Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    01/06/2017    1 recensioni
Il messaggio di Moriarty ha sortito l’effetto desiderato: trattenere Sherlock a Londra. Ma il consulente investigativo sa bene che Moriarty non può essere l’autore di quel messaggio dato che si è ucciso sul tetto del Bart’s tre anni prima. Eppure qualcuno aveva degli interessi nel trarlo fuori da quella missione suicida. Ma chi?
Le indagini riprenderanno e Sherlock si ritroverà a dover affrontare un nuovo nemico, forse ancora più pericoloso di Moriarty che non solo sembra conoscerlo così bene da sapere esattamente dove andare a colpire, ma che è pronto a tutto per ottenere quello che vuole. E Sherlock, ancora una volta, dovrà fare i conti con i suoi demoni e con il suo cuore, sperando di riuscire ad avere la meglio.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For darkness shows the stars

14
They all fall down
 
 
 Quando John venne dimesso dall’ospedale, il consulente investigativo gli propose di tornare a vivere con lui a Baker Street, deciso ad aiutarlo a superare quel momento. Dopo tutto ciò che aveva passato, John avrebbe avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile, sia per se stesso che per sua figlia e Holmes voleva essere lì per loro, per aiutarli a superare quel momento.
 Watson accettò quella proposta di buon grado, sperando che tornare alla sua vita e a Sherlock potesse aiutarlo a riprendersi dopo quella terribile esperienza. Perciò dopo aver fatto le valigie e aver trasferito tutti gli oggetti di Gemma al 221B, tornò nell’unico posto che avesse mai considerato casa, sperando di poter finalmente trovare un po’ di pace dopo mesi di tormento.
 
 A una settimana dal suo ritorno a Baker Street, gli incubi cominciarono a tormentarlo. E a questi – con cui ormai il medico aveva imparato a convivere dopo anni passati ad essere tormentato dalla guerra – si erano aggiunte anche le allucinazioni e gli attacchi di panico, che lo perseguitavano giorno e notte, colpendolo senza preavviso.
 Inizialmente John aveva tentato di non dare troppo peso a ciò che stava succedendo, per non causare troppe preoccupazioni a Sherlock, Gemma e alla signora Hudson, ma gli attacchi di panico e le allucinazioni si erano fatte sempre più insistenti, tanto che anche uscire di casa era diventato difficile. John non riusciva più a nasconderlo, e l’idea di dover conviverci ogni giorno, senza eccezioni, rendeva ancora più complicato superare quel momento.
 La paura e il tormento causati dagli incubi erano diventati tanto insopportabili che il medico aveva smesso di dormire, rimanendo in piedi per tutta la notte, piuttosto che dover convivere e affrontare gli incubi, poi aveva smesso di mangiare, stanco di vomitare tutto subito dopo a causa di qualche allucinazione o attacco di panico, e infine di uscire di casa, troppo spaventato all’idea di dover entrare in contatto con altre persone.
 Sherlock tentava di aiutarlo in ogni modo. Lo rassicurava dopo gli incubi suonando per lui fino a che non si calmava e tornava a dormire, lo aiutava a superare allucinazioni e attacchi di panico riportandolo alla realtà quando si rendeva conto che il medico sembrava spaventato o lontano.
 Al consulente investigativo sembrava di essere sempre più lontano dall’uomo che amava. Aveva l’impressione che qualsiasi cosa facesse non fosse mai abbastanza e che non solo non servisse a nulla, ma che non facesse che peggiorare ancora di più la situazione.
 Ma nonostante ciò, il consulente investigativo non si arrese.
  
 Sherlock si avviò verso la stanza di John con Gemma fra le braccia. Dopo averla cullata a lungo, in piedi di fronte alla finestra canticchiando il motivetto di una nuova melodia che aveva scritto, finalmente la bambina si era addormentata fra le sue braccia. Così il consulente investigativo aveva avvertito a John che l’avrebbe messa a letto e si era avviato verso la stanza del medico, dove era stata posizionata la culla della piccola.
