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Autore: Damnatio_memoriae    01/06/2017    1 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 6
 
♦ Il sangue che non mente ♦
 
“Cade la maschera mostrando la natura
del suo portatore che, con bravura,
ha nascosto di sé la parte più oscura:
è la mezza verità la realtà che rassicura?”
 

 
Così come il fiume, a sud di Ennon, scorreva impetuoso erodendo la riva per dividere il borgo del Ferro da quello di Tanaro, così i boschi di cedri dividevano a settentrione Ennon da Nika. Nessuno che non provenisse dal rione del Legno avrebbe mai percorso quella strada, limitandosi a seguire la via acciottolata che costeggiava il confine della contrada, ma gli uomini e le donne di Nika conoscevano della selva ogni arbusto, ogni animale, ogni pericolo e ogni bellezza. Ed era proprio in uno di quegli anfratti che Tess aveva visto Savannah per la prima volta, ormai tredici anni prima. Aveva notato qualcosa di affascinante nel suo modo imperscrutabile e critico di osservare il mondo, nella compostezza libera e selvaggia e nella dignità che trasparivano da ogni gesto e parola; non poteva fare a meno di ammirarla e di esserne gelosa, ma di una gelosia sana, che la spingeva a migliorarsi per diventare un giorno, Tess sperava, come lei. Savannah, dal canto suo, era rimasta stranamente incuriosita dalla bambina che si era trovata di fronte, dalla determinazione che riusciva già a leggerle nello sguardo e, perché no, anche dalla sfrontatezza – che generalmente mal tollerava - con cui difendeva le sue posizioni. Rivedeva sé stessa nei suoi occhi, ma una lei di troppo tempo prima, ancora innocente e ingenua, che non si era piegata al volere della società. E Tess le permetteva di notare cose a cui lei, ormai, aveva smesso di prestare attenzione, forse per noia, forse per abitudine. «Guardo il mondo attraverso te, piccola amazzone» le aveva detto una volta.
Savannah l’aveva vista crescere e cambiare, o forse diventare quello che era davvero, come solo una sorella o una compagna di avventure potevano fare, e Tess aveva visto passare decine di stagioni senza che il tempo potesse scalfire il corpo dell’amica, ma non si era accorta che gli anni – che trascorrevano per lei tutti uguali - le avevano corroso lo spirito.
Theresa non aveva mai provato grande stima per il Ministro di Nika, ma sapeva di non poterne parlare apertamente con Savannah, la cui lealtà verso il suo padrone era sincera. Era tuttavia preoccupata del suo attaccamento nei confronti di quell’uomo così introverso, della sua cieca fiducia, della sua totale dedizione, quasi dell’incapacità di pensare con la propria testa, che le risultò difficile non credere alle voci da taverna, alle storie di abusi, alle tragedie che giungevano dalla capitale.
«Non capisco» aveva confessato un giorno «Che senso può mai avere riporre la propria fiducia in una persona che può portarti via la libertà in qualsiasi momento, anche solo per capriccio? Come puoi fare affidamento su chi ti tiene in pugno?».
«Tu non puoi capire» l’aveva interrotta Savannah, voltandole le spalle.
«Perché non scappi? Vieni con me!».
«Non è così semplice».
«Di me ti puoi fidare».
«Dove sta la differenza nel credere a te o a lui o a chiunque altro? Non è sempre un salto nel vuoto appoggiarsi a qualcuno?».
Tess aveva tentennato «Con me non dovresti obbedire agli ordini».
«Non è certo la mancanza di ordini, o di obblighi, o di regole che fa di te una persona libera».
«Potresti essere te stessa».
«Non posso più essere me, senza lui. È questo quello che succede con l’amore: ti rassegni ad avere una parte di cuore nel corpo di qualcun altro».
«Amore?» aveva riso «Ma il tuo non è amore. È quello che vuole farti credere lui».
«Cosa ne può mai sapere una ragazzina viziata come te?».
«So che non può esserci amore quando ci si sente intrappolati».
E da quel momento nulla era più stato come prima. Forse, quando si è abituati ad avere a che fare con persone forti ed integre, anche il minimo segno di debolezza può infastidire.
