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Autore: Elison95    09/06/2017    4 recensioni
‘ 𝓅𝑒𝓇 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝑒 𝑔𝓁𝒾 𝓊𝑜𝓂𝒾𝓃𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝓅𝑒𝒸𝒸𝒶𝓉𝒾 𝒾𝓃𝒻𝒾𝓃𝒾𝓉𝒾
𝒹𝒾𝑜 𝓂𝒾 𝒽𝒶 𝒹𝒶𝓉𝑜 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒶 𝓅𝑒𝓁𝓁𝑒 𝒸𝒽𝒾𝒶𝓇𝒶,
𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝓁𝓊𝓃𝑔𝒽𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾 𝓇𝒶𝓇𝒾
𝒸𝒽𝑒 𝑒𝓈𝓈𝑒𝓇𝑒 𝓊𝓂𝒶𝓃𝑜 𝓅𝑜𝓉𝓇𝑒𝒷𝒷𝑒 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝓂𝒾?
𝓂𝑒𝓏𝓏𝑜 𝓋𝑒𝓈𝓉𝒾𝓉𝒶 𝒹𝒾 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾
𝒹𝒶𝓁 𝒸𝑜𝓁𝑜𝓇𝑒 𝓇𝑜𝓈𝓈𝑜 𝓅𝒶𝓁𝓁𝒾𝒹𝑜,
𝒹𝒶𝓁 𝓉𝑒𝓉𝓉𝑜 𝒹𝑒𝓁𝓁𝒶 𝓅𝒶𝑔𝑜𝒹𝒶 𝓋𝑒𝒹𝑜 𝒾 𝓅𝑒𝓉𝒶𝓁𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝒸𝒾𝓁𝒾𝑒𝑔𝒾,
𝒸𝒶𝒹𝑜𝓃𝑜 𝓃𝑒𝓁 𝓋𝑒𝓃𝓉𝑜 𝒹𝒾 𝓅𝓇𝒾𝓂𝒶𝓋𝑒𝓇𝒶.
𝓈𝒸𝓇𝒾𝓋𝑒𝓇𝑜' 𝓁𝒶 𝓂𝒾𝒶 𝒸𝒶𝓃𝓏𝑜𝓃𝑒 𝓈𝓊𝓁𝓁𝑒 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝒶𝓁𝒾.
𝒾𝓃𝑔𝒶𝓃𝓃𝑒𝓇𝑜' 𝒾 𝓋𝒾𝓋𝒾 𝑒 𝒹𝑒𝓈𝓉𝑒𝓇𝑜' 𝓈𝒸𝑜𝓂𝓅𝒾𝑔𝓁𝒾𝑜 𝓉𝓇𝒶 𝒾 𝓂𝑜𝓇𝓉𝒾.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico, Sovrannaturale
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ACT I ; Invasion of the habitat.
 
Accadde per la prima volta in un pomeriggio d’inverno. I miei genitori avevano sempre preteso che io diventassi la donna perfetta, invidiata da tutti e all'altezza di quella sforzata nobiltà che da sempre caratterizzava la nostra famiglia. Per questo sin dalla tenera età ero stata costretta a trattenermi in classe per le lezioni supplementari che si tenevano ogni pomeriggio nelle scuole prestigiose che frequentavo, sebbene i miei voti superassero la media di ogni studente.
Eppure, quella volta sentivo di dover tornare a casa prima, secondo mia madre era tuttavia disdicevole; “non andrai da nessuna parte in questo modo, Eireen! Dovresti smetterla di sottrarti ai tuoi impegni”, continuava a ripetermi come se una volta diventata adulta, non avrei mai potuto prendere un giorno di malattia all'ipotetico futuro lavoro. Insomma, per caso una cosa simile avrebbe potuto compromettere la mia “entusiasmante” e promettente carriera futura?
Come al solito in quei mesi la notte calava troppo presto... non avevo mai sofferto il buio, eppure quando qualcuno mi toccò la spalla sobbalzai spaventata. Altri non era che Noemi, una piccola e fin troppo gentile ragazzina che passava la sua vita a scrivere appunti scolastici.
