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Autore: Luana89    12/06/2017    2 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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ACT X

 
Qualsiasi piano provassi ad escogitare perdeva immediatamente consistenza ai miei occhi. Chiamare Sergej era una tacita ammissione di colpevolezza, così come il non chiamarlo. Mentre osservavo il telefono posto sopra il comodino le mie iridi sembravano voler schizzare fuori dalle orbite; tutti erano adesso potenziali nemici, così come per Misha la mia punizione sarebbe arrivata come il rintocco preciso delle campane la domenica, il problema era capire quale mano l’avrebbe compiuta.
Tutto stava improvvisamente prendendo forma, e per ironia al tempo stesso sembrava perdere consistenza come se le mie mani non riuscissero più ad afferrare le briglie immaginarie della mia vita. Mi trovavo ad un bivio, quello che sapevo prima o poi mi sarei trovato a varcare, non appena i miei occhi e le mie sporche mani avevano afferrato qualcosa di inarrivabile come Sophia, il destino era stato tracciato. Passai una mano sul viso, il buio della camera non mi permetteva di vedere null’altro se non forme astratte di ciò che essa conteneva, un po’ come la mia mente in quel momento. Dovevo scegliere da che parte andare, e dovevo farlo in fretta. ‘’Tik tok Aleksandr’’ sentivo la voce baritonale di mio padre e il suo sguardo carico di pietà.
«Ti senti male?» Sophia entrò in quel momento, i suoi gesti cauti mi fecero capire che iniziavo a fingere male. La mia corazza scricchiolava.
«No, vieni qui». Le sorrisi apparentemente calmo, dopo l’annuncio fatto il giorno prima sembrava aver vissuto in una nuvoletta rosa sospesa a mezz’aria, a suo parere tutti i problemi erano finiti con l’ufficializzazione della nostra relazione.
«Oggi non sei andato a lavoro, Misha mi ha chiesto di te in agenzia» mi si sedette in grembo. A mio parere i problemi erano appena iniziati.
«Sonech’ka..» mi interruppi all’improvviso, la mia bocca era impastata.
«Che c’è?». Mi fissò sorridente accarezzandomi i capelli.
«Mi perdoneresti qualsiasi cosa?». Vidi i suoi occhi, il seme del dubbio per un attimo vi si insinuò.
«Ti perdonerei qualsiasi cosa». Mi baciò teneramente e sentii la presa delle mie mani sui suoi fianchi divenire più debole. Sostavo ancora a quel bivio, sapevo già quale strada prendere ma non ero ancora pronto. Mi avrebbe capito nella sua infinita ignoranza? Avrebbe saputo comprendere ciò che non le era mai stato mostrato?
 
***
 
 
«Mi ha cercato qualcuno?». Ero tornato in ufficio adducendo la scusa di un improbabile raffreddore per giustificare la mia assenza.
«No nessuno, a parte Ivor» Anastasia mi fissò interrogativamente, era sempre stata dalla mia parte dovevo aggiungere anche lei alla lista?
«Ti ha detto cosa voleva?». Scosse il capo in cenno di diniego, voleva solo lo richiamassi il prima possibile. Ivor era un altro dei ‘’ragazzi’’, lavorava per Sergej e la bratva da anni, era lui la mano scelta? Mi sedetti alla scrivania afferrando la cornetta, composi veloce il numero aspettando di sentire la sua voce familiare:
 
– Pronto?
– Ivor, sono Shùra.
– Porca troia dove stavi, ti cerco da ieri.
– Lo so, sono stato poco bene. Che succede?
– Succede che Kolia in sole ventiquattro ore ha fatto un casino.
– Ovvero?
– Ovvero mandare a monte l’affare con Smith, il tipo non vuole pagare il prezzo pattuito.
– Okay, quindi?
– Quindi dobbiamo fargli cambiare idea. Ha detto che vuole il 70% dei guadagni netti.
– E’ folle.
– Lo so. Sergej vuole che te ne occupi tu. Andremo mercoledì notte.
– Va bene.
 
