alla fine avevo commesso lo stesso
errore di mia sorella: avevo lasciato che l'uomo di terra sfiorasse la mia
pelle, che le sue mani tenessero un po' per lui la protezione del mare. Ero
diventata preda di un mostro ancora più pericoloso di quello che aveva ghermito
Ajanah. Io lo amavo! Lo amo ancora…
C'era una tacito accordo tra noi due:
ognuno restava nel suo elemento; ci sfioravamo a limite dei nostri mondi, senza
che l'uno toccasse veramente l'altro. Quante volte Daniel mi pregò di cantare
per lui? Quante provò a farmi spiccicare anche una sola parola?
Era lui a cantare per me. La sua voce
non era stregata, ma sapeva incantare; le sue parole non erano una malia
ingannatrice, ma riuscivano a mostrarmi ciò che io non potevo raggiungere. Mi
raccontò delle terre lontane che lui aveva visitato. Mi cantò le ballate che
alcune donne tribali intonavano durante le notti di luna piena. E attraverso la
sua voce, dentro i suoi occhi, riuscivo a volare. Superavo l'uomo e il mio
essere sirena. Ero un gabbiano sorretto dalla sua presenza! Ali spiegate
accarezzate dalle sue labbra!
«Canta per me!» m'invogliò un giorno,
interrompendo il flusso dei suoni.
Io scossi la testa, spaventata.
«Parlami! Di' qualcosa!» mi supplicò.
Era tornato a tormentarsi le mani, a
torturare il lembo della sua blusa. Cosa vedeva in quel momento attraverso la
superficie? L'acqua aveva increspato la mia sagoma, ne aveva dipinto
un'immagine distorta, forse minacciosa?
«Il capitano della nave in cui lavoro è
sparito. I marinai dicono che è stato catturato, fatto prigioniero dalle
orrende creature che dimorano la Lama.» Le sue parole incespicavano nella
lingua, ogni suono veniva pronunciato con ritrosia.
Quella fu la prima volta che desiderai
ardentemente la capacità di poter piangere. Come fai a mostrare il tuo dolore?
Puoi urlare, sbuffare contro un'onda… eppure avrei tanto voluto piangere. Sì,
sarebbe stato il modo più intimo per
fargli capire quanto stessi soffrendo.
Affondai. Lo sentii rincorrermi, ma ero
già lontana, difesa dai turbini freddi dei miei fondali.
Il capitano lo avevo catturato io. Io!
Perché non mi spazzi via, allora? Perché, vita, hai deciso per me il fato più
angoscioso, il ruolo più pietoso? Non ti basta quali scelte ho fatto finora?
Quanto vuoi divertirti con la mia anima?
«Guarda,
sorella» mi sussurra all'orecchio, i suoi capelli che macchiano l'acqua con
ciocche di un azzurro slavato, sporco. «Guarda che bella nave.»
La
riconosco: posso distinguere i capelli di Daniel molleggiare al vento, riccioli
di sole che sventolano sul ponte di sopraccoperta. Lui è lì, a un passo da me.
L’osservo asciugarsi la fronte con il dorso della mano, detergersi il viso con
alcuni spruzzi d’acqua e sorridere a un suo compagno. I suoi occhi fendono la
distesa di blu. Sta forse cercando me?
«Una
nave bella, deve avere marinai affascinanti» cattura la mia attenzione la voce
di Ajanah
«Non
sempre la bellezza degli occhi si riflette nel cuore, Ajanah» cerco di
persuaderla.
«Io
non ero forse la sirena più bella?»
«Lo
sei ancora, per me.»
«E
non ero io, forse, ad avere il cuore più puro?»
Mi
lascio galleggiare sotto il pelo dell'acqua, le labbra che soffiano sulla
superficie. «Non l'hai ancora perso. Se solo…» Mi sporgo verso di lei, la
liquidità della mia fronte increspata come rema sulla sabbia.
