Sulla Londra di quella sera si era alzato un
freddo vento di inizio febbraio. Le brevi e frequenti folate sferzavano il
volto, i capelli e gli abiti dei due presenti, ancora uno di fronte all’altro,
separati solo da pochi metri di pavimentazione.
Nathan era impietrito, sovrastato dal dubbio che
le ultime parole pronunciate da Sherlock avevano istillato in lui. Si rifiutava
di credere che il detective avesse capito il suo piano al punto di sapere
perfettamente a cosa stava andando incontro. Lo aveva studiato talmente bene,
lavorando con cura per poter rimanere nascosto pur operando alla luce del sole
in un modo che neanche il famigerato Sherlock Holmes avrebbe potuto immaginare.
Era certo che stesse bleffando.
Tornò a tendere i muscoli per la rabbia, improvvisamente
stancatosi di quella loro conversazione. Il detective lo aveva fatto ugualmente
parlare nonostante lui si fosse ripromesso di non farlo. Tuttavia gli importò
poco dal momento che non gli avrebbe fatto lasciare quel tetto vivo.
«Poco mi importa» disse infine Nathan, scandendo
con rabbia quelle parola. «Mi sono stancato di parlare con te.»
Detto ciò passò immediatamente all’azione. Si
avventò su Sherlock, la lama del pugnale tesa davanti a sé. Il detective riuscì
a schivare il primo affondo solo per un soffio, facendo affidamento sui suoi
riflessi.
I due ingaggiarono subito un corpo a corpo.
Nonostante Sherlock fosse piuttosto efficace nei combattimenti ravvicinati e a
mani nude, dovette ammettere a se stesso che anche Nathan ci sapeva fare. Il
giovane era scattante, riusciva a schivare con cura ogni pugno, colpo o affondo
a cui era soggetto. Anche il detective non era da meno, sebbene dovesse fare
particolare attenzione alla lama del pugnale. La sentì un paio di volte
fischiare vicino al suo orecchio, mentre si rendeva sempre più conto di essere
in leggero vantaggio sull’altro. Il ragazzo, infatti, stava indietreggiando
verso il cornicione per poter parare i nuovi colpi sferrati da Sherlock.
Forse sentendosi alle strette Nathan riuscì a
rimontare sull’uomo. Gli assestò un paio di mosse decise, che Sherlock riuscì a
parare con il braccio, tuttavia, d’improvviso, l’altro cambiò obiettivo,
puntando il coltello al ventre del detective. Quest’ultimo fece a malapena in
tempo a schivare il fendente; si spostò verso destra in fretta, ruotando il
busto, ma sentì ugualmente la lama conficcarsi nella sua carne. Non andò in
profondità, ma percepì perfettamente il freddo metallo lacerare la pelle,
tagliando i vasi sanguigni più superficiali.
L’improvvisa ferita gli fece perdere la
concentrazione nei secondi sufficienti a Nathan per consentirgli di far perdere
l’equilibrio a Sherlock, portando quest’ultimo a rovinare a terra.
Il detective si puntellò sui gomiti, portando
una mano i corrispondenza del sangue che stava sgorgando dal suo fianco e
alzando lo sguardo per valutare la mossa successiva del suo rivale.
Nathan era esattamente sopra di lui, ora.
Sherlock continuava a tenere premuta la ferita al fianco, benché questa
sanguinasse poco. Sapeva di dover fare qualcosa in fretta e la sua mente
cominciò subito a contare le alternative possibili. Tuttavia non c’era più
tempo. La lama del pugnale si era sollevata alta sopra la testa del suo
aggressore, scintillante anche alla luce artificiale laddove il sangue non ne
increspava la superficie.
Sherlock guardò Nathan, ormai certo di non avere
più via di scampo, mentre la divertita, folle, luce negli occhi dell’altro
quasi gli impediva di poterli guardare.
Quando si preparò alla fine, però, il colpò
tardò. Un suono sordo si sollevò nell’aria: uno sparo. Il detective non sentì
alcun dolore e comprese che il colpo non era stato diretto verso di lui.