Il vento si era alzato freddo sulla cittadella fortificata e sulle sommità delle torri, quasi a ritmo con il rintocco delle campane, svolazzavano le bandiere dei cinque rioni. Anche le foglie dei cedri venivano scosse dall’aria che tirava e, mentre Tess incedeva con passo sicuro verso la ragazza che aveva di fronte, qualcuna si staccava dal suo ramo, volteggiando su sé stessa prima di cadere al suolo.
Gli occhi freddi di Savannah la scrutarono e il viso assunse un’espressione cinica «Ah» disse con sufficienza, senza allontanare la mano dalle sue affilate armi «Sei solo tu».
Tess sorrise «Se gli occhi non ti ingannano. Lieta di constatare che non cambi mai». Daia la raggiunse titubante, ma Savannah la degnò appena di uno sguardo.
«Come se potessi».
Tess incrociò le braccia al petto. «Se anche fosse, rimarresti sempre uguale. A certa gente piace ripetere gli stessi errori».
«Nessuno lo sa meglio di te: non hai ancora perso il vizio di origliare le mie conversazioni».
«Quasi speravo ne valesse la pena. Invece non perdi mai occasione per piangerti addosso» abbassò gli occhi sul ragazzo riccioluto, ancora seduto ai piedi dell’albero «Solo che prima lo facevi da sola».
Lui mantenne lo sguardo. «Per quello che può valere, sapevo già che eravate qui. Più voi donne volete essere silenziose, più fate chiasso». Con un balzo si tirò su.
Theresa lo liquidò velocemente «Quando vorrò imparare l’arte del silenzio da un uomo, ti verrò a cercare» si rivolse a Savannah «Potrei dirti che passavo di qua per caso, ma non ci crederesti».
«Conoscendoti? No, certo che no».
«Sono passati tre anni. Sono sufficienti per crescere, sai? Potrei stupirti».
La ragazza sbuffò «Io non mi stupisco più di nulla».
«Io sì. Mi stupisco di doverti sentir rimuginare ancora sulle stesse cose».
«Non ti trattieni mai dal parlare, vero?».
«Forse aspetto ancora che tu mi dia ascolto. D’altronde la speranza è l’ultima a morire».
Savannah scosse la testa, ma non ribattè. Lasciò invece cadere le mani lungo i fianchi e avvicinandosi a Caleb disse «Vieni, andiamo via».
Tess scattò. «Non ignorarmi! Ti sto parlando!».
La ragazza rimase impassibile. «Ne sono consapevole. È solo che non mi interessano i tuoi giudizi, né quelli di chiunque altro».
Daia allungò una mano e la posò sulla spalla dell’amica «Tess, forse dovremmo andare anche noi» sussurrò, vedendola alterarsi. L’altra si scansò «No».
«Dovresti darle retta» le consigliò Savannah, indicando con un cenno della testa la mora «Faresti risparmiare tempo ad entrambe».
«Io e te abbiamo un conto in sospeso».
«No, affatto» iniziò ad allontanarsi.
«Mi devi ancora una rivincita! O vuoi negarmi anche quella, oltre al saluto?».
«Io non ti devo nulla. Se vuoi qualcosa, vieni a prendertela» la provocò.
Theresa non se lo fece ripetere due volte e marciò a passo di carica verso la sua rivale, ma Daia le bloccò la strada, parandosi davanti a lei. «Che cosa stai facendo?» la riprese «Sei forza impazzita? Vuoi essere esclusa dalla gara?».
Caleb si strinse nelle spalle. «La tua amica ha ragione. È contro le regole che due sfidanti si azzuffino prima della competizione. Non saranno ammessi disordini. Non siamo certo in una bettola».
Tess gli lanciò un’occhiataccia «A vedere te, non si sarebbe detto».
«La temperanza è una virtù di pochi ed evidentemente tu non sei tra questi. Dunque è vero quello che dicono di te: sei nata nel borgo sbagliato, ragazza di Tanaro».
La rossa spalancò gli occhi «Che cosa hai detto?».
Daianara la trattenne «No, Tess, lascialo perdere» disse, ma lei non le diede ascolto.
«Sarai sicuramente di Morèa, insulso come sei!».