«Me
lo hanno strappato. Sì, hanno rubato il mio cuore» urla e poi attenua il tono,
le sue labbra sempre più violacee. L'acqua sta diventando il suo peggior
nemico, vedo la sua pelle squamata ricoprirsi di piaghe. «Riprendilo, Freya. È
su quella nave, lo sento.»
Ajanah aveva preso di mira la nave di
Daniel, sentiva il profumo inebriante… lo stesso che l'aveva ridotta in quello
stato. E io, disperata, avevo condotto a lei l'uomo più prestigioso del
vascello: era bello, potente, vigoroso, sapevo che possedeva la stima degli
uomini della città. Un uomo illustre di Envers, ecco su chi avevo riposto le
mie illusioni! Ma erano le mie parole a tormentarmi: non sempre la bellezza degli occhi si riflette nel cuore…
Fuma,
il capitano, un grosso bastone ricolmo di polvere che offusca il suo fiato e la
sua immagine, nascondendolo dietro a una nuvola di amarezza. Mentre mi avvicino
alla piccola barca su cui egli si è steso, ammirando il cielo, un pensiero mi
rapisce: Daniel non puzza di quell'odore, non ha mai respirato il fumo; le sue
labbra non sono annerite, ma candide e rosee come la tea più delicata. Scaccio
quel pensiero – infame sussurratore di verità abbiette – e, con una fretta che
rivela le mie ansie di donna, rifiuto la compagnia di quell'uomo. Approfitto,
invece, della sua distrazione e, con un po' di fatica, tiro la carena della
nave controcorrente, con lentezza esasperante. La luna è una suadente
luminescenza nascosta da una sottile nebbiolina. Le esalazioni di fumo e
schiuma celano le rocce frastagliate della mia nuova casa.
È
solo quando la bocca della Lama si chiude sopra di noi che il capitano si
riscuote dal suo torpore. Incremento il movimento di coda, chiedo aiuto a mia
sorella. Forse è troppo lontana, non mi sente. Cerco di guidare la piccola
barca sugli scogli ma qualcosa mi ferisce: è una lama. Ne ho vista una simile
legata alla cinta di Daniel. Una volta l'aveva tirata fuori e me l'aveva
mostrata: lucida e argentea, brillava come una perla. Ora quella stessa lucentezza
ha incrinato la liquidità del mio corpo. Uno dei miei veli – la pinna
branchiale – è stato tranciato, l'olio che lo ricopre si sta disperdendo tra le
piccole increspature dell'acqua. Sono costretta a lasciare il legno e a
riemergere. L'uomo, però, mi individua subito e si lancia verso di me. Il suo
peso mi costringe ad annaspare sott'acqua. L'oceano mi toglie per un attimo il
respiro. Non posso proteggermi dalla sua mole, ma la sua morsa si scioglie
quasi subito intorno a me. Riemergo per la seconda volta e mi trascinò verso il
centro della grotta, lontano dalla barca e dalla brutalità ferina dell'essere
senza coda. Dalle secche dell'oscurità, finalmente la voce di mia sorella viene
in mio soccorso. Inizia a cantare. L'uomo si tappa le orecchie tra le onde, calandosi
nei recessi del nostro elemento. Lo sento smuovere il mare alla nostra ricerca.
«Sorella,
aiutami. Mi farà del male. Di nuovo!» Ajanah strepita, voluttuosa, quasi fosse
un gioco sfuggitole di mano, ma stavolta la sua voce è come fango e mi si attacca
addosso.
Non
importa se quell'uomo sta cercando o meno di avere salva la sua vita; non
m'interessa se l'istinto – il più forte sopravvive – lo spinge a lottare come
un leone. E dimentico persino che non è stato quell'uomo a usurpare Ajanah. In
quel momento, tutto ciò che vedo è la profanazione sul mio corpo, tutto quello
che provo è l'onta di dolore rabbia e vergogna che deturpa la mia pelle: l'essere
senza coda non può dominare dentro la mia casa!