Istintivamente guardò meglio il corpo del ragazzo. Quest’ultimo aveva cambiato
espressione; sul suo volto non c’era più il desiderio di uccidere, ma una
smorfia di dolore. Sherlock seguì lo sguardo dell’altro che si abbassava lungo
il suo braccio destro, mantenendo salda la presa intorno al pugnale solo per
inerzia. Una macchia rossa scura cominciò a farsi strada fra sterno e clavicola,
allargandosi rapidamente.
Fu in quel preciso istante che Sherlock reagì.
Piegò la gamba fino a farla aderire al proprio petto, caricandola come fosse stata
una molla; poi, dopo avere appoggiato il piede nel centro esatto dell’addome di
Nathan, spinse per toglierselo di dosso.
Il corpo del giovane venne respinto indietro,
Sherlock cercò di alzarsi, rimase in ginocchio a guardare l’altro, guardarlo
mentre indietreggiava di un passo di troppo, fino al cornicione che delimitava
la fine del tetto dell’edificio. Inciampandovi contro il ragazzo perse
l’equilibrio e cadde all’indietro senza neanche gridare, lasciando che fosse il
suono ottuso del proprio corpo, tre piani più in basso, a far intendere cos’era
appena accaduto.
Sherlock continuava a fissare incredulo il punto
in cui Nathan era appena precipitato, il vento che gli sferzava i capelli, i
rumori della colluttazione di poco prima ancora nelle orecchie.
Questo non lo aveva previsto. Nemmeno Nathan
l’aveva previsto.
Che l’esito del loro incontro fosse stato
inaspettato per quest’ultimo, Sherlock lo aveva capito. Aveva visto il suo
sguardo nei secondi finali prima di volare oltre, di sotto. Aveva notato
l’incredulità, la sorpresa, lo shock che si poteva provare constatando che
qualcosa era appena andato nel modo sbagliato, nel modo in cui non ci si era aspettati.
Nathan non aveva previsto la sua morte, non l’aveva calcolata neanche nelle
possibilità, eppure era avvenuta nelle circostanze più probabili: un colpo
inatteso, una reazione, la fine.
L’uomo si alzò finalmente in piedi, ricostruì
mentalmente quella che era stata la traiettoria dello sparo che gli aveva
salvato la vita e fu infinitamente grato a John Watson per essere stato tanto
veloce.
Quando si voltò verso l’amico lo vide nel punto
esatto in cui sapeva lo avrebbe trovato, gli occhi fissi su di lui, la pistola
abbandonata su un fianco, il fiato corto. Accanto all’amico c’era Emily,
bagnata fradicia quanto il medico, tremante, sconvolta, ma illesa. L’acqua che
le aveva bagnato i capelli aveva striato di rosso il suo volto, come Sherlock
aveva già visto accadere più volte.
No. Non quella volta. L’acqua aveva, sì,
dilavato i suoi capelli, ma non era solo quello il rosso presente sul suo viso.
C’erano parti più scure, di rosso cupo, che lentamente rilasciava il suo colore
più intenso e brillante rispetto alla tinta ciliegia dei capelli della ragazza.
Quello era sangue, incrostato all’altezza della tempia, dove certamente Emily
era stata colpita quella mattina al momento del suo rapimento.
Sherlock corse verso gli amici, il cappotto che ondeggiava
al vento come il mantello di un supereroe. Quando raggiunse Emily le posò
entrambe le mani sulle spalle, ma non appena lei sentì il suo tocco su di sé,
caldo e rassicurante, si inginocchiò sul pavimento, coprendosi il volto con le
mani.
«Mi dispiace» prese a dire, la voce rotta. Era sconvolta
e sull’orlo delle lacrime. «Mi dispiace così tanto.»
Sherlock si inginocchiò di fronte a lei. Sapeva
che la ragazza si sentiva responsabile della loro presenza lì. Sapeva che era
convinta che se Nathan non l’avesse rapita, se lei non si fossa fatta ingannare
dal ragazzo, lui non avrebbe rischiato di morire, così come anche John non
avrebbe corso alcun rischio. Tuttavia quello che Sherlock sapeva con assoluta
certezza era che, indipendentemente da ciò che Emily avrebbe potuto fare, Nathan
avrebbe ugualmente trovato il modo di portarli tutti in quell’edificio.