«Basta» s’intromise Savannah con aria scocciata «Questa è la diatriba più stupida a cui sia stata costretta ad assistere» invitò Caleb a seguirla «Mi stanno aspettando».
«Hey, non ho ancora finito con te!» le urlò dietro Tess.
«Fino a quando ti ostinerai a vedere le cose nel modo che più ti fa comodo, sarò io ad aver finito con te».
«Se davvero non ti interessa quello che gli altri pensano, allora perché ci presti tanta attenzione? Hai forse paura che abbiano ragione? Hai forse paura che io abbia ragione?».
La bionda si fermò. «Pensi davvero ci sia tutta questa differenza fra le persone come me e quelle come te? Siete così ottusi da non rendervi conto dell’evidenza. Dimmi» si voltò per guardarla «I bambini non ubbidiscono forse ai genitori? E i sudditi ai loro sovrani? I discepoli ai maestri, gli apprendisti agli artigiani, i fedeli al confessore, i soldati al generale, gli uomini alla propria coscienza? E tu non segui forse gli ordini di Zane, il Ministro di Ennon, come tutti gli altri? E se una persona a cui tieni ti chiedesse un favore, tu non la accontenteresti?».
«Non è la stessa cosa».
«E del tuo totem?» la incalzò «Cosa mi puoi dire di lui? Potresti ordinargli di buttarsi giù da un dirupo, di sprofondare in un lago e non riemergerne. Potresti torturarlo e ordinargli di non fare rumore, di correre fino a vederlo stramazzare al suolo o gettarlo nel fuoco e dimenticarti di lui».
«Taci! Stai vomitando oscenità» ribattè inorridita «Non farei mai delle cose simili, è l’amico più sincero che ho».
«Lo so. Come vedi, anche tu puoi decidere arbitrariamente della vita altrui e questo non ti rende più meschina di chiunque altro. Avere il potere non significa doverlo usare e poter decidere non significa impedire agli altri di scegliere. E non c’è nulla che ti conferisca il diritto di pensare che il tuo legame sia più sincero e onesto del mio».
«Non dubito certo di te, ma non riesci ad essere oggettiva. Sono solo preoccupata».
«Non esserlo. So chi sono e non ho bisogno del tuo aiuto, come già ti dissi in passato. Credevo avessi capito, ma evidentemente mi sbagliavo. La pensiamo diversamente eppure ancora provi ad imporre la tua idea e a screditare la mia. Non sei tu quella che abusa del suo potere?».
«Cosa? Non sai quello che stai dicendo».
«Nemmeno tu, ma questo non sembra trattenerti dal dispensare giudizi non richiesti».
«Io almeno posso dire di essere una persona libera e di comportarmi come tale».
«Come se il non esserlo dipendesse da me, giusto? Nessuno è libero come crede, Tess. Prima lo capirai e prima vedrai la realtà per quella che è».
La rossa scosse energicamente la testa «Stai navigando in un mare di scuse».
Savannah guardò il cielo «Spera sia così. O aspetta il tuo turno per vedere dove si trova la verità».
Esasperata, Theresa si avvicinò a lei con grandi falcate e l’avrebbe afferrata per le spalle se Caleb non l’avesse preceduta. Lui mosse velocemente una mano per afferrare un falcetto dalla cintura della sua compagna e fendette l’aria davanti a sè. Tess lo schivò, bloccandogli il braccio con il suo. Piegandogli il polso, gli strappò via l’arma, anche se non sembrava che il ragazzo volesse fare resistenza, e gliela avvicinò alla guancia. La lama gli graffiò appena uno zigomo, ma lui non battè ciglio.
«Tess, smettila!» le intimò Daia, avvicinandosi.
La rossa fece un passo indietro e lasciò cadere il falcetto a terra. «Già. Lo sospettavo» disse guardandolo.
Caleb accennò un sorriso, sfiorando con la punta delle dita il taglio. «Questo lascerà il segno» sospirò.
Daia lo osservò interdetta «Non stai sanguinando».
«Io? Ovviamente no. Ma credo lo farei se avessi sangue in corpo» spiegò, ma non sembrava arrabbiato.
«Sei una bambola? Chi è il tuo padrone?» lo guardò meglio. Tutto in lui sembrava normale.
