Era uno sfiorarsi leggero, il loro. Lontano da tutte le urla
delle giornate, lontano dagli scherzi e dalle battutine, lontano dal sangue e
dai cadaveri. Era uno sfiorarsi fatto di carezze invisibili come quelle del
vento, impalpabili come l'aria, inafferrabili come il fumo.
C'era un tacito accordo, tra loro. Un accordo che mai
sarebbe stato detto ad alta voce poiché avrebbe colorato le gote di entrambi di
rosso, o forse, più semplicemente, perché sarebbe sembrato stupido pronunciato
dalle loro labbra e sciocco udito dalle loro orecchie.
Era così e basta, tra loro. Si cercavano per tenersi caldo a
vicenda, ma finivano per spogliarsi -dei vestiti come delle spesse ed
impenetrabili maschere che ricoprivano il volto degli uomini come loro-, poiché
l'idea del toccarsi e toccare la reciproca pelle era ben più appagante che non
quella di stringersi solamente e lasciarsi trasportare dalla corrente.
Amavano studiare i corpi dell'altro con solo la punta delle
dita, immersi nel buio di quelle notti per loro da sempre senza stelle. Si
toccavano, tracciavano i contorni sinuosi delle loro sagome con una dovizia
maniacale, come se di quei momenti ne valesse la vita, come se sentissero che
sarebbero morti se non si fossero conosciuti a memoria.
Dazai partiva dalle tempie e scendeva verso il basso,
lentamente, come se la notte non stesse loro stretta, come se avessero tutto il
tempo del mondo e non la luce del sole alle calcagna.
Gli zigomi alti, il naso aquilino, le guance un poco incavate, le labbra
morbide e schiuse quel poco che bastava per permettere alla lingua di lambirgli
la punta delle dita.
E ancora la mascella decisa, il mento aguzzo, il collo sottile come uno stelo
di margherita, il pomo d'Adamo appena accennato, le clavicole sporgenti.
Poi gli si spostava alle spalle e immergeva il capo tra i
rossi capelli di Chuuya inspirandone il profumo come un cocainomane alle prese
con una dose dopo un'astinenza forzata.
Il petto glabro e i capezzoli piccoli e rosei, duri sotto le sue dita, la vita
sottile che si allargava nei fianchi, comunque snelli, in una forma a clessidra
appena accennata.
Si chinava, piano. Carezzava ogni vertebra con le labbra e la punta del naso
mentre le mani percorrevano ancora il petto ed i fianchi.
Spesso Dazai, soprattutto quando cadeva in ginocchio e le
labbra iniziavano a sfiorare i glutei sodi di Chuuya, sognava di stringerlo
forte a sé, fin troppo. Sognava di lasciargli lividi lì dove passavano le sue
dita, segni tangibili della sua presenza perpetua ed immutabile. Sognava di
affondargli le unghie nella carne, di stringergli i capezzoli tra i denti fino
a farlo urlare e pregare di dargli di più.
Ma non lo faceva -e mai lo avrebbe fatto-. Sarebbe stato come tradirlo, come
rompere il filo che li univa -un filo capriccioso il loro, perennemente teso
allo spasimo, sempre in procinto di rompersi, anche in quei momenti-, e questo
Dazai non avrebbe mai potuto permetterlo. Perché sapeva che Chuuya sarebbe
tornato, sebbene il filo non esistesse più, sarebbe tornato e si sarebbe
lasciato baciare con ardore e segnare la pelle di lividi.
Avrebbe gemuto, se glielo avesse chiesto.
Avrebbe urlato, se glielo avesse ordinato.
Gli avrebbe detto di amarlo se Dazai gli avesse sussurrato
alle orecchie di farlo mentre si spingeva dentro il suo corpo e stringeva tra
le dita -che ormai erano artigli- le sue carni.
Ma tutto sarebbe stato vuoto. Nulla avrebbe avuto senso, non le urla, non le
risa, non i sussulti, né le battutine e i gemiti.
Non i "ti amo".
Dazai non amava una macchina, amava Chuuya, in tutte le sue
mille sfaccettature di vetro, diamante e carbone.
Ne amava i capelli rossi dallo strano taglio, gli occhi azzurri che, alla luce
delle stelle e della luna, parevano color cobalto.
Ne amava la pelle chiara, le ossa sporgenti, il naso irriverente come il
portamento.
Ne amava il suono della risata e lo sguardo che aveva, inconsciamente, quando
lo guardava.
Ne amava la determinazione, la scaltrezza, la furia, l'orgoglio sfrontato e
spesso ferito a spada tratta. Ne amava persino l'esasperante irritabilità.
Ne amava le pieghe sempre differenti che le labbra assumevano, una per ogni
emozione: gioia, disgusto, ilarità, noia, malizia, rabbia. E amava il sapore di
quelle labbra, diverso a seconda delle giornate, ma sempre con lo stesso
retrogusto. Retrogusto che gli ricordava
Chuuya, sempre e in continuazione, Chuuya e la casa che, nelle notti buie, si
erano costruiti nei loro cuori.