Sfreccio
tra le secche, raggiungo mia sorella. Il capitano non può respirare, ha bisogno
d'aria. Quando riemerge, uno spicchio di luna perfora le nubi e scandaglia le
rocce della Lama, un faro che illumina l'uomo a corto di energie. La malia
della notte è un veleno verde che spira verso di lui, lo circonda. L'uomo non
può sfuggire. Sono io che scivolo nella sua direzione; sono io che stringo le
braccia intorno alle sue spalle e, infine, gli rubo la libertà. Il capitano non
vedrà più la luce, non comanderà più alcuna nave. Il corpo affonda mollemente,
sfiora la mia pinna e sprofonda in abissi da cui io sento di dover già
scappare.
Il
vuoto che sento mi spinge verso Ajanah. «Sorella» la supplico. La rabbia ha
lasciato il posto alla paura e a un'angoscia che minaccia di affogarmi.
«Perché
hai condotto quell'essere spregevole a me?» La strega della Lama non ha parole
di consolazione nei miei riguardi. È livida e la sua voce frustra la distanza
tra noi come tentacoli di morte.
«Io
volevo… io pensavo che… oh, era il mio dono per te.»
«Per
me? Non so nemmeno che sapore abbiano le sue labbra! E guardati» mi indica, «le
tue squame perdono la protezione. Come farai senza la tua bellezza?»
«Basta,
ti prego. Guarda a che punto siamo arrivati! Quell'uomo non sarà l'ultimo che
tenterà di colpirci! Dobbiamo smetterla. Guarda a cosa ha portato il tuo odio.»
«Pensi
che non meriti più qualcosa di bello dalla vita?» mi tormenta la voce di mia
sorella.
Ajanah
è afflitta – dalla sua solitudine, dal riflesso che rinnega, dai soffusi fumi
che contaminano il suo cuore; ma più soffre, più desidera far male a ciò che la
circonda, far male a me. Un pensiero orrendo mi viene sussurrano dall’oceano:
lei ti odia, tu sei tutto ciò che ha perso. Lo scaccio rabbrividendo. Non
importa quanto dolore annebbia il suo buon cuore, io saprò amare per entrambe e
ridarle ciò che ha perduto. Eppure il vuoto nel mio petto si fa sempre più
grande, la consapevolezza che ho allontanato con così tanto accanimento si
rigetta su di me, mille volte più forte.
«Meriti
il meglio» la consolo, sporgendomi verso di lei e ignorando il mio, di dolore.
«Allora
dammelo» urla, facendomi sobbalzare. La sua voce si strascica come dita sulla
fiancata di una nave. «Portami… lui!»
Come
farai senza la tua bellezza?
L'acqua non ha memoria; per questo è
così limpida. Le maree sconquassano i relitti del passato come lo sbattere
frenetico delle ali di un colibrì: troppo in fretta per catturarne la bellezza,
lasciano un vuoto incolmabile nell'anima di chi, quel volo, ha avuto la
disgrazia di imprimerselo negli occhi meravigliati.
Io amavo Daniel. E la cosa più
orripilante è che lui ricambiava il mio amore. Non era la protezione del mare
che bramava; non era la mia bellezza che lo incatenava a mirarmi al tramonto, a
un soffio dalla sua terra. Lo capii troppo tardi, però. Ancora una volta…
«Sono
qui, amore mio» mi invoca dagli abissi. È ancora lì, dove l’ho lasciato, dove
per un attimo ho provato a rinnegare la mia natura.
È
la corrente che mi spinge di nuovo verso di lui. Con un colpo di coda mi blocco
a un passo dal molo, prima di sfracellarmi sugli scogli. Ho provato a fuggire,
a rinnegare quello che il dolore mi soffia addosso; ma la sua voce mi riconduce
a lui, ancora sofferente e colma di malessere. Il mare è in tempesta, il cielo
si sta caricando di energia prima di liberare la sua ira – quella di mia
sorella.