Chiusi la chiamata fissando il telefono senza vederlo. Il fatto che Sergej volesse me per il lavoro non sapevo bene se fosse positivo o negativo vista la situazione. Lo conoscevo troppo bene, giocare al gatto col topo era qualcosa che gli riusciva magnificamente. Prostrarti mentalmente, giocare con le paure. Saperlo mi avvantaggiava, non sarei rimasto fermo immobile a farmi corrodere dai dubbi. Attendevo al varco l’ennesimo destino che avevo disegnato io stesso per me.
La porta si spalancò pochi istanti dopo, osservai Misha entrare come fosse il proprio ufficio e decisi di tacergli ogni cosa. Tenerlo fuori era vitale in quel momento, perché se fossi venuto a mancare io solo lui avrebbe potuto risolvere la situazione e fuggire. Salvare almeno lui era il minimo.
«Devi bussare, cosa cazzo non ti è chiaro?». Mi alzai sospirando stizzito.
«Me ne fotto, sono di buon umore fratello non farmi collassare i coglioni». Mi sorrise richiudendosi la porta alle spalle, sedendosi sulla sedia di fronte la scrivania. Lo imitai tornando a sedermi, fissandolo.
«Ti serve qualcosa?». Domanda inutile, a lui serviva sempre qualcosa.
«Il mio occhio si sta riprendendo, oggi ho sparato e il proiettile è finito giusto dove volevo». Sorrisi divertito di fronte il suo tono eccitato.
«Sono fiero di te. Ma risparmiami la storiella strappalacrime sui tuoi progressi per ammorbidirmi e potermi chiedere soldi». Come per Sophia, conoscevo benissimo anche lui.
«E’ stata una serata sfortunata al poker..» mi sorrise complice.
«Misha .. non avrai un centesimo». Gli sorrisi complice.
«Vai a farti fottere, si?». Sbuffò grattandosi spazientito la guancia liscia e rasata.
«Mercoledì notte vieni con me e Igor, a quanto pare Smith vuole il 70% dei profitti per la vendita di droga». La sua risata seguì la mia. Un attimo di silenzio e la sua espressione cambiò.
«Irina risponde freddamente ai miei messaggi, credo ce l’abbia con me per la sparizione improvvisa..». I suoi occhi affranti misero un peso sul mio petto.
«Falle un regalo e comprale del cibo, ti perdonerà». Ci guardammo seri per un istante, lo vidi annuire nonostante sembrasse poco fiducioso.
«Sophia ha detto che sei strano, è successo qualcosa?». Mi irrigidii negando poi con un cenno del capo.
«Non è successo nulla, sono solo stanco Misha. Piuttosto come vanno i progressi con Nadja?». Sorrisi beffardo cambiando argomento in maniera tattica, dalla sua espressione era ovvio stessi toccando un tasto dolente.
«Shùra, quella donna mi rende irrequieto. Prima mi fa impennare il cazzo e poi mi manda in bianco, ha senso?». Mi grattai la tempia cercando di non ridere.
«Ha abbastanza senso se il suo piano è farti ammattire, visto  come ci sta riuscendo .. ma ti piace sul serio?». Lo guardai interrogativamente, non riuscivo a comprendere come potesse piacergli una Nadja dopo una vita passata ad amare Sophia.
«Non lo so, non so se piace a me o al mio pene, appena capisco ti dico». Scosse il capo mandandolo mentalmente a cagare.
 

 
 

Mikhail POV

 
L’orso che Irina teneva tra le braccia era alto quasi quanto lei, le sue piccole mani faticavano a stringerlo mentre camminava felice accanto a me. Alla fine quel bastardo machiavellico di Shùra aveva avuto ancora una volta ragione. Le avevo offerto un gelato e regalato quel pupazzo immenso, il suo broncio era sparito mentre mi fissava con quelle iridi luccicanti e identiche alle mie. Era il sogno di tutta una vita, fin da quando nostro padre ci aveva separati, ero stato ossessionato dal pensiero di non poter fare cose simili insieme a lei. Adesso potevo ma non era ancora il momento di dirle chi ero. Indagando con Shùra scoprii che quel pezzo di merda alla quale l’aveva venduta non sembrava averla tratta coi guanti di velluto, aveva sicuramente mollato l’università per colpa di quel ratto. La mia vendetta sarebbe arrivata inesorabile anche su di lui.
«Sei stato gentile..» mi sorrise e il mio mondo prese colore.
«Dovevo farmi perdonare in qualche modo». Ad occhi indiscreti i miei atteggiamenti potevano essere scambiati per quelli di un innamorato, eppure nei suoi occhi non leggevo malizia né equivoci di sorta. Era strano. Non mi riconosceva eppure si fidava, che fosse il sangue a parlare al posto della ragione senza che se ne rendesse conto?
«Sei amico del presidente Belov?». Aggrottai la fronte ridendo.
«No, siamo..fratelli». Abbassò il capo annuendo lentamente.
«Non vi somigliate molto». Si bloccò e io la imitai.
«Non scorre lo stesso sangue, siamo semplicemente stati adottati dallo stesso uomo. Aleksandr è una persona a cui devo molto..» di fronte a lui non avrei detto quelle cose neppure sotto tortura.
«E’ fortunato ad averti». Era seria? Solitamente avevo sempre pensato il contrario.
«Verissimo». Ci guardammo scoppiando a ridere. Fu una bella serata.
 