 Arrivato nella stanza di John, l’uomo adagiò la bambina nella culla, la coprì con la copertina e osservò per un momento il suo visino rilassato e roseo sotto la pallida luce proveniente dal corridoio.
 Sollevò una mano e le accarezzò una guancia.
 Era così piccola.
 Così incredibilmente simile a John.
 Così bella e perfetta…
 Un rumore improvviso lo fece trasalire.
 Sherlock si voltò di scatto verso la porta e aggrottò le sopracciglia, confuso, credendo di esserselo solo immaginato. Tuttavia, quando sentì dei gemiti sommessi provenire dal piano inferiore, non perse tempo. Uscì dalla stanza, socchiudendo la porta e scese le scale, diretto verso il salotto.
 Arrivato sulla soglia si bloccò.
 John era inginocchiato a terra di fronte al camino, il capo stretto fra le mani, il corpo scosso da potenti singhiozzi che stavano rimbombando tra le pareti della stanza vuota, mescolandosi allo scoppiettio della legna nel camino.
 Sherlock sospirò e si avvicinò all’amico. Si inginocchiò al suo fianco, senza tuttavia toccarlo, per non allarmarlo o spaventarlo.
 «John?» lo chiamò sommessamente.
 Il medico scosse il capo, gemendo. «Sherlock… aiutami…» singhiozzò. «Tirami fuori… portami via, ti prego… portami via con te… portami a casa… voglio tornare a casa…»
 «Sei al sicuro, John. Sei già a casa.» assicurò, cercando il suo sguardo. «Moran è morto, non potrà più farti del male. È tutto finito. Stai tranquillo.» assicurò. «Siamo a Baker Street, al sicuro. Ci siamo io, te, Gemma e la signora Hudson. Nessun altro.» spiegò, parlando lentamente. «Andrà tutto bene, da adesso in poi. Va tutto bene.»
 A quelle parole, pian piano, i singhiozzi si calmarono, lasciando spazio a leggeri ansiti. John allontanò le mani dal viso e dopo qualche secondo sollevò lo sguardo sul viso dell’amico, fermo a pochi centimetri dal suo. I suoi occhi si spalancarono, realizzando di trovarsi al 221B e non nella villa di Moran o nella sua vecchia casa.
 «Sherlock» ansimò, mentre altre lacrime riprendevano a rigargli le guance.
 «Sono qui.» disse il consulente investigativo. «Va tutto bene.»
 Il medico si sporse verso di lui, circondandogli il collo con le braccia e affondando il viso nella sua spalla. «Mi dispiace…» mormorò. «Mi dispiace tanto…»
 «Shh…» disse Sherlock, stringendolo a sé e accarezzandogli teneramente i capelli. «Non devi scusarti. Non hai fatto niente di male.»
 «Sì, invece… guardami…» pianse, allontanandosi di scatto. «Non sono più io…»
 «Non è vero.»
 «Come fai a negarlo?» chiese. «Guardami! Sono settimane che mi sveglio gridando nel bel mezzo della notte spaventando tutti, ho flashback di continuo, e queste maledette lacrime non vogliono smettere!»
 Sherlock gli accarezzò il viso. «John, è perfettamente normale sentirsi così, all’inizio.» assicurò. «Devi darti del tempo e vedrai che tutto tornerà alla normalità. Non puoi pretendere che in qualche settimana tutto torni come prima. Ciò che hai passato ti ha segnato e rimarrà con te per tutta la vita. Imparare a conviverci non sarà semplice.»
 «Io non ce la faccio più.»
 «Lo capisco.» affermò il consulente investigativo. «Capisco quanto sia dura e quanto faccia male, credimi.» aggiunse, poi sospirò. «E so anche che riuscire a convivere con tutto questo con una figlia di cui occuparti non è semplice. Ma io sono qui per aiutarti. Sono qui per te.» concluse. «Sarò sempre qui per te. Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno.»