«Non
posso restare qui con te.»
I
nostri occhi si spalancano all'unisono, entrambi sorpresi nel sentire la mia
voce solleticare il pelo dell'acqua.
«Parlami
ancora, te ne prego.» Sembra non rendersi conto del pericolo.
Vedo
già la volontà del suo viso perdersi in espressioni di contemplazione; lo vedo
sciogliersi come neve a un soffio da me.
«Non
posso restare con te» ripeto.
«Allora
lascia che venga io da te. Ovunque» si sporge.
L'aria
è elettrica. Sembra che il mondo stia per finire. In mezzo a quel pandemonio,
le sue parole sono un'ancora che mi trascina a fondo con sé: struggenti e
malinconiche, fanno spiccare un volo al mio cuore che finisce con un risucchio,
le ali che smettono di battere proprio quando raggiungo il cielo.
Perché
non posso piangere? Voglio piangere! Perché non scappa? Perché… mi ama?
«Mi
ami?» gli chiedo, allungandomi verso il porto estremo.
«Non
ho fatto altro da quando ti conosco» ridacchia, con una spensieratezza che gli
illumina il viso – miele baciato dall'ultimo raggio di sole.
«Sei
ferita?»
Il
mio viso, lentamente, segue la direzione del suo sguardo e si posa sulla
macchia traslucida che brilla intorno a me.
«Il
mare mi sta ripudiando» pronuncio, sconvolta e impaurita. «Diventerò come lei»
mi sconvolgo a pensare. Sento nell’inflessione della mia voce quasi un senso di
estraneazione: scopro che, dopotutto, non m’importa.
«Amore
mio» mi richiama, «che ti hanno fatto?»
Sento
il dolore uscire come placebo dalle sue labbra. Desidero aspirare quel patimento,
bramo che quel male diventi mio. «Aiutami» lo imploro.
Daniel
non esita un solo istante: la sua mano è un filo di carne che brucia il mio
volto con il suo calore, increspa la mia pelle e mi cattura come una rete. Ma
sono le mie labbra, alla fine, che lo fanno prigioniero.
«Sorella.»
Ajanah
si stacca dalle tenebre, la sua figura irriconoscibile. È la sensazione che
crea nel mio cuore – un palpito che minaccia di spegnersi per sempre – che mi
permette di riconoscerla. Quell'epiteto con cui mi rivolgo a lei ha perso tutto
il suo valore: la strega di Envers è solo la più pesante delle catene che mi
spinge verso questa follia.
«Sei
venuta a compatirmi, Freya? Adesso che il mare ti sta abbandonando, puoi
capirmi, cara sorella?» La sua voce è rammaricata, dell'amore che provava per
me rimane solo quella pallida gelosia; ora può anche freddarsi, visto che anche
la mia bellezza sta sfiorendo.
«Ti
ho portato un dono, sorella. Se non posso ridarti il tuo cuore, allora ti dono
il mio.» Il corpo di Daniel riaffiora dalle nere acque, dormiente.
Ajanah
si avvicina con timore reverenziale, ammirandone la pura bellezza. «Lo sento»
sussurra meravigliata, «il fiore più bello… per l'essere più triste.»
«Lui
potrà consolarti…»
Ajanah
assaggia le sue labbra inermi con frenesia, le martoria con passionevole odio, dimenticandosi
di me. E io resto a guardare…
Mi
sento svuotata, perduta. E in quella voragine sempre più profonda nel mio
petto, riaffiorano i fantasmi della mia anima: tutti coloro che ho catturato e
condotto in quella grotta emergono, pallidi e con gli occhi spalancati e
lucenti; i relitti delle navi affondate solcano le onde come macabri scheletri
che fili invisibili sorreggono con la loro perfidia. Il cielo è sempre più
scuro, il mare sconquassa i punti saldi riducendoli a fragili appigli. Il porto
di Envers sta per essere investito da un maremoto d'orrore.