L’uomo le prese il volto fra le mani,
avvicinandosi di più alla ragazza. «Ehi» cercò di farle forza. «Guardami, Emi, guardami.»
La costrinse a guardarlo negli occhi. La ragazza
era fragile, gli occhi azzurri pieni di lacrime, qualche leggera riga di rosso
ancora visibile sul volto.
Sherlock abbassò il tono della voce: «Non è
stata colpa tua, ok? Non è stata colpa tua» scandì accuratamente.
Lei rimase a osservarlo, senza dire nulla.
L’uomo le sorrise e con lo stesso tono di pochi
istanti prima continuò: «E sono grato che tu sia salva.»
Emily si sentì cedere a quelle poche parole.
Sorrise di rimando all’amico, ma poi non fu più in grado di mantenere
l’autocontrollo. Le lacrime cominciarono a sgorgare, la voce le si ruppe e lei
si lasciò andare al pianto, stringendosi al petto di Sherlock. Lui ebbe un
attimo di esitazione ma si ricompose in fretta. Si sfilò il cappotto e lo
avvolse intorno alle spalle della ragazza, ancora zuppa di acqua, dopodiché,
una mano sulla sua nuca, la lasciò libera di sfogarsi.
Era andato tutto per il meglio; sia lui che Emily
erano salvi e non aveva dubbi su chi fosse il responsabile di un tale successo.
Sollevò lo sguardo alla sua sinistra, quel tanto che bastava per incrociare gli
occhi del suo amico più fidato. John era immobile accanto a loro, intento a
guardarli. Rispose immediatamente all’occhiata del detective, lasciandosi
sfuggire un sorriso di sollievo, che si allargò via via a tutto il suo volto.
Guardandolo, Sherlock non poté fare a meno di replicare alla stessa maniera.
*
Era un continuo baluginare di luce blu quello
che stava illuminando la struttura della piscina e i palazzi confinanti con
essa. I lampeggianti delle volanti della polizia e le due ambulanze quasi
illuminavano a giorno il cortile.
Sherlock aveva già avuto modo di parlare con
Lestrade, di raccontargli quello che era successo e l'identità dell'assassino
del giudice Walker e di Horvat.
Nathan West, quello era il cognome esatto del
ragazzo, il cognome della madre. Lestrade aveva detto al detective che Scotland
Yard lo stava tenendo sotto osservazione da diversi anni, più o meno da quando
avevano cominciato a sospettare che, nonostante l'età, il ragazzo fosse
invischiato in traffici illeciti di droga e riciclaggio di soldi sporchi.
Tuttavia era sempre riuscito a farla franca, forse anche grazie al fatto che
nella Londra di tutti i giorni aveva davvero pochi contatti e, di conseguenza,
poche persone in grado di complicare i suoi alibi.
L'ispettore aveva poi concluso dicendo a
Sherlock che la sua morte sarebbe passata come un incidente – come poi sembrava
essere – dal momento che i primi rilievi della scientifica avevano informato
che il colpo sparato da John non era stata la causa della sua morte. Nathan era
morto in seguito alla caduta dal tetto dell'edificio.
Dopo aver parlato con Sherlock Lestrade si era
fermato da Emily, alla quale stava chiedendo tutta l'evoluzione del suo
rapporto con il killer. Consapevole di dover trattare con una persona in
evidente stato di shock, l'ispettore si era accuratamente preparato. Aveva
fatto in modo che venisse recapitato a Emily un tè caldo, nella speranza di
calmarle i nervi. La bevanda aveva sortito un effetto ridotto, ma stava
comunque funzionando. Dopo un primo momento di impossibilità, più per la paura
ancora radicata in sé che per altro, la ragazza era riuscita ad aprire bocca,
cominciando a rispondere alle domande incalzanti ma calibrate che Lestrade le
stava sottoponendo con tutta la delicatezza di cui era capace. Mano a mano che
raccontava come si erano svolte le cose all'ispettore, senza omettere alcunché,
dichiarando di aver creduto a ogni parola che usciva dalle labbra di Nathan –
per lei Richard – la ragazza si sentiva sempre più stupida. Pensare a quanto
aveva permesso che le venisse fatto, che accadesse, al coinvolgimento di
Sherlock e John che aveva consentito. Tutto la faceva sentire inadatta,
soprattutto per una che aveva sempre sostenuto di essere in grado di capire con
chi aveva a che fare. Dovette farsi forza per non scoppiare in lacrime davanti
a Lestrade mentre lui, ogni volta che si rendeva conto di come lei fosse vicina
al limite, le dava tutto il tempo di cui aveva bisogno, aspettando che
riprendesse parola.