«Scusami, non volevo spaventarti, ma pensavo potesse servirti.» Mi porse due o tre fogli che mi erano caduti dalla cartellina verde che avevo in mano, mi ricomposi quasi subito gettando le ciocche dei capelli lunghi dietro le orecchie e la ringraziai con un cenno di capo, non ero solita parlar molto, i miei genitori mi tenevano così sotto controllo che anche farmi degli amici era diventato difficile ormai, quindi non mi ci sforzavo nemmeno più. Avevo dimenticato come si dialogasse con un altro essere umano, a Noemi nemmeno sembrò importare diventar mia amica, difatti ricambiò con un flebile e spento sorriso andando via subito dopo.
Ero agitata e non riuscivo a capirne esattamente il motivo, sebbene non fossi mai stata nemmeno un tipo sospettoso o pregno d’ansia. A dire il vero ero quel tipo di persona che viveva le cose molto passivamente, spesso mi comparavo alle dame dell’ottocento, sempre attente ai bisogni della propria famiglia e così a modo da ammirarle solo da lontano. Con un sospiro rammaricato mi liberai dei soliti pensieri, continuai per la mia strada e fu proprio qualche minuto più tardi che si verificò l'inimmaginabile.
Un piccolo gruppo di ragazzi mi circondò poco prima di rientrare nel vialetto di casa, l’asfalto inumidito dalla pioggia pomeridiana, con quella puzza mista al fumo di sigarette che fuoriusciva dalle loro bocche, mi dava la nausea. Il nostro non era un quartiere malfamato, vivevo lì sin sa quando ne avevo memoria ed anzi poteva definirsi lo spazio più agiato della città, avevamo persino un parco ed una fontana tutta nostra dove le sentinelle del vicinato si ripromettevano di proteggere la quotidianità dei più piccoli, eppure, c’era da un po’ voce che un gruppo di ribelli si divertisse a spaventare le ragazze del posto, nessuno aveva compreso se si trattasse di esterni o semplici figli di papà stufi del solito atteggiamento bonario; fatto stava che in quel momento ero io quella ad essermeli ritrovata davanti. Avevano delle divise diverse da quelle delle mia scuola, ma lo si poteva capire lontano un miglio che appartenevano ad un istituto privato; certi abiti si distinguevano dalle stoffe pregiate e gli stemmi delle scuole sul petto.
“Adesso ci divertiremo”, continuava a ripetere quello che probabilmente era il leader mentre gli cercavano di avvicinarsi, eppure io non li sentivo molto bene. Non riuscivo a percepire la realtà in cui mi trovavo. Era come se fossi sospesa in un ammasso d’aria troppo pesante per poter respirare, quindi trattenevo il fiato senza nemmeno rendermene conto. Sentivo solo la rabbia, riservata per qualcuno che stesse invadendo il mio habitat, il mio spazio. Ero fuori di me come poche volte, forse perché ero sempre stata abituata a trattenere l'ira per troppo tempo. Mia madre mi aveva sempre detto che le signorine rispettose dovevano contare almeno fino a cento prima di sbottare o dire qualcosa fuori luogo ed io l'avevo sempre fatto, costretta per troppe volte in una vita che non mi apparteneva.
Le mani di alcuni mi spintonavano da una parte all'altra, lasciando che la cartellina cadesse ed i fogli si bagnassero in mezzo a quelle pozze d'acqua sporca, dove adesso il mio riflesso veniva storpiato per tutto il trambusto; non vedevo né loro, né me stessa.
Riuscii a sentire, dopo quel momento, solo il tonfo della borsa schiantarsi al suolo, una luce accecante e persi coscienza.