«Vieni,
sorella» mi solletica la sirena, «prendiamoci la nostra vendetta.»
Un'eco
che solca quell'inferno stiletta il mio petto: è il garrito dei gabbiani, che
volano via per sempre. La loro paura sarà il loro verso d'addio per me e per le
luci di Envers.
La costa è preda della risacca. Il mare
è una tavola piatta che culla le bare dei caduti. Gli unici fiori sono quelli
smorti che galleggiano; i superstiti li hanno lanciati in mare come ultimo saluto
– o come simbolo di accusa – verso le cose perdute quel giorno; poi se ne sono
andati via.
Sono finalmente sola con questa città –
ciò che ne resta. I fuochi sono stati spenti o si sono estinti al culmine della
loro foga tempo fa. Il mare, come allora, brontola innervosito; forse sta per
cedere a uno dei suoi capricci – o forse se ne scorderà, chissà, e il vento di
bonaccia tornerà ad accarezzarne la superficie cheta. Allora non fu così.
Ajanah
è una belva ferita aggrappata alla Lama. Guarda gli scheletri del suo esercito
salpare verso il porto di Envers: non attraccheranno mai, ma continueranno la
loro navigata fino a schiacciare ogni più limitrofo mattone. Mia sorella non si
accontenta di aver rubato l'anima più pura al mondo degli uomini: vuole privarlo
per sempre del suo fiore, tenendo per sé ciò che di bello rimarrà alla fine:
Daniel.
La
sua vendetta si rivolta anche contro di me: ho tormentato le sue veglie con la
mia perfetta presenza; ella mi ha sussurrato all'orecchio fin quando non ho
ceduto di mia volontà ciò che avevo di più caro. Non l'ho forse servita al
meglio? Non ho disincantato i miei occhi solo per cercare di colorare i suoi?
Devo aver sbagliato qualcosa, perché adesso il fantoccio dell'uomo che amo è
ritto, vicino alla sua coda, e il suo sguardo vaga sul mondo senza veramente
vederlo. Il mio amato non c'è più, è stato tradito dalle mie labbra.
Gli
uomini stregati si gettano contro i loro stessi compagni, i loro amici, le loro
amanti. Non c'è pietà per nessuno, neanche per i più indifesi. Il fuoco
attecchisce e brilla alle estremità del porto, correndo verso l'entroterra. I
vascelli nemici prendono fuoco e colano a picco; quelli guidati dal potere di
mia sorella sfilano tra le fiamme come fantasmi tra le mura di una casa, senza
incontrare alcuna resistenza. Il Fiore di Envers, con i suoi pontili e la sua
battigia, sfuma in tonalità di morte, il faro al suo centro che punta
accusatore verso il cielo, in trappola. È al rogo! Accusato di aver brillato
più delle perle intrecciate tra i capelli del popolo del mare!
L'odore
acre delle ceneri al vento ricopre come funesta fuliggine il paesaggio e piove
sulle acque agitate del mare. Metà del mio busto resta a galleggiare sopra il
pelo dell'acqua, ancora una volta vorrei riuscire a vomitare sale. Sento gli
uomini strepitare ordini e urlare dal dolore; le donne pregano gementi al cielo
e verso il silenzioso invasore. Fa paura la sfilata di quei relitti in quella
sinistra quiete. Volgo lo sguardo verso mia sorella, implorante, e i miei occhi
si dilatano dallo stupore: Daniel sta piangendo. Il suo sguardo segue la
sinuosità della costa e poi si fissa sul mio, come richiamato da una forza
trainante. Vedo le lacrime brillare come diamanti sul suo incarnato dorato,
scivolare come se fossero figlie del mare. Allora capisco. Ajanah non può
averlo, lui è mio, e lo sarà per sempre, nel bene e nel male. Daniel piange per
me, al posto mio. Posso sentire il suo cuore straziante urlarmi: ovunque,
con te.