Distante da loro, ma nella perfetta linea d'aria
dell'ispettore e della coinquilina, Sherlock era seduto su un muretto, intento
a osservare i due. Guardava con attenzione Emily, avvolta nella coperta
arancione fornitale dall'autoambulanza, il bicchiere di carta contenente la
bevanda calda fra le mani. Sembrava ancora più piccola di quanto fosse e
fragile come Sherlock non l'aveva mai vista.
Si sentiva strano. Avrebbe tanto voluto che lei
non avesse dovuto vivere niente di quello che le era appena accaduto; non lo
meritava.
Qualcuno si fermò alla sua destra. Sollevando lo
sguardo ebbe modo di notare John, anche lui avvolto nella coperta arancione,
che teneva però aperta come fosse un mantello.
I due si guardarono senza dire nulla, infine
Sherlock tornò a rivolgere la sua attenzione sulle figure di Emily e Lestrade.
«Il figlio di Darrell Scott, quindi?» prese
parola John.
«Già» rispose il detective, dopodiché, senza
aspettare altre domande, raccontò tutto a John. Gli disse ogni cosa avvenuta
sul tetto dell’edificio solo poche ore prima, ogni parola che lui e il killer
si erano scambiati. Gli descrisse le
indagini che aveva iniziato a svolgere, di come non avesse mai accantonato a
possibilità che qualcuno vicino a Scott fosse coinvolto in tutti quegli
avvenimenti. Raccontò al medico di come aveva voluto accertarsi di chi fosse
Richard nel momento in cui Emily gli aveva parlato di lui e di come aveva
capito, anche grazie alla sua rete di senzatetto, che Scott aveva un figlio e
che lui era il responsabile degli omicidi.
Non riuscì, però, a dirgli che gli era servito
tempo ulteriore per collegare i due ragazzi che lui credeva essere due persone
distinte quando invece non lo erano affatto.
«Perciò tu sapevi che lui e Richard erano la
stessa persona?»
Sherlock sospirò di fronte a quella
domanda.
«No» ammise. Quella sillaba parve rimbombare a
lungo nell'aria. «Tenevo d'occhio Emily perché trovavo sospetto quello che le
stava succedendo. Non chiedermi perché, non lo so con esattezza, me lo sentivo
e basta. Sapevo che l’assassino che stavamo cercando era il figlio di Scott, ma
ho capito che si trattava anche di Richard solo questo pomeriggio, quando era
già troppo tardi. Ho collegato tutti gli avvenimenti tardi» concluse,
abbassando la voce sul finire della frase.
«Ma tu avevi detto di "avere un sospetto",
così hai detto, quindi dovevi averlo capito. Quando Sherlock Holmes ha un
sospetto è sempre quello esatto» insistette il medico.
«Io avevo intrappolato il figlio di Scott, era a
lui che puntavo. Non ho litigato con Emily perché lei lo dicesse a Richard,
l'ho fatto perché volevo convincere Nathan che era riuscito a destabilizzarmi
psicologicamente.»
Sospirò a quel pensiero, sentendosi nuovamente
strano. Era dispiaciuto. Davvero era quello il sentimento che stava provando al
pensiero di cosa era accaduto a Emily perché lui non aveva fatto il
collegamento corretto in tempo? Odiava quella sensazione, lo faceva sentire
oppresso.
John notò la frustrazione nella voce di
Sherlock, una nota leggera ma pur sempre presente. Il detective aveva
individuato l’assassino anche quella volta, eppure sapeva che la sua non era
stata una vittoria degna di quel nome. Con molta probabilità ciò era legato a
Emily. Il medico capì che Sherlock non sentiva di aver vinto proprio perché la
sua coinquilina era stata tanto dolorosamente coinvolta in quella storia. John
sapeva che il cruccio del suo amico, in quel momento, era legato al fatto che
se lui avesse capito prima che il vero pericolo era Richard, e lui soltanto,
avrebbe potuto impedire una simile sofferenza a una ragazza totalmente
innocente e tanto sensibile quale era Emily.