 
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‘ 𝓅𝑒𝓇 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝑒 𝑔𝓁𝒾 𝓊𝑜𝓂𝒾𝓃𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝓅𝑒𝒸𝒸𝒶𝓉𝒾 𝒾𝓃𝒻𝒾𝓃𝒾𝓉𝒾
𝒹𝒾𝑜 𝓂𝒾 𝒽𝒶 𝒹𝒶𝓉𝑜 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒶 𝓅𝑒𝓁𝓁𝑒 𝒸𝒽𝒾𝒶𝓇𝒶,
𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝓁𝓊𝓃𝑔𝒽𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾 𝓇𝒶𝓇𝒾
 𝒸𝒽𝑒 𝑒𝓈𝓈𝑒𝓇𝑒 𝓊𝓂𝒶𝓃𝑜 𝓅𝑜𝓉𝓇𝑒𝒷𝒷𝑒 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝓂𝒾?
𝓂𝑒𝓏𝓏𝑜 𝓋𝑒𝓈𝓉𝒾𝓉𝒶 𝒹𝒾 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾
𝒹𝒶𝓁 𝒸𝑜𝓁𝑜𝓇𝑒 𝓇𝑜𝓈𝓈𝑜 𝓅𝒶𝓁𝓁𝒾𝒹𝑜,
𝒹𝒶𝓁 𝓉𝑒𝓉𝓉𝑜 𝒹𝑒𝓁𝓁𝒶 𝓅𝒶𝑔𝑜𝒹𝒶 𝓋𝑒𝒹𝑜𝒾 𝓅𝑒𝓉𝒶𝓁𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝒸𝒾𝓁𝒾𝑒𝑔𝒾,
𝒸𝒶𝒹𝑜𝓃𝑜 𝓃𝑒𝓁 𝓋𝑒𝓃𝓉𝑜 𝒹𝒾 𝓅𝓇𝒾𝓂𝒶𝓋𝑒𝓇𝒶.
𝓈𝒸𝓇𝒾𝓋𝑒𝓇𝑜' 𝓁𝒶 𝓂𝒾𝒶 𝒸𝒶𝓃𝓏𝑜𝓃𝑒 𝓈𝓊𝓁𝓁𝑒 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝒶𝓁𝒾.
𝒾𝓃𝑔𝒶𝓃𝓃𝑒𝓇𝑜' 𝒾 𝓋𝒾𝓋𝒾 𝑒 𝒹𝑒𝓈𝓉𝑒𝓇𝑜' 𝓈𝒸𝑜𝓂𝓅𝒾𝑔𝓁𝒾𝑜 𝓉𝓇𝒶 𝒾 𝓂𝑜𝓇𝓉𝒾.
 
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È vero, avevo sempre preferito la carne quasi cruda ed avevo un olfatto molto sviluppato, oltre all’udito che a volte poteva definirsi una cosa agghiacciante. I miei capelli erano di un colore strano, un caramello misto ad un rosso vivo che diciamolo, erano piuttosto insolito per il nostro albero genealogico, costituito pressoché da chiome scure e ricce. Le lentiggini contro la mia pelle, scandalosamente chiara, e gli occhi di un color ghiaccio quasi accecante che a volte diventavano persino verdi, mi avevano fatto sempre pensare all’eventualità che quelli non fossero i miei veri genitori. Insomma, con quella scusante avrei saputo e potuto anche spiegarmi perché il mio spirito in continua ricerca di libertà, si trovasse estremamente a disagio in quel rigido ambiente in cui, invece, avevo vissuto sino a quel momento.
Ecco, questa era una buona ipotesi. Questa, e non quella che i presunti “guardiani” di non so quale setta oscura, stessero sostenendo al mio risveglio.
Una Kumiho, così mi avevano chiamato. Una creatura leggendaria d’origine orientale, una volpe a nove code.
Io, una volpe.
Inghiottii la notizia e stetti in silenzio, la divisa scolastica ormai mal ridotta, fu l’ultimo dei miei pensieri e stranamente fu l’ultimo dei pensieri anche di mia madre. Lei continuava a guardarmi in cagnesco, come se tutta quella vicenda fosse una mia colpa.
