“Love never dies a
natural death. It dies because we don't know how to replenish its source. It
dies of blindness and errors and betrayals. It dies of illness and wounds; it
dies of weariness, of witherings, of tarnishings.”
― Anaïs Nin
Un
caldo dannato del cazzo, ecco come se ne era uscita, gentile e delicata come
suo solito, nonostante sua madre c’avesse impiegato anni a impartirle un’educazione
che sfoggiava solo quando era strettamente necessaria.
La dose di violenza che le ribolliva il
sangue, la sfogava fuori, all’esterno, dopo essersi chiusa il portone di legno
di casa sua alle spalle e chiedendo alla giornata appena iniziata di darle un
motivo per imprecare contro qualsiasi cosa.
Non si era truccata, prevedendo che la
matita si sarebbe sciolta in 0.3 secondi dopo la prima esposizione al sole. Si era
infilata il primo paio di pantaloni, pescato a caso nell’armadio, sperando
potesse tenerla fresca e una canotta che non le facesse uscire le tette di
fuori – perché quando fa un dannato caldo del cazzo e sei pure maggiorata, una
delle due cose doveva essere per forza mandata a puttane.
Era salita sul treno risalente ai tempi
della tv a due colori e si era fatta quella ventina di fermate che facevano
solo accrescere gli odori dentro quel trabiccolo della morte. Lo stava facendo
per se stessa, quel viaggio del cazzo alle dieci di
una mattina di metà luglio.
Lo faceva per se
stessa perché inaspettatamente – a cazzo
di cane, come aveva precisato alla sua migliore amica, commentando lo screenshot della conversazione – lui le aveva proposto di
uscire.
Quella conversazione senza senso la
conosceva a memoria, ormai. Ne aveva ripassato ogni passaggio, anche prima
quando era in treno, mentre cercava di attuare la tecnica del ricambio d’aria
filtrando la puzza di morto sudato, che impregnava la plastica stessa dei
sedili. Si era assicurata sei volte di non avergli fatto pressioni; sembrava
che l’idea fosse completamente sua. Lei gli aveva detto semplicemente che dopo
l’ennesimo esame andato di merda, aveva il desiderio di viversi la città come
quando era solo una liceale, quando si perdeva nei vicoli e si riposava ai
piedi delle statue sconosciute, riempiendo la memoria del telefono con foto
senza senso.
E lui le aveva detto sì.
«Andiamo». Prima persona plurale del verbo
andare. Presente indicativo.
Noi.
Andiamo.
L’aveva fissato dieci minuti, quel
messaggio ed era stata capace solo di rispondergli domani.
Non poteva essere un appuntamento: era
giorno.
Gli appuntamenti si danno la sera, per
cena, quando si ha tutto il pomeriggio per prepararsi e non un quarto d’ora scarso,
il necessario per lavarsi e vestirsi.
Erano le undici di un fottuto giorno di
luglio. Trentacinque gradi Celsius e lei avrebbe sudato come un maiale sullo
spiedo.
Gli avrebbe fatto schifo.
Faceva schifo.
E non lo diceva per sentirsi dire: «Oddio,
no, sei bellissima» o minchiate del genere; era una considerazione, un fatto
sotto la luce del sole, una partita a carte scoperte contro l’Oggettività.
Il treno arrivò in anticipo l’unica volta
in cui sarebbe dovuto arrivare in ritardo – non aveva nemmeno il suo numero di
telefono.
Era la quarta volta che controllava l’ora
e i minuti non avevano la minima intenzione di scorrere.
‘Fanculo, pensò.
Merda,
mi darà buca,
aggiunse.
Sì,
probabile. Sarebbe stata solo la conclusione perfetta.
Speriamo
non cachi dietro a un cespuglio come l’ultimo.
Non può
cacare, se non arriva.
Oddio,
spero di non dover cacare io.
E poi era arrivato.
Le braccia che ondeggiavano a tempo con la
camminata da cowboy fintamente rilassata e strafottente. Ray-Ban da sole
effetto specchio. Maglia bianca di un Hard Rock a caso, con lo stemma sbiadito.
A piedi e per niente sudato.
Cazzo,
ti odio. Sono io la femmina. Perché la natura ci ha fatti sudati? Le altre sono
perfette e io sembro una saponetta bagnata alla fragranza di vecchio piscione.
Vaffanculo
natura di merda. Altro che matrigna, sei proprio puttana.
«Ehi».
Già, ehi.
Non ce la fece a sottrarsi alla guancia
che le stava porgendo, perché era dannatamente cotta di lui, anche se non
sapeva il perché.
Si incamminarono e lei fu costretta a
trotterellargli dietro, perché era bassa e tarchiata e le sue gambe
permettevano solo un’andatura veloce e non una falcata ampia.
Piazza, fontana, monumento, chiesa, fiume.
Non forzatamente in quell’ordine.
Pizza divisa a metà. Conto sulle sue
spalle.
Lei e il cacatore
dietro i cespugli, si erano portati entrambi il pranzo da casa, la prima volta.
Lei perché non sapeva come effettivamente funzionasse e lui perché si era
rivelato un tirchio testa di cazzo.