John abbassò lo sguardo su Sherlock, ancora immobile
a osservare la coinquilina. Sorrise leggermente rendendosi conto che il suo
migliore amico, notoriamente un uomo distaccato, cominciava a non esserlo più
così tanto.
Dopo lunghi minuti di silenzio, in cui ciascuno
dei due presenti ebbe modo di far lavorare il cervello per conto proprio,
Sherlock riprese parola: «Come sta?» chiese al medico, indicando con un cenno
del capo in direzione della ragazza.
«L’hai vista anche tu, tutto sommato è illesa»
rispose calmo l’altro, consapevole che la ferita alla testa di Emily non era
niente di veramente grave.
A quell’affermazione seguì un nuovo silenzio,
che durò solo pochi secondi.
«No, voglio dire… come… come sta?»
John si voltò verso Sherlock, senza capire a
cosa si stesse riferendo. Fece vagare confuso lo sguardo dal suo amico alla sua
coinquilina, intuendo solo in quel momento a cosa si stava riferendo.
«Oh» esclamò. «È un po’ sotto shock, ma è normale. Starà
benone, vedrai.»
I due si guardarono intorno, a metà fra
l’imbarazzo e il nervosismo. Era un clima curioso quello che si respirava fra
di loro, uno di quei momenti in grado di far sentire le persone impreparate.
Fu nuovamente Sherlock a spezzare l’atmosfera: «Come
ci riesci, John?» domandò.
Non stava guardando il medico, avevano
nuovamente posato lo sguardo davanti a sé, fisso.
«A fare cosa?» chiese in risposta
l’interpellato, non capendo quale fosse l’argomento.
«A convivere con questo ammasso caotico e privo
di senso dentro di te. Come fai a resistere alla tentazione di metterlo a
tacere per sempre, pur di non sentirti uno stupido?»
Nuovamente il medico impiegò un po’ per intuire
perfettamente di cosa stava parlando l’amico. Ci riuscì dopo aver dato una
lunga occhiata a Sherlock, che sembrava essersi irrigidito più del necessario.
Era infastidito da qualcosa e c’era una sola cosa in grado di urtare a tal
punto il detective. «Parli dei sentimenti?»
«Sì, quelli» replicò con fare scocciato.
John si ritrovò a ridere leggermente,
curiosamente divertito dalla piega che stavano prendendo gli avvenimenti. «Imparerai.
Tutti li abbiamo e tutti impariamo a conviverci» rivelò.
«Stronzate. Stavo molto meglio prima.»
Nuovamente il medico si lasciò sfuggire un
sorriso. «Non ne sarei così sicuro. I sentimenti non sono male se accetti di
provarli, prima o poi ti dovrai arrendere a questa idea.»
«Mai» esclamò Sherlock, categorico.
«Eppure eccoti qui, a provarli» riprese con
calma l’altro. Il detective sollevò lo sguardo, puntandolo sull’amico.
«Ti è capitato, Sherlock. Hai incontrato persone
che sono riuscite a toccarti più di altre. Succede così di solito. Conosci
amici, colleghi, qualcuno che per un motivo o per l’altro fa scattare qualcosa
di diverso in te. Può essere un coinquilino, la donna giusta, o la studentessa
che vuole scrivere la tesi sul più improbabile degli eroi» a quelle parole entrambi
guardarono Emily. «Ed è così che si finisce con il provare sentimenti.»
Sherlock non replicò, limitandosi a un sonoro
verso di stizza.
«Ma stai tranquillo» lo rassicurò il medico. «Il
fatto che tu abbia appurato di avere un cuore non significa che non continuerai
a essere lo stronzetto arrogante, saccente e dall’ego smisurato che eri il
giorno in cui ti ho incontrato la prima volta.»
Un leggero sorriso increspò le labbra di
Sherlock, ma si rifiutò di darlo a vedere proprio a John.