«…Per tanto, dovrebbe prendere le sue cose e venire immediatamente alla Saint Bàra.» Fece l’uomo più alto, entrambi erano vestiti di nero e con indumenti talmente larghi che in quel momento faticai a capire se fossero tuniche o maglie lunghe con sotto i pantaloni, avevano i capelli più lunghi del normale (almeno per la moda del momento) e quasi non gli si vedevano gli occhi.
«…Sapevo sarebbe accaduto, oh caro sono così mortificata!» Mia madre si crogiolò tra le braccia dell’unico uomo di famiglia, anche lui mi guardò con un certo fare pietoso mentre scuoteva la testa, ero completamente tramortita. Per quanto io non volessi accettarlo, la notizia di essere una qualche specie di creatura fuori dalla norma, non mi sconvolse quanto il fatto di dover andare con quegli uomini e lasciare quindi casa mia.
«Non voglio venire proprio da nessuna parte.» Mi alzai dal comodo divano che avevamo in salotto sbottando stizzita e cercando di non dare segno di debolezza, quando mi accorsi che la testa girava più del dovuto.
«Sono le regole, signorina.» Disse uno degli uomini misteriosi, inchinandosi subito dopo.
«Non essere sciocca Eireen! Come pretendi di poter restare qui quando potresti tramutarti in qualsiasi momento in quella cosa ...Oh – in quella cosa orribile!» Mia madre sembrava disgustata, dopo aver detto la sua si portò il palmo alle labbra cercando di trattenere un conato.
Lei era indignata ma io sentivo di poter vomitare da un momento all'altro.
«Dovresti ascoltare tua madre, Eireen. Per una volta almeno. Ce lo devi insomma, ti abbiamo cresciuto come meglio potevamo e non vogliamo divenire gli zimbelli di nessuno. Sono certo che anche tu la pensi in questo modo.» Quelle parole, quelle di mio padre fecero più male forse di qualsiasi altra cosa. Mi sorrise come se avesse appena ammesso di volermi un bene nell’anima ed io restai a fissarlo per qualche secondo di troppo, mentre dava pacche sulla spalla di mia madre a mo’ di consolazione.
Non riuscii a dire molto, né altro. Ci fu poco tempo per riflettere e per rispondere. Sentivo solo la nausa della tipica e tanto sperimentata delusione albergarmi in ogni centimetro del corpo, avrei voluto abbracciare almeno mio padre che sembrava così rammaricato per tutto quanto... mi fece sentire in colpa anche se sapevo fosse una sensazione sbagliata. Mi misero un piccolo braccialetto al polso con un ciondolino a forma di triangolo che pendeva sul dorso della mano. La catenina era costituita da piccole palline simili a perle – si rassicurarono del fatto che non dovessi mai toglierlo, in caso contrario le mie trasformazioni non avrebbero avuto alcun controllo in futuro. Dopodiché mi bendarono, sentii un lieve pizzico al braccio e persi nuovamente conoscenza. Qualsiasi tentata ribellione, fu completamente inutile.
 
«Benvenuta alla Saint Bàra, signorina Cester.»
Una voce non proprio amichevole interruppe del tutto il mio sonno, mi svegliai su di un letto che prima non avevo mai visto, ma era comunque abbastanza comodo e spazioso. La donna mora ed alta di fronte a me, reggeva qualche foglio tra le mani mentre mi fissava ignorando qualsiasi regola della privacy, poteva apparire probabilmente più giovane dei suoi anni, ma la voce non mi ingannava – era sicuramente molto vecchia.
Aveva una specie di neo rialzato proprio all’angolo della bocca; avrei potuto vomitare se solo l’avessi osservato un po’ più a lungo, ma tutto il resto del viso e del corpo era così bello che mi fece dimenticare in fretta di quel particolare.
«…Cosa diavolo è questa Saint Bàra?» Mi alzai di lì irritata e confusa, avevo fatto solo un brutto sogno? Cercai di sistemarmi in qualche modo i capelli arruffati, provocai nella donna una garbata, sebbene irritante, risata.
