V
Il Palazzo
di
Cristallo si innalzava maestoso, altezzoso e fiero, dominando
l’orizzonte con
la sua imponente struttura: una foresta di torri di vetro sostenute da
uno
scheletro d’acciaio, che catturava e rifrangeva la luce del
sole nei colori
dell'arcobaleno.
Era
il palazzo di
rappresentanza, dove venivano accolti e ospitati coloro che
richiedevano i
servigi dei Dragoron, ed era la sede del Capitolo: il suo scopo era
quello di
mostrare la potenza e il potere dei cavalieri, e sottolineare che
sarebbe stato
un errore considerarli semplici mercenari; avevano un codice
d’onore, un
regolamento e pretendevano il rispetto che si sarebbe riservato a
qualsiasi
altro Ordine. Era stato pensato per lasciare l’ospite a bocca
aperta e senza
fiato, infondendogli un vago senso di meraviglia e terrore
reverenziale: le
torri si slanciavano verso le nubi, sfidandole ad accarezzare per prime
il sole
morente; erano possenti, eppure non prive di flessuosità ed
eleganza,
ingentilite nelle forme marziali da un ricamo di guglie, pinnacoli e
archi
rampanti. Gli ultimi raggi dell’astro trafiggevano il vetro
di cui erano
rivestite, insanguinandolo, e donando all’intero complesso
un’aura inquietante
e suggestiva.
Krupfer
atterrò
elegantemente su una delle numerose piattaforme sospese che
circondavano quella
principale, su cui torreggiava il Palazzo; un sistema di ponti dalle
ringhiere
intarsiate a motivi floreali si gettavano in archi sinuosi tra una
piattaforma
e l’altra, collegandole con passaggi sospesi nel vuoto.
Sebbene non avesse mai sofferto di vertigini,
Arandil sentì il proprio cuore risalirgli fino alla gola e
mozzargli il
respiro. Aveva trovato subdolamente crudele quella scelta: si aveva
l’impressione di camminare sul nulla e la paura di cadere
attanagliava le
viscere lungo l’intero percorso; l’elfo mise
cautamente un piede davanti
all’altro, reggendosi alla ringhiera e aggrappandosi
spasmodicamente a questa,
quasi fosse un’ancora di salvezza. I lampioni di vetro
soffiato che
costeggiavano i ponti stavano iniziando ad accendersi, diffondendo il
loro
tenue bagliore, e immergendo le costruzioni e le statue di drago che le
sorvegliavano in una calda e labile luce rosata. Ma per quanto fosse
onirico e
idilliaco il paesaggio, l’elfo era concentrato solo sulla
viscida sensazione di
cadere e sfracellarsi sui tetti di Evernia, la città
sottostante.
Si
domandò come
diplomatici, nobili e mercanti riuscissero a resistere ad una simile
apprensione e ad attraversare tutto il percorso senza bagnarsi i
calzoni di
seta; non che Arandil stesse per farsela sotto, ma se qualcuno
l’avesse visto
in quel momento, abbarbicato al ponte come il muschio sul tronco degli
alberi,
avrebbe sicuramente iniziato a nutrire dei dubbi circa
l’antonomastico coraggio
dei Dragoron.
Pochi
gradini di
vetro privi di ringhiera separavano il ponte dalla piattaforma del
Palazzo e
l’elfo li scese con il cuore che batteva
all’impazzata, tuonandogli nelle
orecchie con una spiacevole eco che si riverberava per tutto il corpo,
facendolo tremare come una foglia. Giunto nelle vicinanze della
torretta di
guardia si impose di ridarsi un contegno e di non presentarsi,
quantomeno, con
l’espressione di un coniglio che sta per essere ucciso.
Il
Dragoron,
segregato nella torretta, gli concesse appena un’occhiata
priva di interesse:
il ciondolo con la viverna, che spiccava prepotentemente sul
giustacuore di
pelle, era abbastanza esaustivo e Arandil non perse tempo in
presentazioni né
convenevoli, ma superò la torretta e si avventurò
sull’ultimo ponte prima del
vero e proprio Palazzo. Quest’ultimo era una galleria di
arcate a sesto acuto
che permettevano di vedere il paesaggio circostante per brevi e
regolari
intervalli, quando gli archi spaziavano sul cielo circostante, dando
l’impressione di stare galleggiando nel vento.