 «Lo so.» confermò John, asciugandosi il viso con le mani. «E sai quanto per me sia importante. Non potrò mai ringraziarti abbastanza per ciò che stai facendo per me.» spiegò. «È solo che… a volte mi sembra di non potercela fare.»
 «Tu puoi fare tutto.» replicò Sherlock con un sorriso, spazzando via una lacrima solitaria che aveva rigato la guancia dell’amico. «Sei John Watson.»
 A quell’affermazione, John non riuscì a trattenere una risata leggera. I loro occhi si incontrarono, agganciandosi per lunghi istanti. Le mani del medico salirono al viso dell’amico e l’accarezzarono.
 «Come farei senza di te?» sussurrò, percorrendo la line del suo viso con il pollice.
 «Proprio non lo so.» scherzò Sherlock.
 E John rise, stringendosi nuovamente contro l’amico, avendo ormai dimenticato ciò che era appena successo.
 
 Sherlock emerse bruscamente dal suo palazzo mentale, sentendo una mano poggiarsi sulla sua spalla.
 La delicatezza con cui l’aveva fatto, la forma delle dita e il suo peso, gli permisero di identificarla come quella di John ancor prima di aprire gli occhi. Ma quando lo fece, vedendo l’espressione preoccupata dell’amico, sentì il suo cuore accelerare.
 «Che succede?» chiese immediatamente, scattando in piedi e prendendo le sue mani fra le proprie. «Stai male?»
 John scosse il capo e senza parlare si voltò verso la porta.
 Sherlock seguì il suo sguardo e incontrò il viso famigliare di Anthea. «Cosa succede?» domandò, aggrottando le sopracciglia. «È Mycroft?»
 «Sì, signore.» confermò lei.
 «Cosa gli è successo?»
 «Questa mattina è uscito dal Diogene’s Club senza lasciar detto dove sarebbe andato e non sono ancora riuscita a rintracciarlo.» spiegò. «Ho controllato alla villa e a Buckingham Palace, ma nessuno sembra averlo visto oggi pomeriggio.» poi gli porse l’ombrello del politico. «Ha lasciato questo.»
 John lo prese, ringraziandola con un cenno del capo.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo, cominciando a ponderare tutte le possibilità.
 Mycroft scomparso.
 Nessun avvertimento.
 Nessun messaggio.
 Nessuno lo aveva visto.
 Era tutto molto strano considerato che non si sarebbe mai allontanato dalla città senza prima aver avvertito Anthea o qualcuno dei suoi collaboratori. Quindi voleva dire che non aveva pianificato di andarsene, ma lo aveva deciso improvvisamente.
 Ma per fare cosa? Cosa poteva essere così importante da spingerlo ad abbandonare ogni cosa per scomparire? Qualcosa riguardante il suo lavoro o la sua famiglia? Ma se fosse stato così, glielo avrebbe sicuramente fatto sapere. Quindi cosa poteva…?
 Il corso dei suoi pensieri venne interrotto dalla voce di John.
 «E se fosse successo qualcosa?» domandò in un sussurro, cercando il suo sguardo. «Non è da lui sparire in questo modo senza prima avvertire.»
 Sherlock sospirò, poi risollevò lo sguardo sul volto di Anthea. «Ce ne occupiamo noi.» affermò. «Puoi andare.»
 «Ma signore…» protestò lei.
 «Ho detto che puoi andare.» ripeté con più fermezza. «So esattamente dov’è mio fratello. Non ti ha avvertita perché ha ritenuto che non fosse opportuno farlo, considerato che era una questione privata. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Mi assicurerò personalmente che domani mattina torni al lavoro.»
 Anthea sembrò esitare ancora per qualche secondo, poi annuì e senza aggiungere altro lasciò l’appartamento, scendendo silenziosamente le scale.