Il detective si alzò in piedi, sancendo così la
fine di quel botta e risposta. Si sistemò gli abiti e il cappotto, facendo
scivolare istintivamente la mano destra sul tessuto strappato della sua
camicia, sentendo poi la ferita che Nathan gli aveva procurato. Il sangue si
era coagulato sulla carne; il taglio non bruciava più ma faceva comunque
abbastanza male. Sapeva che sarebbe guarito nel giro di pochi giorni, come per ogni
altra ferita fisica. Guardò Emily ancora una volta, chiedendosi quanto sarebbe
servito a lei per cancellare dalla sua mente tutto quello che era successo.
I sentimenti. Fastidiosi difetti chimici. Lui
era in grado di manipolare la chimica, allora perché non riusciva a riordinare
lo snervante caos che aveva dentro e darlo in pasto alla sua gelida ragione?
Si spettinò i capelli così da poter riavere
controllo di sé. Fissò Lestrade sfiorare con delicatezza le mani di Emily,
abbassare il volto per guardarla negli occhi e sorriderle prima di allontanarsi
da lei. La ragazza rimase seduta sul retro dell'ambulanza, sola e Sherlock capì
che avrebbe dovuto fare qualcosa. Dopotutto era la sua coinquilina.
La raggiunse con passo sicuro, sotto allo sguardo
affabile di John, rimasto in disparte. Appena fu da lei le si sedette accanto,
nello spazio rimasto libero sul retro del mezzo.
Emily osservò il profilo di Sherlock, ma prima
che lui potesse rispondere al suo sguardo, lei tornò a voltarsi. Si strinse
maggiormente nella coperta, serrando anche la presa intorno al bicchiere di
carta ormai vuoto.
«Lestrade è stato gentile con te?» domandò senza
apparente motivo il detective. Forse lo fece più per stemperare l’atmosfera che
per vera curiosità.
«Sì» rispose semplicemente la ragazza.
Fra i due piombò un silenzio pesante, uno di
quelli che non avevano mai vissuto neanche nel loro periodo più teso fra le
mura del 221B di Baker Street. Sherlock si lambiccò il cervello fin da subito
nella speranza di riuscire a dire qualcosa in grado di far sentire meglio
Emily, ma tutto era per lui troppo complesso. Provò a pensare a cosa avrebbe
potuto dire John, o Mary in una situazione del genere, ma la cosa contribuì a
confonderlo ulteriormente.
«Mi sento una stupida» mormorò all’improvviso
Emily. Lo disse piano, come arrendendosi. «Avrei dovuto capirlo. C’erano gli
elementi per capirlo e non l’ho fatto. E pensare che sono sempre stata convinta
di intuire subito con chi ho che fare, forse non sono poi così brava.»
Il detective capì finalmente qual era il
problema della ragazza: il senso di inadeguatezza. Quello, misto alla
frustrazione e allo shock ancora presente in lei, la stavano facendo sentire
impotente. Una volta intuito ciò fu piuttosto semplice per lui capire in che
direzione procedere. Dopotutto sedeva accanto a una ragazza intelligente di cui
conosceva ormai bene le qualità e sapeva
che tutto poteva essere, tranne inadatta.
«Non devi sentirti in colpa. Nathan ha lavorato
bene e ha agito quando tu eri più vulnerabile. Conosceva bene la psicologia
delle persone ed era molto intelligente. Semplicemente ha saputo come
comportarsi con te per non destare alcun sospetto.»
Alle parole del detective seguì un nuovo, lungo,
silenzio. La mente di Emily tornò inevitabilmente a tutti i momenti che aveva
trascorso con Nathan, quando era convinta che si trattasse di un’altra persona
e, soprattutto, di una buona persona. Cercò di allontanare quei pensieri ma non
ci riuscì; erano lì e lì sarebbero rimasti a lungo, insieme all’ammasso di
sentimenti caotici che le vorticavano dentro ogni volta che ci ripensava,
sentimenti forti, per lo più negativi. Si disse che avrebbe superato quel
momento, ma sentendo la gola chiudersi nuovamente capì che le sarebbe servito
davvero tanto tempo per riuscirci.
«Emi, mi dispiace.»
La voce di Sherlock si sollevò leggera come una
carezza. Colse Emily impreparata e fu in grado di scacciare in un solo istante
tutti i fantasmi e i ricordi che avevano affollato la sua mente.
Si voltò immediatamente a guardarlo, convinta di
aver capito male. «Come?» chiese.