«La Saint Bàra è l’accademia più antica è rispettabile di tutto il globo, signorina Cester. Farebbe meglio quindi a moderare i termini o temo che non partirà col piede giusto.»
«Cosa ci faccio qui?… Ai miei non bastava mandarmi nelle migliori scuole?»
«Lei non è del tutto umana, signorina Cester. È qui infatti per imparare tutto ciò che c’è da sapere per convivere al meglio sulla terra ed in modo pacifico con quelle strane creature chiamate esseri umani.» Disse come se fosse la cosa più normale del mondo, come se quella faccenda avesse un senso talmente logico, che non c’era nemmeno bisogno di spiegarlo.
«… Ah giusto, sono una kumiho. Quindi troverò qui il mio branco ed impareremo a convivere felici e contenti?» Lei scosse la testa e rise probabilmente prendendosi beffa di me e della mia titubanza, io incrociai le braccia al petto e mi accigliai. I miei genitori mi avevano davvero abbandonato? E perché non erano sembrati sorpresi di tutta quella faccenda? Ma sopratutto... c'erano altre persone a soffrire di quella strana forma di malattia?
«No, lei è un umano con sangue di demone, semplicemente. Vedrà, presto si ambienterà alla nostra accademia. Se ha un po’ di fortuna potrà trovare studenti pronti a spiegarle almeno le basi.» Spulciò qualche foglio che aveva in mano e me ne porse qualcuno. «…Qui trova gli orari delle lezioni e della mensa, mi raccomando non perda nulla o saranno guai. Ora, se non le dispiace...» Fece un piccolo inchino col capo, e si congedò, i suoi passi erano lenti e rumorosi. Spezzavano il silenzio che mi avvolgeva facendo sì che i miei timpani diventassero succubi di quel suono, era qualcosa di tremendamente agghiacciante e per quanto mi sforzassi non riuscivo nemmeno a capirne il motivo. Mocassini con un tacco doppio e basso – orribili forse per qualsiasi stilista degno di essere chiamato tale, eppure ancora una volta ai suoi piedi sembravano terribilmente adatti.
Mi lasciai cadere contro il letto, già stanca di tutta quella faccenda, o meglio di tutte quelle notizie surreali e per niente comode alla mia persona. Osservai il braccialetto che avevo ancora al polso e lo strinsi tra le dita provando a sfilarlo, mi accorsi che fu uno sforzo inutile; era appena cominciata ma mi chiedevo già quando sarebbe finita.
«Oh, tu devi essere Eireen!» Una voce squillante mi fece sobbalzare. Una ragazza dai capelli lunghi e ricci oltrepassò la porta della mia camera senza complimenti.
«E tu chi sei?» Chiesi col mio solito tono non proprio amichevole, lei alzò le mani e sollevò un sopracciglio.
«Oh scusami tanto, ma questa non è la reggia della regina. Sono la tua compagna di stanza, mi chiamo Dorothée. Sentiti libera di affibbiarmi qualsiasi soprannome tu voglia, sempre che c’entri qualcosa con me – ovvio.» Mi porse la mano prontamente una volta avvicinatasi al mio letto. Gliela fissai per qualche secondo e dopo aver esitato un po’ gliela strinsi di rimando. Fu il primo contatto diretto che ebbi con lei.
«Scusami, ma non so ancora bene come funziona questo posto...» Bofonchiai.
«Oh ma non c’è niente da sapere, è una semplicissima scuola come quelle che hai sicuramente frequentato sino ad ora.» Si voltò a guardarmi per un istante e mi sorrise, poi tornò a riporre le sue cose in modo ordinato negli scaffali della grande libreria, vicino a quello che sembrava essere il suo letto. Delle piccole e graziose piantine in piena fioritura – in quel periodo era possibile? Dorothée insieme a sé aveva portato profumo di lavanda con un retrogusto fresco di muschio. Mi fece sentire quasi al sicuro.
Mi alzai dal letto sospirando, senza dilungarmi troppo in quei pensieri tipici di me, e vagai un po’ all’interno della stanza.