 «Davvero sai dove si trova?» chiese John, dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi.
 «No. Ma posso immaginarlo.» concluse, avvicinandosi all’appendiabiti per prendere sciarpa e cappotto.
 Watson li seguì, le sopracciglia aggrottate. «E pensi di rendermi partecipe?»
 «È andato da Lestrade.»
 Il medico sembrò stupito. «Come fai ad esserne certo?»
 «Non ne sono sicuro, ma è l’ipotesi più plausibile.» spiegò. «È sparito questa mattina senza avvertire nessuno sul dove si sarebbe recato e per quanto sarebbe rimasto fuori, quindi voleva essere certo che nessuno potesse seguirlo o trovarlo e questo perché aveva bisogno di intimità e solitudine. Non è a Buckingham Palace, quindi non è un questione politica, né a casa sua, quindi non sta male, e nemmeno è andato fuori città, perché in quel caso si sarebbe premurato di farlo sapere ad Anthea.» dedusse. «Considerato che l’unico motivo per spingerlo a scomparire per un’intera giornata deve essere qualcosa di estremamente importante, ma che in questo caso non si tratta di una questione politica, resta da pensare che sia Lestrade.»
 John lo stava osservando a bocca aperta. «Straordinario.» concluse.
 Sherlock accennò un sorriso. «Vado a cercarlo e lo riporto qui prima che si prenda una polmonite.» concluse, dato che stava piovendo dall’ora di pranzo e che erano quasi le cinque e soprattutto Mycroft era uscito senza ombrello.
 John annuì e gli porse l’ombrello che ancora stava tenendo fra le mani. «Ti servirà.»
 «Grazie» disse Sherlock, annuendo. «Torno presto.»
 Il medico annuì e lo osservò scendere le scale.
 
 Mycroft rabbrividì, sentendo i vestiti zuppi di pioggia incollarsi alla sua pelle.
 Era immobile di fronte alla tomba di Lestrade da così tanto tempo da averne perso la cognizione. Potevano essere passate ore, o minuti. Ma poco importava, perché anche se fossero passati anni, il fatto che Greg non fosse più lì con lui non sarebbe cambiato.
 Da quando era arrivato, la pioggia aveva cominciato a cadere più fitta, rendendo indefinita la fotografia dell’Ispettore, in cui stava sorridendo come solo lui sapeva fare, illuminando ogni cosa.
 Le lettere del suo nome, a caratteri semplici e argentei, spiccavano sulla pietra marmorea e sembravano riflettere la luce cupa e le nubi scure di quel pomeriggio uggioso.
 Un lampo squarciò il cielo e subito dopo un potentissimo tuono lacerò l’aria, sovrastando lo scroscio insistente della pioggia.
 A parte quella cacofonia di suoni confusi, Mycroft non sentiva nulla. Era come se la pioggia, cadendo su di lui, avesse creato uno scudo così compatto intorno al suo corpo da riuscire a isolarlo da tutto il resto.
 L’unica cosa che riusciva a percepire in quell’innaturale isolamento era il dolore.
 Un dolore profondo e terribile che neanche la pioggia sarebbe riuscita a scacciare.
 Improvvisamente, le gocce di pioggia smisero di colpirlo. Mycroft tornò improvvisamente alla realtà e si rese conto che un’ombra scura era calata su di lui, disegnando una sagoma circolare sul terreno bagnato.
 Il politico si voltò e incrociò due occhi azzurri molto famigliari.
 Sherlock gli restituì lo sguardo. «Avevi dimenticato l’ombrello.» disse.
 Il maggiore lo osservò per un lungo istante, poi annuì e chiuse le dita intorno al manico dell’ombrello. «Come mi hai trovato?» chiese poi, flebilmente, incrociando nuovamente lo sguardo di suo fratello.
 «Ti conosco.» affermò il minore. Poi si voltò verso la lapide di Lestrade e sospirò, osservando per un lungo istante il nome dell’amico inciso sul marmo, e la fotografia in cui l’Ispettore stava sorridendo dolcemente, come soltanto lui sapeva fare.