«Non ho un padrone, ora» rispose solo «Ma ne ho avuti molti».
Theresa arricciò il naso «Mi ci è voluto qualche minuto per riconoscere la tua livrea. È da un po’ di tempo che non vi si vede in giro».
Lui si grattò la testa «In verità, da prima che tu nascessi».
«In qualche libro si parla di voi, nelle note a fondo pagina» alzò le spalle «È proprio vero che siete carenti negli scontri ravvicinati».
«Ci limitiamo ad avere una buona mira» rise.
Daia fece scivolare lo sguardo da uno all’altra. «Credo di non seguirvi».
Savannah si scostò i capelli dalla fronte. «Caleb è un gargoyle» disse «Un soldato del corpo dei ballistarii addestrato per difendere il castello».
«Non vi ho mai visti. Eppure ho abitato a palazzo per dieci anni» guardò Tess di sottecchi «Tu come facevi a saperlo?».
«Hey» disse risentita «Non sei la sola ad aver avuto un precettore, principessina. Avresti dovuto prestare maggior attenzione alle lezioni di strategia, piuttosto che a quelle di galateo».
Caleb si schiarì la voce «In verità la tua ignoranza è giustificata. Siamo chiamati ad intervenire in caso di sede vacante e non è un evento che per vostra fortuna si verifica così spesso. La capitale non è sicura, senza il suo Maestro».
«E a chi rispondi adesso?» chiese Daianara.
«Finchè rimango in servizio, a nessuno. Seguo i precetti che mi sono stati impartiti quando mi hanno creato».
Tess sorrise «Preparati ad avere un nuovo padrone, allora. Potrei anche diventare il nuovo Artigiano!».
«No, non credo. Lasci il fianco troppo scoperto. Oh, ma non dare retta a me. “Non sono bravo negli scontri ravvicinati”».
«Ti tengo d’occhio» lo avvertì la rossa, prima di allontanarsi «Sarei proprio curiosa di scoprire se i gargoyle si meritano davvero la loro nomea».
Due giorni passarono così, senza che succedesse nulla che valesse la pena ricordare, senza che succedesse nulla di cui la gente potesse sparlare.
 
♦♦♦
 
Il campo di grano in cui si trovava ricopriva le colline come una calda coperta dorata e nulla si sarebbe potuto vedere, anche sforzando la vista, oltre quelle spighe, che le sembravano così nostalgicamente familiari. Il sole era calato velocemente all’orizzonte, come se non aspettasse altro che cedere il posto alla luna, ma nonostante la sua fretta il cielo era ancora tinteggiato di calde sfumature rosse. E rosse improvvisamente divennero anche le coltivazioni, o forse era la sua mano che toccando il grano lo colorava di sangue, e i chicchi anneriti dal marciume cadevano a terra e tutto intorno a lei diventava spoglio e sterile. Nell’aria prima salubre si sentiva ora il profumo acre della morte, che per lei sapeva di sangue, sudore, terra e carne. Una voce di donna urlava “Zelda, Zelda no!”, ma quando si voltò incrociò solo gli occhi di una bambina sorridente. La indicava saltellando sui suoi piccoli piedi fasciati da scarpette blu e chiamava “Papà, papà”, ma non c’era nessuno accanto a lei. “Papà, papà guarda! Si muove, si muove! È così bella…”. Le mattonelle del pavimento erano fredde e bagnate e nelle segrete rimbombavano voci assordanti. “Te lo prometto: mai. Ti prego, fidati di me: mai!”. “Non crederle, non crederle!”. “Sbarazzatevene”. “No, non puoi!”. “Perché hai dovuto tradirmi?!”, “Sei così bella Tess…te l’ho mai detto?”. Gocce di umidità cadevano dal soffitto e si perdevano nell’aria insalubre. La bambina le si parò davanti, ma lei, accasciata su sé stessa, non riuscì a vedere altro che le sue scarpette blu. «Nessuno ti farà male» sussurrò la piccola, buttandole le braccia al collo «Ci penso io a proteggerti».  
«Proteggermi da cosa?».
«Da me».
