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Autore: Feynman    08/06/2017    0 recensioni
Una Città Qualunque.
Potrebbe anche essere la tua, quella in cui vivi, quella in cui vai per studiare, quella che hai visto una sola volta in vita sua.
Una Lei Qualunque.
Potrebbe essere la tua vicina di casa, la tua compagna di banco, la ragazza che ti siede affianco su un autobus - potresti essere tu stessa.
Un Lui Qualunque.
Potrebbe essere il ragazzo che hai visto in fila al bar, il tuo compagno di banco, il tuo vicino di posto, quello contro cui hai sbattuto stamattina mentre prendevi la metro.
Un Lui Qualunque ma non per Lei.
Una Città Qualunque ma non per Lei.
Una Storia Qualunque è pur sempre una Storia.
Genere: Angst, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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“Love never dies a natural death. It dies because we don't know how to replenish its source. It dies of blindness and errors and betrayals. It dies of illness and wounds; it dies of weariness, of witherings, of tarnishings.” 
 Anaïs Nin

 

 

 

 

 

 

Un caldo dannato del cazzo, ecco come se ne era uscita, gentile e delicata come suo solito, nonostante sua madre c’avesse impiegato anni a impartirle un’educazione che sfoggiava solo quando era strettamente necessaria.

La dose di violenza che le ribolliva il sangue, la sfogava fuori, all’esterno, dopo essersi chiusa il portone di legno di casa sua alle spalle e chiedendo alla giornata appena iniziata di darle un motivo per imprecare contro qualsiasi cosa.

Non si era truccata, prevedendo che la matita si sarebbe sciolta in 0.3 secondi dopo la prima esposizione al sole. Si era infilata il primo paio di pantaloni, pescato a caso nell’armadio, sperando potesse tenerla fresca e una canotta che non le facesse uscire le tette di fuori – perché quando fa un dannato caldo del cazzo e sei pure maggiorata, una delle due cose doveva essere per forza mandata a puttane.

Era salita sul treno risalente ai tempi della tv a due colori e si era fatta quella ventina di fermate che facevano solo accrescere gli odori dentro quel trabiccolo della morte. Lo stava facendo per se stessa, quel viaggio del cazzo alle dieci di una mattina di metà luglio.

Lo faceva per se stessa perché inaspettatamente – a cazzo di cane, come aveva precisato alla sua migliore amica, commentando lo screenshot della conversazione – lui le aveva proposto di uscire.

Quella conversazione senza senso la conosceva a memoria, ormai. Ne aveva ripassato ogni passaggio, anche prima quando era in treno, mentre cercava di attuare la tecnica del ricambio d’aria filtrando la puzza di morto sudato, che impregnava la plastica stessa dei sedili. Si era assicurata sei volte di non avergli fatto pressioni; sembrava che l’idea fosse completamente sua. Lei gli aveva detto semplicemente che dopo l’ennesimo esame andato di merda, aveva il desiderio di viversi la città come quando era solo una liceale, quando si perdeva nei vicoli e si riposava ai piedi delle statue sconosciute, riempiendo la memoria del telefono con foto senza senso.

E lui le aveva detto sì.

«Andiamo». Prima persona plurale del verbo andare. Presente indicativo.

Noi.

Andiamo.

L’aveva fissato dieci minuti, quel messaggio ed era stata capace solo di rispondergli domani.

Non poteva essere un appuntamento: era giorno.

Gli appuntamenti si danno la sera, per cena, quando si ha tutto il pomeriggio per prepararsi e non un quarto d’ora scarso, il necessario per lavarsi e vestirsi.

Erano le undici di un fottuto giorno di luglio. Trentacinque gradi Celsius e lei avrebbe sudato come un maiale sullo spiedo.

Gli avrebbe fatto schifo.

Faceva schifo.

E non lo diceva per sentirsi dire: «Oddio, no, sei bellissima» o minchiate del genere; era una considerazione, un fatto sotto la luce del sole, una partita a carte scoperte contro l’Oggettività.

Il treno arrivò in anticipo l’unica volta in cui sarebbe dovuto arrivare in ritardo – non aveva nemmeno il suo numero di telefono.

Era la quarta volta che controllava l’ora e i minuti non avevano la minima intenzione di scorrere.

‘Fanculo, pensò.

Merda, mi darà buca, aggiunse.

Sì, probabile. Sarebbe stata solo la conclusione perfetta.

Speriamo non cachi dietro a un cespuglio come l’ultimo.

Non può cacare, se non arriva.

Oddio, spero di non dover cacare io.

 

E poi era arrivato.

Le braccia che ondeggiavano a tempo con la camminata da cowboy fintamente rilassata e strafottente. Ray-Ban da sole effetto specchio. Maglia bianca di un Hard Rock a caso, con lo stemma sbiadito. A piedi e per niente sudato.

Cazzo, ti odio. Sono io la femmina. Perché la natura ci ha fatti sudati? Le altre sono perfette e io sembro una saponetta bagnata alla fragranza di vecchio piscione.

Vaffanculo natura di merda. Altro che matrigna, sei proprio puttana.

«Ehi».

Già, ehi.

Non ce la fece a sottrarsi alla guancia che le stava porgendo, perché era dannatamente cotta di lui, anche se non sapeva il perché.

Si incamminarono e lei fu costretta a trotterellargli dietro, perché era bassa e tarchiata e le sue gambe permettevano solo un’andatura veloce e non una falcata ampia.