La mia bella serata venne guastata dall’apparizione di Nadja ferma sulla soglia di casa mia. Mi bloccai con le chiavi ancora in mano per poi proseguire e superarla.
«Non sono in vena di giochetti, ciarlatana». Non la guardai aprendo la porta, la sentii entrare e richiuderla.
«Mi dispiace». La sua voce solitamente austera sembrò improvvisamente insicura.
«Per cosa?». Mi voltai e finalmente i miei occhi incontrarono quel corpo che sembrava essermi entrato nel sangue.
«Per tutto. Misha la mia vita non è semplice, probabilmente al pari della tua. Ho visto tante cose nei miei trent’anni, ma soprattutto le ho vissute e ho pagato caro ogni errore». Avevo come l’impressione di star per finire in una trappola che avevo forgiato io stesso.
«Perché me lo stai dicendo?». Restai immobile lasciando che fosse lei a colmare la distanza tra noi per una volta.
«Perché mi piaci. Non era nei piani farmi piacere un coglione come te, ma è successo. Vorrei solo che mi concedessi del tempo, se è davvero me che vuoi». Mi tornò in mente la domanda di Shùra quella mattina. Perché gli avevo mentito?
«E’ te ciò che voglio, si». Dirlo a lei e me stesso era semplice, ammetterlo con altri forse un po’ meno figuriamoci con quel maledetto ‘’so tutto io’’. Ero uscito da poco da quella crisi sentimentale che portava il nome di Sophia, un abisso divideva le due donne e lo stesso abisso divideva ciò che avevo provato per una e ciò che invece provavo per l’altra.
«Dormi con me stanotte?». Annuii senza rendermene conto. Dormire senza scopare? Ero fottuto vero?
 
Il cellulare squillò ad un’ora improvvisata del mattino, osservai il nome di Shùra sul display.
«Hai offerto dell’aragosta ad Irina? Non dirmi che l’hai portata al night… le sorelle non amano questo tipo di cose». La voce di Aleksandr era spenta, vuota, sembrò provasse a ridere, ma era evidente non ci riuscisse. Non mi posi altre domande, forse avrei dovuto.
«Hai presente quei vetri oscurati, dove all'esterno non si vede nulla, ma all'interno si vede tutto?». Lo sentii sospirare.
«Sì, e quindi?»
«I vetri della macchina di Irina erano fatti in questo modo quando l’ho vista andare via. Penso che tra di noi ci sia quel tipo di meccanismo – come una cazzo di macchina di lusso, solo che nella macchina ci sono io, lei sta fuori. Io posso vedere tutto, ma lei non mi vede affatto» la mia voce divenne graffiante.
«Ne sei sicuro Misha? Dovresti farle abbassare il finestrino allora»
«Aleksandr, a volte penso che sia un bene io mi nasconda talmente tanto da non farmi vedere, ma altre volte spero che sia proprio lei a riconoscermi per prima. E’ facile dimenticarmi?» Aleksandr sospirò, e a me mancò la voce. Il groppo che avevo in gola s’ingrossò a tal punto da non riuscire a dire nemmeno una singola vocale. Chiusi gli occhi, immaginai di sparire – per l’ennesima volta.
 
– Ti ho mai dimenticato?
– Sai ancora come mi chiamo quantomeno.
– Saprò sempre come ti chiami.
 
 
 

Aleksandr POV

 
Osservai la schiena nuda di Sophia, dormiente sul mio letto, la luna illuminava la curva perfetta che spariva oltre il lenzuolo celando le natiche per la quale mi ero scoperto pazzo. Tanto per cambiare. Mi alzai vestendomi in fretta, Misha mi attendeva già sotto e Ivor probabilmente sostava nascosto in nostra attesa. Continuavo a vivere la mia vita un passo dopo l’altro, consapevole potesse essere l’ultimo sulle mie gambe. Avevo provato a non far capire nulla a Sophia, ma sapevo di non esserci riuscito. Quando chiusi la porta alle spalle non la guardai, e probabilmente fu un errore ..se l’avessi fatto avrei visto i suoi occhi spalancati fissarmi dubbiosi.
«La prossima volta vieni tranquillamente all’alba». La voce scocciata di Misha mi accolse a pochi metri dalla macchina. Gli sorrisi ambiguamente.
«Sai ho una donna focosa accanto..». Attaccai con voce maliziosa e la sua occhiata di fuoco mi fece ridere.
«Sei molto spiritoso Belov, quando tapperò coi chiodi la tua bara voglio sentirti ridere in questo modo». Salimmo in auto senza più parlare, mentre la mia auto lasciava dietro di se una nube e l’eco della mia risata. Sarebbe stata l’ultima?
 