Theresa si svegliò di soprassalto, la pelle sudata, il corpo tremante, il fiato mozzato e i polmoni infiammati per il bisogno d’aria. Il cuore sembrava avesse deciso di esploderle nel petto, squarciandole la cassa toracica, e anche se tutto nella sua camera era avvolto dal silenzio placido della notte, nelle sue orecchie rimbombavano ancora il suono sordo dei battiti accelerati e l’eco delle voci che aveva udito, ma non riconosciuto. Gli occhi erano pieni di immagini che non riusciva ad identificare, la maggior parte delle quali stava scomparendo, lasciandole una mente confusa e annebbiata. Si portò una mano alla fronte e la sentì bollente.
«Daia…» sussurrò solo, buttando all’aria le coperte e sgusciando fuori dall’enorme letto. Posò un piede a terra e con difficoltà riuscì a tenersi in equilibrio, ma raccolse ugualmente la lucidità che le era rimasta per ricordarsi di muovere con ordine un piede davanti all’altro per raggiungere la porta della sua camera. Si appoggiò al piccolo comodino, e al tavolo e allo scrittorio e sbattè contro la parete, contro l’angolo, contro lo stipite della porta, ma non se ne curò. In delirio, come se qualcosa la inseguisse più velocemente di quanto lei riuscisse a correre, cercò la maniglia con impacciata fretta e la abbassò, aprendo la porta e richiudendosela alle spalle il più in fretta possibile, girando freneticamente la chiave nella toppa. Corse, o provò a farlo, poggiando una mano alla parete del corridoio per ritrovare l’equilibrio e arrivata davanti alla stanza accanto alla sua sperò con tutte le sue forze che non fosse chiusa a chiave. Spalancò la porta con così tanta cieca forza che questa sbattè contro il muro con un sonoro tonfo e dopo si richiuse cigolando.
Daianara, colta di sorpresa e piena di spavento, si alzò a sedere stringendosi le coperte al petto, ma prima che potesse muoversi per scendere dal letto, Theresa le corse incontro, ancora insicura sulle gambe, ripetendo il suo nome come se fosse un’ancora di salvezza.
«Tess!» la riprese duramente ma con la voce ancora incerta e il cuore in gola «Tess, accidenti, ti sembrano scherzi da fare in piena notte? Mi hai fatta morire di paura!».
La ragazza quasi non le saltò addosso nel tentativo di raggiungerla e una volta salita sul letto le si strinse contro, nascondendo il viso sul suo grembo per non vedere più nient’altro e stringendole la vita con così tanta foga che Daia dovette ripeterle più volte di allentare la presa.
«Mi fai male! Tess!» disse a voce alta, ma quando si accorse che tremava fra le sue braccia si spaventò davvero «Cos’è successo? Tess! Stai bene? Stai bene?» ripetè con maggior enfasi quando non ottenne risposta. Le posò una mano sui capelli e cercò di alzarle il viso per guardarla. «Stai tremando come una foglia…Sei bollente!» esclamò sentendole la fronte «Hai la febbre alta. Tess aspetta, vado a chiamare qualcuno» provò a liberarsi dalla stretta ma la rossa glielo impedì.
«No! Non andartene!».
«Tess, non stai bene!».
L’altra aumentò la stretta «Per favore, non lasciarmi qui. Non lasciarmi da sola».
«Però…» provò ancora a ribattere Daia, ma sentendola così impaurita lasciò cadere qualsiasi obiezione. La coprì con la trapunta e si chinò su di lei con fare protettivo, cingendole le spalle con un braccio e carezzandole i capelli. La tenne stretta a sé, immobile in quella posizione, per un tempo che le parve infinito, perché appena accennava un movimento il corpo di Theresa si irrigidiva e ricominciava a tremare.
Daia avvicinò il viso a quello dell’amica e le chiese a bassa voce: «Tess che cosa è successo? Hai avuto degli incubi?».
Tess accennò un assenso e per Daianara fu sufficiente.
«È per questo posto?» si guardò intorno «Sembra prosciughi la felicità delle persone lasciando solo rabbia e dubbi» pensò ai suoi genitori e a quello che aveva sentito dire a Savannah. Le baciò una tempia «Tess, non ti fa bene stare qui. Non ti ha mai fatto bene stare qui. Ti prego, torniamo a casa nostra».