 Poi tornò ad osservare suo fratello, il viso e gli abiti zuppi di pioggia, il volto pallido incorniciato dalla barba rossiccia che non faceva altro che accentuare il suo eccessivo pallore.
 Mycroft abbassò lo sguardo e sperò che suo fratello non si fosse accorto delle lacrime che da qualche ora gli stavano rigando le guance, mescolandosi alle gocce di quella pioggia che sembrava non voler finire.
 «Era un brav’uomo. Una delle persone migliori che avessi mai incontrato.» disse il consulente investigativo, rompendo il silenzio che si era creato fra loro. Sapeva che probabilmente suo fratello desiderava stare solo, ma si sentiva in dovere di dire qualcosa. Sospirò. «È stato il mio primo amico qui a Londra. È stato il mio unico amico per così tanto tempo che…» fece una pausa. «È stato grazie a lui che non mi sono sentito solo. Greg è stato l’unico a considerarmi normale anche se tutti gli altri credevano fossi strambo.»
 «Lui era speciale.» aggiunse Mycroft con voce tremante, annuendo. Poi accennò un sorriso. «Era buono. Gentile. E dolce.» poi si rabbuiò nuovamente, e il suo viso venne attraversato da un smorfia di dolore. Espirò, trattenendo a stento un singhiozzo. «Lo amavo così tanto… e l’ho perso per sempre.» abbassò lo sguardo e le lacrime ripresero a rigargli le guance.
 Sherlock fece scivolare la mano in quella del fratello, stringendola dolcemente.
 «Non credevo che avrei mai potuto provare qualcosa del genere per qualcuno. Non credevo di esserne in grado. E quando finalmente avevo trovato Greg, Moran me l’ha portato via…» il maggiore scosse il capo e il suo corpo tremò, scosso da un violento singhiozzo.
 «Mi dispiace tanto.» disse soltanto Sherlock, il cuore in frantumi di fronte al dolore che stava provando suo fratello e per cui lui non poteva fare nulla. Senza aggiungere altro, lo tirò a sé e lo strinse fra le braccia, accarezzandogli teneramente il capo, sperando di alleviare almeno per un po’ il profondo dolore che lo stava affliggendo.
 
 Sherlock e Mycroft varcarono la soglia di Baker Street un’ora dopo, tenendosi per mano, entrambi zuppi a causa della pioggia.
 John era seduto sul divano, intento a leggere un libro, e non appena si accorse della presenza dei due, sollevò lo sguardo su di loro. I suoi occhi si posarono prima sul volto di Sherlock, poi su quello di Mycroft ancora pallido come un cencio.
 «Preparo un tè.» disse, senza bisogno di fare domande o attendere spiegazioni. Si mise in piedi e raggiunse la cucina, lasciando i due fratelli da soli, dopo aver poggiato il libro sul tavolino da caffè.
 Sherlock si voltò verso Mycroft, aumentando la presa intorno alle sue dita. «Perché non vai a farti una doccia calda?» propose. «Io vado a cercarti una camicia e dei pantaloni. Dovrei avere qualcosa nell’armadio.»
 Suo fratello era dimagrito così tanto negli ultimi tempi che non sarebbe stato un problema prestargli qualcuno dei suoi vestiti. Aveva smesso di mangiare e di dormire – il che era evidente anche per un occhio poco allenato – ma non avrebbe certo potuto continuare così. Aveva perso Greg, era comprensibile che stesse soffrendo, tuttavia trascurarsi in quel modo non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose.
 Il maggiore annuì e si avviò verso il bagno, senza proferire parola.
 Sherlock lo osservò attraversare il corridoio, attese che si fosse richiuso la porta del bagno alle spalle, poi, con un sospiro, raggiunse la cucina, dove John era intento a preparare il tè.
