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Autore: La_Moltitudine    17/06/2017    2 recensioni
In un futuro distopico in cui uomini dotati di abilità paranormali hanno posto fine alla Crisi in Medioriente e i supereroi fanno ormai parte della quotidianità, Giacomo Pagusa si mette in gioco per diventare il più grande vigilante della sua città. Nel mondo criminale di Sentinella delle Acque, però, una miccia è stata accesa e presto la bomba esploderà. Gli eroi di Sentinella saranno messi alla prova e questo battesimo del fuoco potrebbe richiedere il tributo delle loro vite e quelle di molti altri.
[Per una precisa scelta stilistica i capitoli saranno brevi, verranno pubblicati con una cadenza variabile da 2 a 3 giorni di stacco l'uno dall'altro. Per tutto il corso della storia si alternerano due POV.]
Genere: Azione, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Atto IV

Nella contrade più interna di Sentinella delle Acque, fra i viottoli scuri e i palazzi di pietra calcarea, sorge il centro di origine medievale del paese. In quel luogo la gente rimaneva legata alle antiche tradizioni dei loro padri, si parlava lo stretto dialetto sentinellino: fatto di vocali brevi e consonanti dure. Qui, in questo posto dimenticato dal tempo, Sentinella custodiva i suoi tesori più preziosi e inestimabili: la Cattedrale, con le reliquie dei tre santi patroni; l’antica residenza nobiliare di Lucrezia Borgia con la bugnatura della sua facciata esterna, e, infine, l’ulivo secolare, assunto a simbolo della città, impresso sullo scudo rosso del suo stemma.
Quell’albero aveva visto il paesino crescere dal suo primo nucleo originario. Lo aveva visto evolversi e cambiare, generazione dopo generazione. Ai padri si sostituivano i figli, la gente invecchiava sotto il suo silente sguardo, c’era chi andava, chi veniva, ma lui era sempre lì. Le sue radici scendevano sin nelle profondità della terra e, a vederlo, veniva da pensare che dovesse vivere almeno quanto Sentinella stessa.
Tuttavia, ogni fantasia o credenza era stata vanificata dalla cruda realtà degli eventi: il gigante aveva infine ceduto, logorato dall’inesorabile scorrere del tempo, come lo sono tutte le creature viventi. Nell’ultimo anno i suoi rami s’erano spogliati di foglie e di frutti, lasciando il posto a secchi artigli nodosi; la robusta corteccia era costellata di squarci e ferite da cui scorreva ambrata linfa. Qualcosa lo stava uccidendo dall’interno, se avesse avuto una bocca per gemere forse l’avrebbe fatto. La sua era una sofferenza muta, che trovava voce solo in coloro che vi posavano sopra gli occhi e sentivano quel dolore che si prova nel vedere decadute le cose belle e antiche, simboli di una storia più lunga della vita di qualsiasi uomo.
Dopo numerosi e vani tentativi di rimetterlo in salute, il Comune ne aveva infine ordinato l’abbattimento, affidando l’ingrato compito a Don Calogero Busconi che, data la sua attività di falegname, avrebbe quantomeno riutilizzato tutto quel legno per ridare in qualche modo vita e lustro all’ulivo secolare, anche se in una forma differente. Così, dove una volta sorgeva l’albero di Sentinella, adesso c’era un largo ceppo: lasciato a desolata memoria di ciò che quell’accenno di tronco era una volta. Sugli anelli concentrici impressi dagli anni nel cuore del vegetale, si proiettava l’ombra della Villa Busconi, quel giorno tetra e silenziosa per la morte dell’uomo che l’aveva abitata per tanti lunghi anni.

I funerali di Don Calogero s’erano svolti in pompa magna, e metà del paese era andata ad assistervi. Ma alla sera, a riempire la tenuta, non v’era che la vedova affranta dell’uomo e un manipolo di loschi figuri ben vestiti, riunitisi nella bottega da falegname del vecchio Busconi.
I loro sguardi scorrevano per le pareti, soffermandosi inquietati su quei pupazzi da ventriloquo con cui Don Calogero aveva riempito il suo posto di lavoro, burattini con gli occhi vuoti e senz’anima più dei loro.
Si erano accomodati intorno a un tavolo circolare, alla luce di una lampadina appesa al soffitto e parlavano, parlavano con il tono grave e serioso di tutte le questioni di una certa importanza. I loro volti erano segnati, segnati dal lutto e dalla congerie di preoccupazioni quotidiane per persone della loro pasta, preoccupazioni non comuni alla gente per bene, che conduce una vita onesta e lontana dai malaffari.