La rossa alzò il viso per incrociare i suoi occhi e li vide scuri di angoscia. «Si…» rispose, ma con poca convinzione «Si…andremo via presto». Riluttante, si ritirò dall’abbraccio e le si sdraiò accanto. Daia si sforzò di fingere un sorriso rassicurante.
«Posso rimanere qui per un altro po’?».
«Puoi rimanere qui per sempre».
Tess si strofinò gli occhi «Per sempre sembra un tempo davvero troppo lungo per me. Qualche minuto andrà bene».
Il viso di Daia si adombrò e la bocca si arricciò in un broncio. «Ma stai male. Devi rimanere qui. Con me. Per sempre».
«No, non devo».
«Sì. Devi».
Le voci echeggiarono nella sua testa: Non crederle, non crederle!
Tess spalancò gli occhi e scattò a sedere «Daia ma…».
«Non puoi andare via!» la interruppe la ragazza con foga, salendo a cavalcioni su di lei, afferrandole la gola e chiudendola nella stretta delle sue mani.
Theresa le serrò i polsi e provò ad allontanarla «Che cosa stai facendo?!» disse con voce soffocata. Più si contorceva e più il respiro le veniva meno.
La scosse, affondandole la testa nei cuscini ricamati che riempivano il letto. «Non puoi andare via!» ripetè.
«Daia lasciami!». Tess cercò di spingerla via, graffiandole la faccia, tappandole bocca e naso. Quando le girò il mento, scoprendo il collo sottile, vide che lunghi e violacei segni le solcavano la gola. Confusa, provò a colpirle il viso, il petto, la schiena con i pugni, a disarcionarla con ginocchiate e calci, ma per quanto si muovesse, Daia sembrava inamovibile; negli occhi le brillava una luce folle, minacciosa perché imprevedibile, che la terrorizzava ancora di più perché le era completamente estranea. Spinta da un bisogno estremo d’aria, Tess reagì afferrandole il collo e stringendo di più, sempre di più, arrivando a sperare di soffocarla. Una parte remota della sua coscienza si compiacque nel vedere che i lividi che Daia portava sulla gola combaciavano perfettamente con la dimensione delle sue dita.
«Ho ancora i segni…» le disse Daianara, una sfumatura sinistra nella voce ora rotta dal pianto «Non smettono di fare male».
«Non respiro! Fermati!».
In risposta la ragazza aumentò la stretta «Tu non ti sei fermata!».
«Cosa…?».
«Hai già dimenticato? Davvero?» socchiuse le labbra in una smorfia d’orrore «Hai già dimenticato quando hai provato ad uccidermi?».
Con il rumore dei pesanti colpi sferrati alla porta, l’immagine sbiadì davanti agli occhi di Tess, come la nebbia che si dirama allo spuntare del giorno, e lei si trovò nuovamente a fissare il soffitto, circondata dai pochi mobili della sua camera. Sebbene avesse intuito di essere riemersa dal suo incubo, tutto vicino a lei appariva confusamente distorto.
Con la sua stazza da matrona del sud, Vidia aiutò Daia a spalancare la porta della stanza e con il suo piccolo doppiere dorato provò a rischiarare l’ambiente da cui provenivano tutte quelle urla sinistre.
Daia si catapultò nella stanza nonostante i tentativi della governante di trattenerla.
«Tess…» chiamò, facendo correre lo sguardo per tutto l’ambiente, strizzando gli occhi per riuscire a vedere oltre quel buio. Vidia alzò il candelabro e le fiammelle delle candele gettarono la loro luce sul materasso sfatto e sui drappi del baldacchino tirati. Una figura si appoggiava stancamente alle colonne del letto e i suoi profondi ansimi facevano temere per il peggio.
«Tess!» Daia si portò istintivamente una mano alla bocca prima di correrle incontro. La prese fra le braccia e, appena l’ebbe toccata, l’altra le si accasciò addosso, costringendola a piantare bene i piedi per non cadere. «Che cos’hai? Tess?». La ragazza si limitò a respirare affannosamente contro la sua spalla.