 Non appena il medico lo udì varcare la soglia, si voltò, incrociando il suo sguardo.
 «Stai bene?» chiese.
 Il consulente investigativo annuì, abbassando lo sguardo.
 «Sicuro?» domandò ancora. «Sei pallido.»
 «È solo…» Sherlock esitò. Non voleva caricare John di un altro peso. Non era giusto farlo. Non in quel momento. Però… non aveva nessun altro con cui parlarne e quel pensiero lo tormentava dalla morte di Lestrade, scavando sempre più a fondo nel suo cuore. «Mi manca.» ammise in un sussurro.
 Non appena pronunciò quelle parole, le lacrime traboccarono dai suoi occhi, quasi stessero attendendo quell’ammissione per poterlo fare.
 «Oggi alla sua tomba mi sono accorto quanto mi manchi.» proseguì con voce rotta. «Non lo so, forse ho sempre dato per scontata la sua presenza e adesso che non è più qui…» si interruppe scuotendo il capo. «So solo che mi manca più di quanto non riesca ad ammettere, che era mio amico, che tenevo a lui e che non gliel’ho mai detto… e adesso non potrò più farlo.» la frase si concluse mescolandosi ai singhiozzi, che scossero il corpo di Sherlock con violenza.
 John sospirò e si avvicinò. Esitò per qualche secondo, poi prese il viso dell’amico fra le mani, accarezzandogli teneramente le guance per richiamare la sua attenzione.
 «Lui lo sapeva, Sherlock.» assicurò. «Sono certo che lo sapesse.»
 Il moro scosse il capo. «Come poteva?» chiese. «Non gliel’ho mai detto…»
 «Sì, ma sei stato lì per lui quando ce n’è stato bisogno.» replicò il medico, spazzando via le lacrime che avevano rigato il viso del consulente investigativo. «Questo è l’importante.»
 «Non basta.»
 «Come fai a dirlo?»
 «Perché è morto comunque.» affermò. «E Mycroft ha perso l’unica persona che avesse mai amato. Non lo biasimerei se mi odiasse. È stata tutta colpa mia…»
 «La colpa è di Moran.» lo corresse Watson, costringendolo a guardarlo negli occhi. «Lui è stato la causa di tutto questo. Non tu, Sherlock.» sospirò. «Moran ha distrutto me, te, Mycroft e Greg. Ma non è certo colpa tua. Non puoi controllare ogni cosa. Non avresti potuto salvare Greg. Anzi, saresti potuto rimanere ucciso anche tu. Ed è stata una fortuna che non sia andata così.» concluse. «Non avrei sopportato di perderti un’altra volta. La mia vita non ha senso senza di te.»
 A quella dichiarazione, gli occhi di Sherlock si colmarono di dolcezza. «Oh, John…» mormorò, sollevando le mani per poggiarle sui fianchi dell’amico. Tuttavia, a metà strada, si bloccò, ricordando che i contatti fisici, per lui, erano ancora un problema. «Posso?» chiese con cautela.
 John annuì, accennando un sorriso.
 Sherlock poggiò delicatamente le mani sui suoi fianchi, tirandolo leggermente verso di sé, avvicinando i loro corpi. «Va bene?» domandò, volendo assicurarsi di non aver esagerato.
 Il medico annuì. «Sì. Va bene.» confermò, accarezzando la linea del viso dell’amico con il pollice. Sorrise, avvicinando il viso a quello di lui.
 Poi il bollitore prese a sbuffare sonoramente, facendoli trasalire.
 I due si voltarono di scatto, trattenendo a stento un sospiro frustrato.
 John si allontanò da Sherlock, rivolgendogli uno sguardo fugace, avvicinandosi al fornello per spegnere la fiamma sotto il bollitore.
 «Vado a controllare se Mycroft ha finito.» annunciò Sherlock, schiarendosi la voce.
 Watson annuì. «D’accordo. Io verso il tè.»