L’appuntamento era stato fissato nel retrobottega di un nostro locale. La camera in cui andammo era totalmente in penombra, le porte cigolanti annunciarono l’arrivo di colui che appresi praticamente subito non fosse Smith. Un uomo stempiato e avanti con gli anni, ma di indiscusso spessore stando al suo modo di incedere.
«Salve». Lo vidi trasalire colto di sorpresa, i suoi occhi provarono ad abituarsi alla poca luce, mi vide pochi istanti dopo e ammetto che il suo corpo non cedette restando ritto e stoico, aveva fegato considerando il suo essere un ‘’uomo di paglia’’. Il classico fantoccio mandato come prestavolto in vece di colui che avrebbe dovuto essere lì, in modo da beccarsi le conseguenze dell’ipotetico affare sfumato. Sorrisi indicandogli una sedia vicino ad un tavolo solitario. L’unico.
«Sediamoci». Lo imitai accomodandomi di fronte a lui.
«Sono qui per calmare le acque» la sua voce ebbe un lieve cedimento, il fatto di essere apparentemente solo con me anziché tranquillizzarlo sembrava innervosirlo. Avevo come l’impressione che non ci credesse molto visto come si guardava attorno.
«Io sono qui per smuoverle». Ancora un sorriso.
«30% a voi, il resto a noi» inarcai un sopracciglio, quindi non demordevano?
«Voi americani siete ammirabili, pure di fronte all'impossibile dettate legge. Ma io sono molto peggio» allargai le braccia come a volermi scusare.
«Allora cinquanta e cinquanta. U-ultima offerta» aveva appena decretato la sua fine, il lento sfumare di quell’affare. Erano bastate due semplici parole per rabbonirlo, insistendo che altro mi avrebbe dato?
«Doveva essere l'altra l'ultima offerta, evidentemente alla gente per cui lavori importa poco, vogliono solo salvarsi il culo. Ottanta a noi, e venti a voi». Lo vidi arrossarsi, l’esplosione era in arrivo.
«COSA?» non mi smentì compiacendomi. Mi alzai dalla sedia facendo il giro, afferrandolo per la bella camicia che indossava sollevandolo quasi di peso. Viso contro viso. Il vecchio sudava, leccandosi perennemente il labbro, mentre i miei occhi duri e canzonatori continuavano a scrutarlo.
«Hai mai giocato alla roulette russa?» insomma chi non la conosceva?
«..No» sorrisi ambiguamente.
«Giochiamo allora!». Sbattei il palmo della mano sul tavolo, la sala si illuminò rivelando decine di uomini intenti a fissarci. Il vecchio aveva avuto ragione sin dall'inizio a sospettare, non era mai stato solo con me. Eppure quella cosa sembrò consolarlo, ne restai ancora una volta stupito, tutto fuorché stare solo con me. Ero così spaventoso? Il sapore acre della consapevolezza non mi rese felice. Presi la mia pistola carica, tolsi tutti i proiettili tranne due. Uno per lui. Uno per me. La caricai passandogliela.
«Se il proiettile non esplode, faremo settanta per noi e trenta per voi» iniziò a tremare, il rischio evidentemente non gli piaceva.
«Se ..se muoio non ne ricaverai nulla. L'accordo salterà» tremò visibilmente fissando l’arma che non riusciva ad afferrare.
«Svegliati, non servi ad un cazzo o non ti avrebbero mandato in pasto al lupo. In pasto a noi. E adesso spara, altrimenti sparerò io e in quel caso non avrai alcuna percentuale di successo» gliela porsi e stavolta l’afferrò. Lo vidi portare l’arma alla tempia, serrando con forza le palpebre, il dito esitò qualche secondo prima di premere il grilletto. Il colpo andò a vuoto. Era salvo. Si accasciò quasi piangendo, gettando la pistola sul tavolo. Scoppiai a ridere piegandomi letteralmente in due.
«E' la tua giornata fortunata vecchio, vai da quegli stronzi per cui lavori e digli che il contratto è stato stipulato. E cambiati le mutande, ti sei appena pisciato sotto». Si alzò cercando di reggersi sulle gambe, fece l’intero tragitto correndo voltandosi diffidente verso di me, l’uomo con l’arma ancora in mano. L’ultima volta in cui i nostri occhi si incrociarono mi vide puntarmela alla tempia e fare fuoco. Nessun suono si udì, evidentemente non era ancora il mio momento.
«Lavorare con te non manca mai di suspense». La voce di Misha coincise col mio sospiro. Ci fissammo e tornai il solito Aleksandr. A quel pensiero la mia fronte si aggrottò involontariamente: esisteva un altro Aleksandr? O era semplicemente il riflesso dello spietato sicario? E Aleksandr Petrov?
 