Anche
nell'oblio degli abissi? Nelle fauci del demone nero?
Un
ricordo riaffiora. Daniel mi sta sorridendo. Lo vedo piangere mentre con gli
occhi della mente il suo viso si distende in una timida carezza.
Le
mie labbra intessono l'ultimo inganno. Daniel ha ancora legato alla vita la
lama d'argento. La mia voce guida le sue mani olivastre verso la meta. Due
volte il colpo mi ferisce mortalmente: quando la lama spegne la luce verdognola
dagli occhi di Ajanah e quando vedo il suo esercito sprofondare tra le rocce
frastagliate. Il mare perde interesse per la riva, sembra addormentarsi insieme
all'ira. Gli uomini piangono, e così fa anche il cielo, mettendo fine a
quell'orrore. La cenere viene bagnata e trascinata a mare, dove le acque
cancellano tutto con la loro eterna trasparenza.
Invoco
il nome del mio amato, lascio che lui torni a me per l'ultima volta. Non esiste
sortilegio che possa riportare indietro la sua volontà; ormai, è solo un
burattino nelle mie mani. Tendo le braccia verso di lui, lo lascio galleggiare
tra le onde, con la testa sul mio seno. Finalmente sono io che canto per lui,
come egli desiderava tanto. Canto, mentre lui piange per me. Gli dico addio
mentre lui mi dona il suo ultimo ansito di umanità. Poi lo affido al mare, ed
esso lo conduce tra le correnti in cui io non posso seguirlo.
E adesso, dopo tanto tempo – quanto è
passato? – sento il freddo della roccia penetrare i miei veli. La ferita alla
pinna branchiale si è rimarginata, quella nel mio ventre sanguina ancora. Il
sangue è dello stesso colore di quello che macchiò la scura bellezza di mia
sorella. Le onde si sforzano di lambire la mia coda, fugace tentativo di
protrarre le mie sofferenze. Ho deciso, però: non lascerò questa roccia, se non
alla mia morte.
Finalmente lo raggiungerò. Non è forse,
questo, un finale felice? Ho tradito mia sorella, ho ucciso l'uomo che amavo,
ho incenerito il Fiore di Envers e distrutto il ponte tra i nostri mondi.
Adesso, però, lo raggiungerò.
Che queste parole, semmai qualcuno le
vorrà conoscere, rimangano impresse in questa maledetta roccia, dove il suo
cuore ha palpitato per me, la sua sirena; che il mio sangue – acqua di mare –
le scolpisca tra le pietre frastagliate di questa tetra città, che le scavi,
erodendo la pietra nera, in queste terre emerse direttamente dagli abissi. Se
Envers risorgerà come araba fenice, io non sarò qui a vederla: è giusto che gli
artefici di questa disgrazia periscano tutti, che liberino il mondo dalla loro
presenza. Non posso negare che ho paura: di ciò che è accaduto all'anima di
Ajanah – se n'è salvata almeno una parte? – di ciò che accadrà a me, quando il
mio corpo fluirà tra le onde e il mio spirito verrà trasportato dalle mie
cugine silfidi. E non vedrò più i gabbiani… Mi sarebbe piaciuto volare ancora
una volta insieme a loro, ma non c'è più Daniel, accanto a me, a cantare del
cielo e delle meraviglie del mondo. Le mie ali sono andate a fuoco insieme al
fiore più bello.
A me resta solo questo faro spento; agli
uomini queste macerie. Al mare… il mare non ha bisogno di doni: prende e porta
via con sé tutto ciò che può arraffare, dimenticandosene al giungere della
prossima marea. Si è preso la mia famiglia, ha trascinato con sé il mio
marinaio… prima o poi si ricorderà di risucchiare anche me.