-Ora che Don Calò se ne è andato, gli andriesi bussano nuovamente alla nostra porta. – Disse un uomo minuto, con la faccia da roditore e la coppola ben calcata sul capo. – Sono anni che manteniamo l’indipendenza dalla Triade, sappiamo noi con quali e quanti sacrifici. Io dico ‘na cosa: stringiamo alleanza, diventiamo soci e risolviamo il problema!
-E dove sta allora il nostro onore?! –
Protestò un uomo tarchiato, che dal cipiglio pareva uno avvezzo a menare le mani.
-Son d’accordo con Bastianazzo. – Intervenne un altro – Andria, Barletta, Trani, la Triade c’ha tutta la provincia! Dobbiamo combattere, Don Calò questo voleva!
Un uomo alto, secco come un fuscello e gli occhiali tondi in viso, prese la parola, schiarendosi la voce. Il suo nome era Pierangelo Catino, cognato del compianto Busconi e suo socio in affari non esattamente puliti. Dal tono di superiorità che adoperava, si sentiva che almeno a cultura era un gradino sopra ogni altro presente in bottega.

-Signori miei, quietate gli animi. Mio cognato teneva a bada la Triade perché aveva il loro rispetto, cosa che a noi non è data di avere. Questo credo sia un dato di fatto. – Gli altri risposero con un cenno di sofferto assenso. – Non verremo mai trattati come loro pari. Se davvero abbiamo un po’ di onore in corpo e amore per il nostro paesino, dovremmo combattere e tenere le loro sudicie mani lontano dai nostri affari.
-Ma che v’è preso a tutti quanti? Volete davvero scatenare un’altra guerra?! Siete dei folli, io mi chiamo fuo-
l’uomo con la faccia da topo non fece in tempo a concludere la frase, che il volto gli divenne rosso e prese a boccheggiare, nell’inutile tentativo di tirare un po’ d’aria nei polmoni. Un filo sottile gli serrava la gola. Prima che chiunque potesse intervenire, il piccoletto era già bello che stecchito.

Un figuro incappucciato, alto come un bambino, prese il posto appena liberatosi al tavolo, poggiando le sue minuscole mani guantate sul tavolo. Qualcuno, preso forse dallo spavento, fece partire un colpo: la pallottola trapassò il petto dell’incappucciato con un fracasso assordante. L’incappucciato non parve però esserne disturbato e prese a parlare con una calma e una naturalezza che, date le circostanze, avrebbero fatto venire i brividi in corpo a chiunque.

-Ora che le vostre divergenze sono state appianate, direi che è tempo di metterci seriamente al lavoro. – Disse il nuovo arrivato, accennando un risolino.
-Gli ho sparato!! Doveva essere morto! – L’energumeno, con ancora la pistola in mano, si era fatto bianco e pallido come uno straccio, pareva che da un momento all’altro dovesse avere un mancamento.
-Caruso, mantieni la calma. – Disse Catino. – Ci può spiegare di grazia chi è lei e che ci fa qui?! –Continuò, malcelando il groppo in gola che gli era venuto per lo spavento e l’irritazione. Normalmente Catino aveva un’impeccabile autocontrollo, ma una situazione simile avrebbe messo a dura prova anche il più lucido e stoico degli uomini.

-Oh, mio caro zio… ma questa è casa mia, dove altro vuoi che stia? – Replicò il figuro, divertito.
-“Zio”? Conosco Gianni e Caterina da quando erano bambini, non si sono mai interessati all’attività di mio cognato. Quindi ripeto la domanda, chi sei tu?
-Sono ferito, -
lo sconosciuto si portò una mano guantata al petto – come? Non ti ricordi del tuo dolce Marcellino?
Pierangelo sbarrò gli occhi e prese a balbettare, forse per la prima volta in vita sua era sorpreso.
-Ma … ma Marcellino è morto! Non è possibile! È morto che era un bambino!
-Già,
- ancora quell’inquietante risolino ­– ma alle volte i morti ritornano, caro zio.
   
 
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