«Mh, capisco.» biascicai.
«Oh su andiamo, non fare quella faccia! Adesso ti porto a fare un piccolo ed interessante tour dell’accademia. Vedrai che non è poi così male.»
«In realtà io vorre–…» “vorrei riposare”, ma a quanto pareva lei sembrava non fregarsene poi molto. Mi prese sotto braccio e chiuse la porta dietro di noi con uno schiocco di dita. Mi voltai a guardarla incredula ed a dire il vero anche un po’ eccitata.
«Fantastico! Come ci sei riuscita?» Esclamai strabuzzando gli occhi per delucidarmi.
«Uhm, cosa? …Ah, la porta. Per me è del tutto normale, sai sono una Wiccan.»
«Wiccan?» Mentre le parlavo mi accorsi che il dormitorio femminile era davvero enorme, anche se tutte le stanze erano chiuse e sembrava non abitarci nessuno.
«Oh mamma, tu non sai proprio niente allora. Una Wiccan è una strega che pratica magia bianca. Gli umani spesso conoscono la Wicca, ma credono sia solo una religione. Non sanno che in realtà noi siamo delle vere e proprie streghe, streghe buone s’intende.» rise appena e si strinse meglio sotto il mio braccio. Era sicuramente un tipo bizzarro. Cercai di non fossilizzarmi sull'assurdità di quella situazione, tanto se fosse stato tutto un incubo... prima o poi sarebbe passato, no?
Quando uscimmo dall’edificio, potei osservare come effettivamente quella sembrava un accademia normalissima. Eccetto per i soggetti che vi vivevano all’interno.
Sull’immensa distesa di prato, c’erano panchine, campi da basket, qualche piccolo chiosco ed una marea di studenti. Sul serio il mondo era popolato da così tante persone non umane? Mi vennero i brividi solo a pensarci.
«Qui più o meno ci conosciamo tutti. Sei una delle poche, se non l’unica che è rientrata così tardi. Vedi, i ragazzi vengono portati qui sin dalla tenera età, soprattutto i vampiri.»
«Va-vampiri?» Feci sgranando gli occhi ed inghiottendo un bolo di salive che parve infuocato.
«Sì, vampiri! ...Vedi, loro sanno di essere ciò che sono fin dalla nascita, mi spiego? Come per noi streghe e le creature mannare. Le creature leggendarie come te, invece, manifestano la prima trasformazione ai dieci o nove anni, ma di solito i genitori ne parlano prima ai loro figli, è una questione di eredità ogni cento anni la vostra, capisci? …Tuttavia è realmente strano che a te sia capitato ai diciassette. Ti restano solo due anni per recuperare ciò che a noi insegnano sin da piccoli.» Mi fermai di colpo quando Dorothée pronunciò quelle parole, la guardai con gli occhi ancora spauriti ed insicuri. Esattamente quante creature popolavano quel posto? E la mia famiglia aveva realmente ereditato i geni delle kumiho che si manifestavano ogni cent’anni? …Tutto quello era completamente assurdo, e furono molteplici le volte in cui mi pizzicai il braccio per scoprire se stessi effettivamente dormendo o meno.
«Insomma dico... CREATURE MANNARE?» Quasi mi feci sentire da tutto il campus.
«Oh insomma perché alzi la voce? Guarda che a loro mica piace essere nominati così e con quel tono poi. Tranquilla tranquilla, so a cosa stai pensando. Siamo divisi in quattro razze; i vampiri, le streghe, le creature mannare ed infine voi, le creature leggendarie.»
«Creature mannare… Esistono? Sento che la mia mente non reggerà a tutto questo.» Come se tutte le altre razze fossero più normali.
«Non essere sciocca, Eireen. In cuor tuo sai qual è la tua vera identità e sono sicura che sei più sorpresa di doverti ambientare in un posto che non conosci piuttosto che condividere con persone che effettivamente, non sono semplici persone.»