L’elfo trovava quella
costruzione più sicura e confortante delle precedenti, ma
sapeva bene che anche
quella scelta era stata ponderata a lungo e aveva un fine ben preciso:
la
copertura del ponte, una successione di volte a botte, impediva di
vedere il
Palazzo antistante, lasciando completamente basito e senza fiato il
visitatore
una volta che fosse emerso dal percorso e si fosse imbattuto tutto
d’un tratto
nella grandiosa costruzione.
Due
imponenti statue
di draghi rampanti, in bronzo dorato, accolsero con un minaccioso
sguardo rosso
rubino Arandil, non appena questi oltrepassò
l’arco di pietra che segnava
l’ingresso nel cortile interno del Palazzo. Una fontana di
marmo dominava il
piazzale lastricato, e giochi di acqua e di luce si illuminavano di
cremisi e
di arancione nell’atmosfera sfumata del crepuscolo.
Era
la seconda volta
che l’elfo varcava quella soglia nel giro di poche settimane,
e la prima non
era stato piacevole: si era presentato davanti al Capitolo per chiedere
di
essere sollevato dal suo incarico, era stato guardato con delusione e
compassione dai suoi superiori, e Adam non aveva mancato di fargli
notare
quanto fosse inetto e inadatto al suo ruolo di Cavaliere. Arandil non
mai stato
così frustrato e scontento di sé stesso. Ma
questa volta era diverso: l’Ordine stesso
aveva chiesto di lui e l’aveva convocato, segno che aveva
fiducia nelle sue
capacità e non lo considerava completamente un
inetto…Sempre che il sigillo di
ceralacca fosse autentico e non una copia molto ben riuscita atta ad
ingannarlo
e a prenderlo in giro.
Quando
la missiva
gli era stata recapitata aveva subito pensato ad uno scherzo di cattivo
gusto
da parte di Adam per umiliarlo e ferirlo più di quanto non
facesse da sé, ma il
sigillo era parso autentico, così come la firma in calce del
generale Xendar
Scudo d’Argento; se si trattava di uno scherzo, era stato
davvero ben
congegnato.
Arandil
deglutì,
spaesato di fronte alla magnificenza e alla bellezza che quel luogo
emanava:
davanti a lui si stagliava il corpo principale del palazzo, una specie
di cattedrale
gotica in vetro, decorata da mosaici di cristallo colorato che
tingevano il
piazzale di un caleidoscopio di colori sgargianti. Divorò
con gli occhi quello
splendore all’apparenza fragile eppure forte, di cui non si
sarebbe mai
stancato di cibarsi.
L’elfo
era stato
poche volte a Palazzo e l’edificio serbava i ricordi
più belli e strazianti: la
prima volta che era stato in quello stesso piazzale aveva sei anni ed
era un
piccolo elfo con la testa piena di sogni e lo sguardo pieno di stelle,
avido dell’azzurro
del cielo che lo circondava. Suo padre non era mai stato completamente
d’accordo con la sua scelta di diventare aviatore, avrebbe
preferito che
diventasse un guerriero come lui, o un guaritore come sua madre, o
comunque
qualcosa che fosse davvero utile; così era giunto ad un
compromesso: i Dragoron
erano soldati ma volavano, e ciò accontentava sia il
desiderio dell’immensità
del cielo di uno, sia la prospettiva di un lavoro che avesse una
qualche utilità
dell’altro. All’epoca Arandil era solo un elfo
spaurito e pieno di speranze, e
quell’edificio incredibile l’aveva completamente
conquistato e ingannato con il
suo sensuale splendore, facendogli credere che il suo addestramento, se
fosse
avvenuto in un luogo tanto bello, non sarebbe stato poi così
male.