 Holmes accennò un sorriso e uscì dalla cucina.
 
 Quella notte, Sherlock chiese a Mycroft di rimanere a Baker Street.
 Non gli andava che suo fratello tornasse a casa e rimasse solo per tutta la notte. Era ancora sconvolto dopo ciò che era accaduto quel pomeriggio, perciò rimanere al 221B sarebbe stata la cosa migliore.
 Inoltre, dopo il tè e dopo aver passato qualche ora a giocare con Gemma sul tappeto dal salotto – felice di averla rivista dopo così tanto tempo – Mycroft aveva accettato l’invito di John a rimanere a cena, perciò si era decisamente fatto troppo tardi per tornare a casa.
 Dato che non c’erano letti disponibili, Sherlock e Mycroft si ritrovarono a dover condividere il materasso della stanza del consulente investigativo. Nessuno dei due si lamentò, poiché a nessuno dei due, in fondo, dispiaceva quella situazione.
 Si misero a letto, immersi nell’oscurità, avvolti dal calore delle coperte, dandosi le spalle, avvolti dal silenzio. Ma ad un tratto, la voce di Mycroft ruppe la quiete.
 «Io non ti odio.» sussurrò.
 Sherlock rimase immobile per qualche secondo, poi si voltò verso di lui. Suo fratello lo stava osservando, gli occhi puntati sul suo viso, attraverso l’oscurità. A quelle parole, il minore comprese che probabilmente suo fratello dovesse aver udito la conversazione avvenuta fra lui e Watson quel pomeriggio.
 «Ci hai ascoltati.» affermò infatti.
 «Non è stata colpa tua.» proseguì Mycroft. «È stato Moran a uccidere Greg. Non tu.»
 «Non ho fatto nulla per impedirlo.»
 Il maggiore sospirò. «Cosa avresti potuto fare?»
 «Prevederlo?» ipotizzò. «Impedirlo?»
 «Non sei onnipotente.» affermò. «Nessuno poteva prevedere una cosa del genere.»
 «Questo non cambia il fatto che a perdere tutto sia stato tu.» fece notare Sherlock, una nota di amarezza nella voce. Sospirò mestamente. «E mi dispiace, Mycroft. Davvero. Mi dispiace così tanto…»
 «Non ho perso tutto, Sherlock.» replicò Mycroft. «Ho ancora te.»
 I due si osservarono per un lungo istante, poi Sherlock allargò le braccia, lo sguardo colmo di dolcezza.
 «Vieni qui, Myc.»
 Mycroft scivolò sul materasso, rifugiandosi nella stretta di suo fratello e aggrappandosi alle sue spalle. Affondò il capo nell’incavo del suo collo, respirando il suo profumo, lasciandosi stringere dolcemente dalle sue braccia.
 «Avrai sempre me.» aggiunse.
 «Grazie, Lock» sussurrò Mycroft.
 Sherlock poggiò le labbra sulla fronte del fratello, sfiorandola in un bacio leggero, poi intrecciò le loro gambe, in modo da fare aderire maggiormente i loro corpi sotto le coperte.
 E poco dopo entrambi scivolarono nel sonno, stretti uno fra le braccia dell’altro.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti!
Chiedo perdono per l’ENORME, GIGANTESCO, GALATTICO ritardo, ma tra lavoro, università e mancanza di ispirazione è stato veramente difficile rimanere al passo e aggiornare questa storia o qualsiasi altra. Chiedo scusa :(
Ma adesso sono qui. So che questo è un capitolo breve, ma è solamente di passaggio.
Non ho ancora scritto il seguito, quindi non ho idea di quando lo pubblicherò.
Spero che questo quattordicesimo capitolo vi piaccia, nonostante la lunghezza ^_^”
Grazie a tutti per la pazienza e per chi è rimasto con me fino ad ora, nonostante i miei continui ritardi. :)
Un bacione, Eli♥
   
 
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