Come diavolo faceva a saperlo? Me ne resi conto meglio proprio quando lei lo disse. Dorothée aveva un aura strana attorno a lei, ma sentii di potermi fidare, almeno per ora. Sospirai e riprendemmo a camminare per il campus.
«…Oh, guarda. Loro sono Thomas e Dyanne.»
Voltandomi notai i due, il presunto Thomas sembrava essere africano, capelli mossi e degli occhi che non riflettevano nessun anima – pensai che non dovesse avercela in effetti. Dyanne invece aveva un aria superba, lui la seguiva senza batter ciglio e reggendo le sue mille cose.
«Thomas è un Impundulu.» Proseguì la mia nuova amica. «È un servo vampiro di una strega, in questo caso di Dyanne. È un tipo di vampiro dall’insaziabile appetito, ma può nutrirsi solo della sua padrona e da chi lei decide. Gli schiavi vampiri si tramandano da generazioni alle famiglie di streghe... vedi, loro sono una delle poche eccezioni.»
Osservando i due che si fermarono su di una panchina, potei notare come Thomas bramava il collo di Dyanne, che sembrava invece riservarsi con accennato divertimento. A quanto pareva si divertiva a farlo soffrire in quel modo.
«Di che eccezioni parli?...» Mi voltai verso Dorothée che riuscì a catturare la mia attenzione con quella frase.
«Vedi, per noi è impossibile instaurare un rapporto come dire… d’amore con una persona della razza opposta. A loro invece è concesso. I servi vampiri delle streghe, quasi come d’obbligo diventano amanti delle loro padrone.»
«Dorothée, cosa capita se due razze opposte si innamorano?»
«Oh… niente di promettente mia cara Eireen, ma questo lo saprai sicuramente presto.» Sorrise in modo criptico.
«Cosa vuoi dire?» Mi accigliai, con un ovvia curiosità nel tono di voce.
«Nulla nulla. Oh, vieni ti presento Richard!» Avanzò poi lasciandomi qualche passo indietro.
Cominciai a seguirla in modo distratto guardando Thomas e Dyanne, sembravano stuzzicarsi di fronte a tutti come se il resto del campus non fosse lì. Si amavano sul serio? Mi sembrò una coppia insolita, ma probabilmente sincera. Ad un tratto gli occhi quasi rossi del vampiro mi osservarono cogliendomi in fragrante. Sobbalzai accelerando il passo e mi voltai di scatto per guardare dinanzi a me, quando sbattei però la testa da qualche parte. Caddi a terra in meno di un nano secondo, ma cercai di alzarmi quanto prima massaggiandomi il fondoschiena a causa del dolore. Ciò che mi ritrovai davanti mi lasciò senza fiato. Era un ragazzo, anche lui dotato di una pelle candida che appariva quasi luminescente. Aveva i capelli corvini, gli occhi, neri come la pece facevano sì che tra pupille ed iride non ci fosse alcuna differenza.
«Dovresti guardare in avanti quando cammini, volpe.» Aveva una voce quasi roca, a tratti inquietante. In viso nessuna forma di espressività lasciava trapelare una qualche emozione maligna o benigna che fosse. Mi chiamò "volpe" e la cosa mi lasciò senza fiato per qualche secondo.
«Scusami… mi sono distratta per un po’.» Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Mi accorsi che nell’occhio destro aveva una venatura dorata che spiccava in modo decisamente affascinante. «...Ma come, come sai che io...?»
«Eireen! Insomma cosa stai facendo? Sbrigati.» Dorothée venne a richiamare la mia attenzione senza lasciarmi finire la domanda e prendendomi per il braccio, guardò il ragazzo per qualche istante e poi schiarendosi la voce mi rivolse uno sguardo preoccupato. Mi trascinò via con sé subito dopo, mi voltai a guardarlo ma lui era già sparito tra la folla di persone apparentemente normali.
«Dimmi un po’, sei impazzita?» Mi bisbigliò all’orecchio.
«Perché…?» chiesi ancora intontita.