«Tess!» atterrita, Daia la chiamò ancora, senza ottenere risposta. Si voltò quel tanto che bastava per vedere Vidia dietro di lei appoggiarsi al muro. «Corri a chiamare qualcuno!» le ordinò e quando vide che la donna, indecisa, rimaneva immobile, urlò: «Vai!». Nella camera tornò presto il buio e fuori dalla porta i passetti veloci e goffi della governante, sul pavimento di marmo, riecheggiarono per il corridoio.
Daia continuò a reggere il corpo inerte dell’amica, anche se le gambe e le braccia avevano iniziato a tremarle, ma non avrebbe saputo dire se per lo sforzo o per la paura. «Che cosa è successo, che cosa è successo?» ripetè e pensò anche che Tess stesse ancora dormendo, colta da una qualche forma di sonnambulismo, fino a quando non le parlò.
«Chi sei tu?» sussurrò al suo orecchio.
Daia corrugò la fronte. «Cosa? Come? Sono io. Tess, sono io» le cercò il viso con una mano «Sono Daia».
La ragazza stese le labbra in un ghigno e disse boccheggiando «No. Non è vero».
«…ma che cosa stai dicendo?» istintivamente si ritrasse dalla stretta, indietreggiando di qualche passo. «Theresa, se questo è uno scherzo non è divertente!».
«Tu non sei reale» rise «È tutto qui» si puntò un dito tremante alla tempia «Nella mia testa. Sì, sì». Si guardò attorno con lo stesso sguardo di un animale braccato prima di avvicinarsi al grosso vaso di vetro colorato al centro del tavolo.
«Che cosa stai facendo?!» gridò Daia quando la vide prenderlo tra le mani e scaraventarlo a terra con tutte le sue forze. I pezzi di vetro si sparpagliarono, taglienti, sulle piastrelle.
«È un sogno…un sogno, tu no, non esisti, devi lasciarmi stare, lasciarmi stare…» bisbigliò frasi senza senso accucciandosi sul pavimento e tastando i cocci rotti con le mani, graffiandosi e tagliandosi.
«Tess, no!» la fermò Daia, sorprendendola alle spalle e provando a bloccarle le braccia lungo i fianchi.
La rossa afferrò una scheggia e si contorse furiosamente per liberarsi «No! No, vattene! Ti uccido, ti uccido!».
«Smettila! Tess, stai ferma! Torna in te!».
«Non sei reale! Stammi lontana!» si divincolò dalla presa in preda alla pazzia.
Daia fece appena in tempo ad arretrare che già Theresa le agitava contro la sua arma, inveendo e sputando parole che non riusciva a comprendere. Cercò di strisciare il più lontano possibile da lei, ma i pezzi di vetro le bucavano le mani. «Tess basta! Basta!».
La rossa le saltò addosso, togliendole il respiro con un pugno alla bocca dello stomaco, mentre le ginocchia le bloccavano le gambe.
Daia boccheggiò senza fiato per qualche secondo e Tess alzò il coccio di vetro per conficcarglielo in gola. Daia le bloccò i polsi a mezz’aria e anche se l’altra era più forte di lei, riuscì comunque ad impedirle di tranciarle il collo. La rossa calò l’arma, cercando di avere la meglio sulla resistenza di Daianara, ma quando quest’ultima le piegò le mani in una posa innaturale, fu costretta a lasciar cadere il pezzo di vetro con un ringhio che aveva qualcosa di selvaggio. Subito Tess si piegò per riprenderlo, ma la ragazza ne approfittò per assestarle una ginocchiata alla pancia. Emise un verso di dolore, ma non si mosse dalla sua posizione di dominio e, prendendo Daia per i capelli, le sbattè violentemente la testa contro il pavimento.
A Daia si annebbiò la vista e tutti i contorni si fecero confusi. Si sforzò di non lasciarsi andare al torpore che la stava assalendo quando l’altra la sollevò per il colletto della vestaglia e aspettò di essere ancora una volta percossa, ma questo non avvenne. Come da una grande distanza udì gli strilli angosciati di Theresa e una voce bassa e imperiosa che intimava: «Adesso basta! Calmati! Calmati ho detto!».
«No! No, lasciami, lasciami! Andate via, andate tutti via!».
«Non costringermi a farti male, ragazza!».