Piazza, fontana, monumento, chiesa, fiume.

Non forzatamente in quell’ordine.

Pizza divisa a metà. Conto sulle sue spalle.

Lei e il cacatore dietro i cespugli, si erano portati entrambi il pranzo da casa, la prima volta. Lei perché non sapeva come effettivamente funzionasse e lui perché si era rivelato un tirchio testa di cazzo.

Lo convinse a fermarsi in un parco in mezzo al centro, perché erano le fottute due del pomeriggio e lei doveva riprendersi.

Sigaretta.

Lui odiava il fatto che fumasse.

Odiava il fumo in generale.

Aveva persino pensato di smettere per diventare più appetibile ai suoi occhi. Tre secondi dopo si era data della cogliona e si era accesa un’altra sigaretta.

L’unica cosa che poteva effettivamente fare, era evitare che il fumo gli finisse addosso.

Centotrentacinque secondi di silenzio. Cazzo se li aveva contati.

Non era un buon segnale.

Lui aveva tirato fuori il telefono praticamente subito.

Pessimo, pessimo segnale.

Come aveva solo pensato di poter sperare di piacere a un ragazzo.

Come santo…

«Perché sei uscito con me?»

Bella domanda.

Brava.

La mia autostima deve arrivare ai livelli del mantello sotto terra, altrimenti non sono contenta.

«Non avevo niente di meglio da fare».

E cosa cazzo mi potevo aspettare se non una risposta di merda. Non avevo niente di meglio da fare.

Cosa cazzo significa che non aveva niente di meglio da fare? Cosa cazzo era, un passatempo? Una giostra di merda in un luna-park di merda.

«Io l’ho fatto perché mi piaci»

«In che senso?»

«Nell’unico senso possibile».

 

Mi piace quando ti alzi a caso e fai finta di suonare una chitarra che non sai suonare. Mi piace quando ti fomenti per i film, perfino per le colonne sonore, la luce nella stanza che ti fa pensare a un quadro del Seicento. Mi piace quando mi guardi – cazzo, se mi piace – e sorridi, o mi guardi e fai le smorfie o quando mi guardi e basta. Se mi guardi tu, mi sento bella e non penso a questi cazzo di venti chili di troppo, al brufolo che mi è uscito stamattina, alla carne che straborda o alle mie spalle troppo larghe. Non penso a me, che sono tutto questo e credo di essere altro. Poi non serve a un cazzo perché sono troppo consapevole di me stessa e delle altre, e di te che alla fine sei un ragazzo come tutti gli altri e che sicuramente vuoi il mio opposto, la mia nemesi. Mentirei se ti dicessi che non c’ho mai provato. Cazzo se c’ho provato. Solo che non ci sono riuscita, perché preferisco sentirmi a mio agio, nei vestiti che sono fin troppo abituata a portare, nel mio luogo di pace silenziosa dove ci sono solo io che mi voglio bene così, pur sapendo che dovrei cambiare.

Ti ho allontanato perché non volevo avere la tentazione di toccarti e rischiare di farti schifo. La verità è che sono una codarda. Ho una fottuta paura del cazzo di tutto quello che mi circonda e allora mi incazzo, come prima reazione. Mi incazzo come un animale che non sa cosa deve fare. Ho paura del dolore e preferisco evitare di provare. Aggiro, evito che gli altri siano in grado di procurarmi dolore e tanto alla fine ci ricasco sempre.

Ho provato a odiarti, a non parlarti, a trattarti male e riconoscere il fatto che alla fine sei un idiota del cazzo, perché con gli altri aveva funzionato.

Solo che tu non sei gli altri e io non ho più sedici anni.

Perché tu parli quando guardi i film, mi sfiori il braccio e io rabbrividisco e poi sei un dannato juke-box. Ti odio perché mi fai ridere e io non riesco a non ridere. Ti odio perché ti avvicini anche se mordo. Ti odio perché ti incazzi quando non ti dico cosa c’ho ma tu non vuoi parlare con me. Ti odio perché te lo direi quello che ho, ma non posso perché il mio unico problema sei tu e non posso dirtelo. Ti odio perché penso di amarti ma non ne sono sicura. Ti odio perché non sarò mai come quelle che piacciono a te e non mi considererai mai. Non davvero. Non come vorrei io. Ti odio perché vuoi innamorarti ma non di me. Ti odio perché mi fai paura e mi odio perché faccio paura. Ti odio perché io ti direi di sì anche subito ma tu non me lo diresti nemmeno un domani. Ti odio perché ho solo un libretto delle istruzioni e tu non hai una chiave a brugola per me.

 

Il sole fra le fronde degli alberi del parco in mezzo al centro.

Il caldo asfissiante delle ore centrali del pomeriggio. Lo sfrigolio della carta della sigaretta che brucia piano, lentamente, in un piano temporale completamente diverso dal loro. Per niente a tempo con il traffico della strada, con il casino incessante dei clacson impazziti delle automobili e i fumi dai tubi di scarico e le bugie scritte sulle fiancate degli autobus a metano.

«Siamo amici, no?».

Lui la guardò e le sorrise.

Il filtro delle emozioni di lei, lo tradusse come rincuorato e lei tornò semplicemente a scherzare sul nulla, accendendosi un’altra sigaretta e fumandola tutta, stavolta.

   
 
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