«Quello è Marek, non è consigliabile avvicinarsi a lui, soprattutto per una ragazza tanto bella come te, Eireen.»
«Cosa? Ma perché? Chi è, Dorothée?»
Lei non fece in tempo a rispondere alla mia domanda, il suo amico Richard era più vicino di quel che pensassi e come non detto, un altro ragazzo alto, ma questa volta più palestrato e decisamente più scuro di pelle, si stagliò dinanzi ad i miei occhi chiari. Restò a guardarmi per qualche secondo, dopodiché mi porse la mano ed io ricambiai.
«Lei è Eireen, quella nuova. È una Kumiho, Rich.» Dorothée mi risparmiava parole inutili. Abbassai il viso e guardai altrove, la trovavo una situazione imbarazzante, paradossalmente.
«Ora mi spiego perché è tanto bella. Credo che qui non avrai vita facile, Eireen. Questo potrebbe trarti in svantaggio. Ad ogni modo sono contento di conoscerti.» Richard sembrava avere un’espressione particolare che lo caratterizzava in ogni istante, ovvero quella di essere accigliato. Difatti sembrava arrabbiato anche quando in realtà non lo era. Aveva gli occhi color ambra, un colore singolare ed affascinante che non avevo mai visto e che dubitavo potesse esistere altrove.
«Tu… tu cosa sei?» Chiesi cercando di non essere invadente.
«Strano, voi volpi avete un istinto raffinato. Avresti dovuto capirlo dalla sola stretta di mano... sono un licantropo.» Disse con vago disagio.
«Ci sono altre kumiho?...»
«No, sei l’unica per ora, in tutto il campus e credo lo sarai per un bel po’.» Rise, giusto... la storia dei cent'anni avrebbe dovuto già darmi la risposta che volevo.
Passai il resto della giornata con Dorothée e Rich. La domenica non c’era alcuna lezione da seguire e gli studenti non dovevano indossare la solita divisa, così potemmo andare in mensa con tutta tranquillità e senza rispettare alcun orario di legge. Come al solito io preferii la carne rigorosamente al sangue e Rich mi seguì a ruota. Mi accorsi che potevamo essere più simili di quanto non credessi. Dorothée optò per un insalata vegetariana, capii sin da subito che era un tipo in estrema armonia con la natura e sembrava proprio che la vista della carne che avevamo preso io e Rich le dava il disgusto.
«Per fortuna qui alla Saint Bàra servono i cibi giusti per ogni tipo di razza. Non dovrai patire la fame.» Rich mi rivolse una sottospecie di sorriso mentre addentava la sua carne con gusto. Aveva un modo di mangiare animalesco ed io non potevo non dire lo stesso della mia natura. Per quanto mia madre avesse inutilmente cercato di incularmi le regole del galateo, io non le avevo quasi mai prese in considerazione. Almeno non quando cenavo da sola.
Per un attimo mi incupii pensando alla mia famiglia. Mi avevano liquidato con così tanta facilità, anzi, mi avevano ripudiato con così tanta naturalezza. Pensai di avergli fatto realmente schifo.
Le nove code che dicevano io avessi, le orecchie da volpe e tutto il resto... dovevano senza dubbio essere terrificanti, cercai di non dargli tuttavia peso, ma con un occhiata veloce alla mensa mi accorsi che altre persone avevano il mio stesso bracciale, me lo toccai e guardai Dorothée interdetta.
«Oh quella? Viene data solo alle creature leggendarie. Voi non avete controllo delle vostre trasformazioni, avete un istinto troppo… animalesco?»
Annuii e cercai di finire il mio cibo, Dorothée sembrava leggermi nella mente rispondendo alle mie domande prima che gliele ponessi e ne avevo avuta l’impressione sin da quando ero arrivata in quel posto.
Le rivolsi uno sguardo e lei scrollò le spalle sorridendo mentre mangiucchiava un oliva.
 
Probabilmente era stata una chiara risposta ai miei pensieri.
   
 
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