Lo convinse a fermarsi in un parco in
mezzo al centro, perché erano le fottute due del pomeriggio e lei doveva
riprendersi.
Sigaretta.
Lui odiava il fatto che fumasse.
Odiava il fumo in generale.
Aveva persino pensato di smettere per
diventare più appetibile ai suoi
occhi. Tre secondi dopo si era data della cogliona e si era accesa un’altra
sigaretta.
L’unica cosa che poteva effettivamente
fare, era evitare che il fumo gli finisse addosso.
Centotrentacinque secondi di silenzio. Cazzo
se li aveva contati.
Non era un buon segnale.
Lui aveva tirato fuori il telefono
praticamente subito.
Pessimo, pessimo segnale.
Come aveva solo pensato di poter sperare
di piacere a un ragazzo.
Come santo…
«Perché sei uscito con me?»
Bella
domanda.
Brava.
La mia
autostima deve arrivare ai livelli del mantello sotto terra, altrimenti non
sono contenta.
«Non avevo niente di meglio da fare».
E cosa
cazzo mi potevo aspettare se non una risposta di merda. Non avevo niente di
meglio da fare.
Cosa cazzo significa che non aveva niente
di meglio da fare? Cosa cazzo era, un passatempo? Una giostra di merda in un
luna-park di merda.
«Io l’ho fatto perché mi piaci»
«In che senso?»
«Nell’unico senso possibile».
Mi piace
quando ti alzi a caso e fai finta di suonare una chitarra che non sai suonare. Mi
piace quando ti fomenti per i film, perfino per le colonne sonore, la luce
nella stanza che ti fa pensare a un quadro del Seicento. Mi piace quando mi
guardi – cazzo, se mi piace – e sorridi, o mi guardi e fai le smorfie o quando
mi guardi e basta. Se mi guardi tu, mi sento bella e non penso a questi cazzo
di venti chili di troppo, al brufolo che mi è uscito stamattina, alla carne che
straborda o alle mie spalle troppo larghe. Non penso a me, che sono tutto
questo e credo di essere altro. Poi non serve a un cazzo perché sono troppo
consapevole di me stessa e delle altre, e di te che alla fine sei un ragazzo
come tutti gli altri e che sicuramente vuoi il mio opposto, la mia nemesi. Mentirei
se ti dicessi che non c’ho mai provato. Cazzo se c’ho provato. Solo che non ci
sono riuscita, perché preferisco sentirmi a mio agio, nei vestiti che sono fin
troppo abituata a portare, nel mio luogo di pace silenziosa dove ci sono solo
io che mi voglio bene così, pur sapendo che dovrei cambiare.
Ti ho
allontanato perché non volevo avere la tentazione di toccarti e rischiare di
farti schifo. La verità è che sono una codarda. Ho una fottuta paura del cazzo
di tutto quello che mi circonda e allora mi incazzo, come prima reazione. Mi incazzo
come un animale che non sa cosa deve fare. Ho paura del dolore e preferisco
evitare di provare. Aggiro, evito che gli altri siano in grado di procurarmi
dolore e tanto alla fine ci ricasco sempre.
Ho provato
a odiarti, a non parlarti, a trattarti male e riconoscere il fatto che alla
fine sei un idiota del cazzo, perché con gli altri aveva funzionato.
Solo
che tu non sei gli altri e io non ho più sedici anni.
Perché
tu parli quando guardi i film, mi sfiori il braccio e io rabbrividisco e poi
sei un dannato juke-box. Ti odio perché mi fai ridere e io non riesco a non
ridere. Ti odio perché ti avvicini anche se mordo. Ti odio perché ti incazzi
quando non ti dico cosa c’ho ma tu non vuoi parlare con me. Ti odio perché te
lo direi quello che ho, ma non posso perché il mio unico problema sei tu e non
posso dirtelo. Ti odio perché penso di amarti ma non ne sono sicura. Ti odio
perché non sarò mai come quelle che piacciono a te e non mi considererai mai. Non
davvero. Non come vorrei io. Ti odio perché vuoi innamorarti ma non di me. Ti odio
perché mi fai paura e mi odio perché faccio paura. Ti odio perché io ti direi
di sì anche subito ma tu non me lo diresti nemmeno un domani. Ti odio perché ho
solo un libretto delle istruzioni e tu non hai una chiave a brugola per me.
Il sole fra le fronde degli alberi del
parco in mezzo al centro.
Il caldo asfissiante delle ore centrali
del pomeriggio. Lo sfrigolio della carta della sigaretta che brucia piano,
lentamente, in un piano temporale completamente diverso dal loro. Per niente a
tempo con il traffico della strada, con il casino incessante dei clacson
impazziti delle automobili e i fumi dai tubi di scarico e le bugie scritte
sulle fiancate degli autobus a metano.
«Siamo amici, no?».
Lui la guardò e le sorrise.
Il filtro delle emozioni di lei, lo
tradusse come rincuorato e lei tornò semplicemente a scherzare sul nulla,
accendendosi un’altra sigaretta e fumandola tutta, stavolta.