L’alba mi accolse con un profumo di cibo e un lento canticchiare, mi sporsi fissando la schiena di Sonech’ka intenta a cucinare chissà cosa. Provai a superare l’arco e sgusciare nella mia camera preparandomi mentalmente una scusa decente.
«Dove sei stato?». Mi bloccai imprecando mentalmente.
«Poker. Con Misha». Si voltò afferrando il cellulare componendo veloce un numero, il fatto che lo conoscesse a memoria rendeva palese chi stesse chiamando.
«Misha dove sei? – mi guardò sorridendo apparentemente calma, annuendo – hai visto Shùra per caso?». Mi pressai con due dita la base del naso accanto gli occhi, volendo avrei anche potuto accecarmi. La chiamata venne chiusa e il silenzio regnò sovrano.
«Sonech’ka..» sorrisi e la vidi prendere il coltello fissandomi. Merda.
«Pensi non riesca a tagliarti le palle?». Mossi un passo indietro, era incredibile come non provassi terrore di nulla tranne che di lei. Era più spaventosa del padre.
«Sono stato con Misha sul serio, abbassa quel cazzo di coltello». Ringhiai nervoso quelle parole e stranamente mi obbedì. La fissai confuso.
«Lo so, me lo ha detto, ma la tua espressione era impagabile piccolo bastardino. Non uscire più come un ladro, odio quando ti comporti come se mi nascondessi qualcosa». Mi sorrise divertita e io desiderai urlare e far scendere tutti i santi che probabilmente se la ridevano alle mie spalle. Annuii riprendendo la normale respirazione.
«Che stai facendo?». Mi avvicinai cautamente, fissando il coltello adesso abbandonato.
«I blinciki». Mi fissò in maniera talmente eloquente che per poco non mi inginocchiai ai suoi piedi.

 
 

Mosca, 2004
 

«Perché sei triste, Shùra?». Si sedette accanto a me con l’aria affranta, era tipico di lei assimilare le emozioni altrui.
«Così». Quel giorno ricorreva l’anniversario della notte in cui avevano portato via mio padre.
«Ti mancano i tuoi genitori?». Lei aveva sempre la risposta per tutto, per ogni mia più piccola espressione, ogni minimo sospiro lei sapeva. O così sembrava, forse era solo brava ad intuire.
«Sai cosa faceva mia madre quando ero giù o quando voleva farsi perdonare qualcosa?». La guardai e lei mi sorrise.
«Cosa?» Sonech’ka si sporse verso di me incuriosita.
«Preparava i blinciki di carne, per me»
 

 
Il cellulare si illuminò brevemente, lo afferrai osservando l’icona lampeggiante dei messaggi, aprii e lessi: ‘’Smith non ha gradito, vediamoci al molo a mezzanotte, solito capannone’’. Lo aveva mandato Ivor.
Non avvisai Misha, mi vestii in silenzio lasciando un biglietto a Sophia che dormiva placidamente tra le lenzuola sfatte del mio letto. Mi chinai respirando il suo odore, sapeva ancora di Lillà e Primavera.
Quando arrivai al capannone io sapevo. Non vi era Smith, né nessun americano ad attendermi. Nessun accordo era saltato né lo avrebbe fatto di lì a poco.
Il laccio che mi stringeva e teneva ancorato a quella vita si serrò attorno a me mentre i miei passi rimbombavano all’interno del posto abbandonato, tra file di scatole impolverate e macchinari rotti.
Non li sentii neppure arrivare, probabilmente perché erano già lì. Chinai il capo sorridendo osservando la trappola nella quale ero caduto, mentre un colpo ben assestato feriva la mia tempia costringendomi in ginocchio. Sentii il sangue scorrere caldo e denso, accecandomi gli occhi al pari del dolore che arrivò come uno scoppio improvviso. Le mie gambe potevano anche piegarsi, ma non la mia anima; un secondo colpo arrivò a tradimento, lo bloccai con la mano facendo pressione sulla mazza, rialzandomi lentamente mentre incrociavo gli occhi di Ivor.
 
«Pensi sia così facile far cadere ME?»
 
Forse si, forse sarei caduto al suolo quella notte. Ma in quel preciso istante rividi il bivio trattenendo il respiro: era il momento di scegliere.
 

 
  
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