«No, no! Non mi ingannerete! Uscite dalla mia testa!».
Daia fremette e provò ad alzarsi, ma sembrava che il suo corpo non volesse risponderle.
«Corri a cercare Howel! Oh, piccola mia…». Qualcuno la tirò su e le sembrò che ci fosse più luce.
Aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscirono altro che rantolii.
«Sssh…» le sussurrò una voce calda.
Lentamente i contorni si fecero più nitidi e i suoni più vicini, anche se un dolore lancinante le martellava in testa. Isolde, sopra di lei, le teneva il capo in grembo.
«Non ti muovere, tesoro».
Si guardò intorno. Botte di ferro torreggiava al centro della stanza, Tess, inginocchiata per terra con le mani intrappolate nella stretta del Ministro di Ennon, la guardava con aria minacciosa, ma l’insania che aveva visto nei suoi occhi sembrava la stesse abbandonando, lasciando spazio a qualcosa di più lacerante della pazzia: il senso di colpa.
Daia si aggrappò alle spalle della madre per tirarsi su. Tutto intorno a lei iniziò a girare convulsamente.
«Che qualcuno mi dica immediatamente cosa diavolo è successo!» proruppe Zane e tutti i presenti sussultarono.
Isolde aiutò Daia a trascinarsi fino a Theresa, mentre una balbettante Vidia raccontava, in modo disordinato, quello che aveva visto prima di cercare aiuto.
«Tess…» sussurrò la ragazza, allungando le dita verso il suo viso, ma fermandosi a metà strada, senza avere il coraggio di toccarla.
La rossa si contorse, ma Zane non la lasciò libera «Ferma dove sei! E anche tu, Isolde, non ti avvicinare!».
Sua moglie scosse la testa «No. È anche lei una mia bambina!» disse in un tono che non ammetteva repliche e il Ministro di Ennon, seppur esasperato, dovette darle ascolto.
Isolde si piegò sulla ragazza che, tremando, si lasciò stringere in silenzio. Le carezzò i capelli con fare materno, sussurrandole nell’orecchio, ma non sembrava la stesse ascoltando.
Con riluttanza, Zane le lasciò liberi i polsi, ma rimase a fissarla, il corpo teso per qualsiasi intervento.
Quando Tess allungò lentamente una mano, nel tentativo di sfiorare la sua, Daia la ritrasse impulsivamente, ma quando vide l’espressione angosciata sul suo volto e le lacrime affiorare agli angoli dei suoi occhi, si protese per abbracciarla e scoppiò in pesanti singhiozzi che temette potessero spezzarla.
«Ti ho fatto male, ti ho fatto male…» disse Tess e non cessò di ripeterlo, la fronte appoggiata alla sua spalla. «Non volevo, non volevo…».
«Va tutto bene, tutto bene» le mentì Daia e non sapeva se con quella bugia volesse rassicurare anche sé stessa.
«No, no…» biascicò Tess e d’improvviso si staccò da lei, esplorandole il collo con le dita «Dove, dove…? Dove sono?».
«Tess, ti prego basta…».
«Li ho visti, erano qui, li ho visti!» tastò ancora convulsamente.
«Che cosa?».
«I lividi…i lividi…te li ho fatti io, te li ho fatti io…!».
Lei si limitò ad abbassare lo sguardo e scuotere stancamente la testa «Quali lividi?».
«Io…io…è stata colpa mia? Sono stata io, io lo so, me l’hai detto!» iniziò ad agitarsi.
«Io non so di cosa tu stia parlando…».
«Prima, prima. Me li hai fatti vedere prima, eravamo sul letto e le mie mani…le mie mani ti hanno…» le si incrinò la voce.
«No, no. Tess…Tess guardami» posò la fronte sulla sua.
«No, no!».
«Ssh…calmati. Calmati» disse Isolde, accarezzandole la schiena.
Daia la strinse fino a quando non sentì il respiro farsi più regolare «È tutto passato. È tutto passato. Ti devo portare via da questo posto infernale. Ci penso io a proteggerti. Ricordi? Ci penso io a proteggerti».
Se fosse stata abbastanza lucida, Theresa le avrebbe domandato: “Proteggermi da cosa?”.
   
 
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