Purtroppo,
però,
l’istruzione delle reclute avveniva a Evernia, presso
l’Accademia, una distesa
di casermoni di pietra e legno completamente privi di bellezza e grazia
che
abbatterono con un solo sguardo l’iniziale entusiasmo del
giovane. Ben presto Arandil
si rese conto che quella scelta non faceva per lui: la scherma era una
pratica
barbarica e monotona e le armi erano noiose e antiquate, i turni di
guardia
massacranti erano inutili e servivano solamente a fargli prendere
freddo e a
causargli raffreddori insopportabili, gli scontri erano umilianti ed
erano
utili solamente per accrescere l’ego di spacconi e arroganti,
come Adam.
L’unico argomento che aveva risvegliato un minimo di
interesse nel giovane elfo
erano stati i draghi meccanici: quei prodigi di ingegneria e alchimia
avevano
affascinato il ragazzo e l’avevano lasciato senza fiato; da
allora volle
scoprirne tutti i segreti e i meccanismi, e iniziò a
trascorrere la maggior
parte del tempo a spulciare volumi enormi di ingegneria meccanica,
guadagnandosi
il nome di “secchione” e
“sfigato”, e le angherie di Adam che lo considerava
un
perdente e un idiota. Arandil ci dette poco peso e lentamente si chiuse
nel suo
mondo di carta e inchiostro, perso completamente nella contemplazione
di quelle
meraviglie di acciaio. Pian piano l’attrazione per le
creature di metallo e
tubature spinse l’elfo nella direzione di quelle in carne ed
ossa, molto più
incredibili e affascinanti; iniziò a procurarsi e a divorare
libri sui draghi,
imparò tutto su di loro, conosceva a menadito ogni razza, il
suo habitat, le
sue dimensioni, il suo aspetto, la sua dieta e persino il periodo di
accoppiamento; aveva tappezzato il cubicolo che gli avevano assegnato
come stanza
di disegni e riproduzioni di draghi, a volte copiate dai libri, altre
partorite
dalla sua fantasia…era così che aveva preso forma
Krupfer, diventato un
assemblaggio di tutte le informazioni e i progetti che aveva accumulato
nel
corso degli anni.
Ma
il periodo della
scuola non era stato per nulla idilliaco: era stato costantemente
vittima di
vessazioni e prese in giro perché era gracile ed impacciato,
di aspetto
femmineo e dalle movenze misurate e aggraziate, come quelle di una
ragazza; più
volte l’avevano accusato di essere omossessuale o
l’avevano scambiato, volontariamente
o per sbaglio, per una femmina. Inoltre non era mai stato abile con le
armi,
come gli altri ragazzini e nelle prove risultava sempre ultimo: veniva
considerato un ritardato e un incapace, tanto dai suoi compagni quanto
dai suoi
insegnanti; veniva caricato di lavoro supplementare, sgridato,
motteggiato e
umiliato. I turni di guardia più scomodi e negli orari
più assurdi venivano
affibbiati a lui, nella convinzione che l’avrebbero aiutato a
migliorare a
farlo diventare un vero uomo. Non era riuscito a instaurare un rapporto
di
amicizia con nessuno, nessuno condivideva i suoi interessi, e spesso
era
rimasto da solo ed escluso, maltrattato da chiunque e senza nessuno a
cui
appoggiarsi o presso cui trovare un po’ di compagnia e
conforto; lentamente si
era abituato a quella situazione e aveva trovato sostegno nei libri,
chiudendosi ancora più in sé stesso ed
allontanandosi volontariamente dagli
altri e dalla loro compagnia chiassosa e arrogante.
Adam
era sempre
stato il peggiore di tutti: lo aveva torturato in tutti i modi
possibili e
ancora in quei giorni non perdeva occasione per pavoneggiarsi ed
evidenziare
quanto fosse meglio di lui in tutto, abile con qualsiasi tipo di arma,
forte,
intelligente, astuto, coraggioso, affascinante, ligio al suo dovere,
uomo
d’onore e di parola, un Dragoron perfetto e inappuntabile,
che nessuno sarebbe
mai riuscito a eguagliare, tantomeno una nullità come
Arandil.
L’elfo
detestava
profondamente quell’umano e covava il desiderio, nel profondo
del cuore, di
ficcargli una delle sue frecce su per gli sfinteri, di modo che la
smettesse di
fare tanto il gradasso con uno strale piantato nel didietro; ma il
codice
d’onore gli impediva di arrecare qualsiasi danno, di
qualunque tipo, ai
Dragoron investiti di tale carica, che avevano ricevuto la propria
cavalcatura
ed erano diventati cavalieri a tutti gli effetti.
