Ci sono giorni in cui le cose non vanno tanto male.
Lavoro, non penso, e il sorriso dei bambini mi fa pensare che forse non tutto fa così schifo.
I loro abbracci, i baci lanciati con le manine o stampati umidicci sulle guance mi convincono (illudono) di non essere più un rifiuto sociale, qualcosa di profondamente sbagliato o rotto, da buttar via.
Poi ce ne sono altri, giorni in cui vorrei solo gridare tappandomi le orecchie e chiudendo gli occhi.
Urlare nelle orecchie di chi si ostina a non voler vedere o sentire che qui ci sono anche io.
E che a volte cerco di dire qualcosa.
Comunicare.
Forse chiedere aiuto.
Essere vista, riconosciuta.
Ricevere solo sguardi vuoti mi distrugge.
Mi trapassa, da parte a parte come se non esistessi.
Pugnalate al nulla, ripetuti colpi inferti nella nebbia. Per quanto densa, sempre impalpabile.
Ed è così che mi sento: inconsistente agli occhi altrui.
Immobile osservo, guardo l’altrui vivere, desiderando di morire.
Sparire, dissolvermi nel nulla.
Semplicemente cessare d’esistere.
Così ardentemente come non capitava da anni.
Perché quando si tocca il fondo non è vero che l’unica possibilità è rialzarsi.
Esiste un’altra opzione, di cui nessuno parla.
Sperare di essere caduto con così tanta violenza da esserti rotto l’osso del collo.
Di netto.
Fine.