«Ho detto che mi dispiace.»
La ragazza spalancò gli occhi, sorpresa.
Sherlock rimase fermo nella sua posizione, riprendendo parola: «Tu non mi hai
mai chiesto niente in tutto questo tempo. Tuttavia l’unica volta in cui avevi
bisogno di me mi sono comportato nel peggiore dei modi. Sono stato molto, molto
più stronzo del solito e mi dispiace. Non meritavi niente di tutto questo.»
Emily si ritrovò a ripetere quelle parole nella
propria mente, sensibilmente colpita. Non era tanto il fatto che Sherlock si
fosse scusato, bensì il modo in cui si era scusato. Con quelle parole il
detective non aveva fatto altro che assumersi la responsabilità di tutto,
dichiarando che avrebbe potuto evitarlo in qualche modo. La ragazza si sentiva
terribilmente in colpa per il modo in cui si era lasciata ingannare da Nathan,
ma le scuse che Sherlock le aveva appena rivolto le permisero di intuire che
lui non la considerava responsabile. Si erano trovati di fronte a una persona
intelligente ed organizzata, qualcuno che aveva lavorato così bene da riuscire
a prevederli; nessuno poteva averne colpa.
Emily si sentì scaldata dalle parole di
Sherlock, rassicurata. Stavano facendo pace, parlando di quello per cui lei, la
sera prima, aveva aspettato invano il detective. Per quanto assurdo potesse
apparire, quella spaventosa avventura stava diventando il modo per rafforzare
un legame allentato.
I limpidi occhi celesti di Sherlock continuavano
a guardare la ragazza, mentre quest'ultima ritrovava parte della sua sicurezza.
Avrebbe dovuto farsi forza, molta forza, per riuscire a superare quello che le
era accaduto, tuttavia capì che non avrebbe dovuto farlo da sola e,
soprattutto, che aveva accanto qualcuno che non l'avrebbe abbandonata.
Davanti a quella consapevolezza, Emily non poté
fare a meno di sorridere.
«Grazie Sherlock. Mi hai salvato la vita» gli
disse poi.
«Tecnicamente è stato John» le fece notare l’uomo.
Lei si strinse nelle spalle. «Ho già ringraziato
John per quello che ha fatto. Più volte. Però, francamente, credo sia stato tu
a capire di dover venire fin qui. Voglio bene a John, ma non si può negare che
impieghi qualche minuto in più a capire questo genere di cose» concluse, con
dolcezza.
«Sono d’accordo.»
«Poi, un giorno, mi spiegherai come hai fatto a
capire chi c'era dietro a tutto questo e di come sei riuscito a scoprire così
tante cose sul suo conto» proseguì la ragazza, ripensando appena a tutta quella
storia. «Mi servono per la tesi. E poi sono curiosa» aggiunse, davanti
all'occhiata di Sherlock.
«Per la tesi» ripeté lui. «Sì, qui c'è del materiale
che può esserti utile.»
«Lestrade mi ha già detto un po' di cose. Quelle
importanti, per lo più» rivelò Emily.
Il detective fissò torvo in direzione
dell'ispettore, concentrato a raccogliere la testimonianza di John.
«Beh, Greg non sa tutto. Io invece sì.»
La ragazza guardò Sherlock sorpresa. «Lo hai
chiamato Greg» esclamò.
«E allora? Si chiama così» replicò in tono ovvio
l'altro.
«Sì, esatto. Te ne sei ricordato.»
Sherlock si alzò, cercando accuratamente di non
mostrare il sorriso divertito che gli aveva arricciato le labbra. «So che si
chiama Greg, per chi mi hai preso? Però tu evita di dirglielo.»
Emily rise, portandosi una ciocca di capelli
rossi dietro l'orecchio. Per il detective quello fu un segnale. La ragazza
stava meglio, lo shock era passato e il suo innato buonumore era pronto a fare
ritorno da lei. Si sentì rincuorato dalla cosa, ma non lo diede a vedere. Ora
che tutto era finito voleva solo tornare a casa, suonare il suo violino, fare
due chiacchiere con John, magari davanti a un tè e archiviare il caso in uno
dei punti più sicuri della sua mente, portando Emily con sé.