Il
giorno
dell’Investitura era quello che ricordava con più
gioia: era stato quando aveva
ricevuto Krupfer, brillante e maestoso nella luce smagliante del primo
pomeriggio di quella calda giornata di primavera, quando tutti gli
alunni che
avevano completato il percorso di addestramento erano stati intabarrati
in
armature di cuoio bollito e rinchiusi in elmi che si erano, ben presto,
trasformati in forni bollenti, facendoli sudare e sbuffare
copiosamente.
Allineati in quello stesso cortile, come un corpo di fanteria
dell’esercito, a
uno a uno erano stati chiamati per prestare giuramento e ricevere il
proprio
drago assieme al Sigillo che li avrebbe legati indissolubilmente ad
esso, fino
a quando morte non li avesse separati.
Arandil
sfiorò la
nuca, dove era stato impresso il suo Sigillo, lo stesso che brillava
sulla
fronte di Krupfer: la runa Aran, che costituiva l’iniziale
del suo nome, e
nella sua lingua significava “splendente, eccelso”;
quella runa era stato il
frutto di un processo lungo e complicato, in quanto, avrebbe
rappresentato il
legame tra drago e cavaliere. Quel simbolo aveva imbrigliato parte
della
volontà di Arandil sigillandola nel drago, di modo che
rispondesse solo a lui e
che una volta che il suo padrone si fosse dissolto, il drago si sarebbe
smembrato e non sarebbe stato utilizzabile da nessun altro.
Le
sensazioni che
aveva provato durante quel rituale erano state contrastanti e difficili
da
spiegare, tanto erano parse surreali e inusuali: la percezione di
sentire una
parte della propria coscienza separarsi, diventare estranea eppure
ancora
collegata a lui e percepire, in una sorta di coma, che veniva
imprigionata e
stretta in quel contenitore, in quel sigillo, spettatore e attore
dell’intera
procedura con una parte di lui che osservava ciò che
l’altra parte sentiva e
percepiva. Una sensazione simile gli era capitata la sera prima, quando
per
festeggiare la fine di quel calvario, aveva accettato di festeggiare
con i suoi
compagni di corso e si era sottoposto al loro malsano esperimento:
volevano
testare la provvidenziale resistenza degli elfi, che si diceva
reggessero molto
bene all’alcol e non bastassero quattro barilotti di rum a
farli ubriacare.
Arandil ne aveva trangugiato al massimo uno e già percepiva
come la testa
scollegata dal resto del corpo e quest’ultimo che si muoveva
con un leggero
ritardo rispetto al comando mentale, era stata una sensazione
stranissima,
estraniante ed estremamente spiacevole: era come muovere il proprio
corpo e
vederlo muovere contemporaneamente, assolutamente da non ripetere.
Da
allora, bastava
un pensiero indirizzato al drago perché questo eseguisse
esattamente la sua
richiesta: sussurrava “fuoco” nella mente e il
drago sbuffava, spandendo dai
tubicini il suo fumo velenifero e altamente infiammabile.
Poi
c’era stato il
giorno in cui aveva ricevuto il suo primo incarico: si aspettava
qualcosa di
più formale e solenne, ma il generale Xendar
l’aveva convocato nel suo ufficio
tetro e angosciante, comunicandogli brevemente quale sarebbe stato il
suo
compito, in maniera succinta e pratica, senza fronzoli o qualsiasi
altro
orpello Arandil si era immaginato. Era stato piuttosto deprimente e
deludente.
Successivamente
le
sue missioni gli erano state affidate direttamente mediante una
missiva, mentre
si trovava impegnato a svolgere un altro incarico o appena tornava nel
suo
desolante appartamento perciò trovava alquanto sospetto e
preoccupante venire
convocato dal Xendar e soprattutto dal Capitolo per un colloquio faccia
a
faccia, la questione doveva essere estremamente delicata e pericolosa e
Arandil
non attendeva altro.