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Autore: Adeia Di Elferas    25/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Virginio Orsini stava in testa alla colonna dei suoi. Avrebbero puntato subito verso Castellamare di Stabbia, dove avrebbero atteso le navi per il loro rientro in Francia.

Nei giorni passati in attesa di arrendersi, Gilberto di Montpensier aveva mandato lettere a profusione e infine era riuscito a strappare la promessa di un passaggio fino alle terre d'Oltralpe e non era il caso di perdere quell'occasione.

L'esercito filonapoletano osservava gli sconfitti sfilare in processione come penitenti e Francesco Gonzaga si era messo davanti ai suoi uomini, in armatura completa, in sella al suo destriero, per salutare con tutti gli onori l'Orsini e il cognato.

Gilberto era rimasto in chiusura, dopo averne discusso a lungo con Virginio. Era meglio dividersi testa e coda della colonna, in modo da poter tenere sotto osservazione tutta la truppa, evitando dispersioni e inconvenienti.

Il Marchese di Mantova aspettò che l'esercito nemico fosse abbastanza lontano da vedersi solo in modo solo indistinto e, sicuro che ormai la testa della colonna fosse in aperta campagna, anzi, forse già vicina ai boschi, diede l'ordine con un cenno.

Vedendo i prescelti partire, Francesco, soprattutto pensando che presto li avrebbe seguiti, si sentì quanto mai un traditore.

Anche se quella mattina aveva ricevuto la notizia della nascita di una seconda figlia che Isabella aveva voluto chiamare Margherita – evento che lo aveva rallegrato, malgrado avesse disciolto ancora una volta la sua speranza di aver generato un erede maschio – il suo spirito quel giorno era gravato da un'ombra scura e tutto intorno a lui, malgrado il sole accecante di luglio, gli pareva grigio e mesto.

 

La vegetazione si stava facendo man mano fitta e Virginio non sopportava più gli insetti che gli ronzavano attorno, pungolandogli il collo e la faccia.

Cominciava a credere che sarebbe stato meglio fare una strada più lunga, ma più comoda. Tanto, una volta a Castellamare di Stabbia, avrebbero comunque dovuto attendere.

Era ancora infastidito per il rifiuto di Gonzaga, posto all'ultimo momento, che si era detto non più disponibile ad accompagnare di persona le loro truppe, però, visto che adesso erano certi di avere delle navi sicure, Virginio non aveva fatto la voce grossa e si era accontentato di salvare la pelle e lasciarsi Atella alle spalle.

“Ci stiamo sgranando troppo...” sussurrò tra sé, guardandosi alle spalle e cercando di scorgere il resto della colonna tra le piante.

Spronando il cavallo, disse al suo secondo di far rallentare il passo e cominciò a percorrere a ritroso la strada, per raggiungere il Montpensier e chiedergli di far ravvicinare la coda alla testa. Era meglio restare il più compatti possibile. Non potevano ancora dirsi fuori pericolo ed era bene che fosse chiaro a tutti.

Più avanzava, però, più i drappelli di uomini che incontrava erano meno e meno numerosi e alla fine si accorse che la coda dell'esercito semplicemente non c'era più.

Agitandosi, batté i tacchi sui fianchi della sua bestia e andò ancora oltre. Quando trovò i primi cadaveri in terra con i crani spaccati o le gole tagliate, comprese cos'era successo. Fece in fretta retro front, ma non fu abbastanza rapido.

“Fermo dove siete!” gridò un uomo e Virginio si sentì trascinare giù di sella da due paia di mani senza che potesse opporsi.

Ma da dove erano sbucati?

Uno di quelli che l'aveva disarcionato gli fece segno di stare zitto e gli legò le braccia dietro la schiena, mentre l'altro teneva fermo il cavallo.

“Abbiamo già preso il tuo amico, quel maledetto Duca, quello che si fa chiamare Viceré.” sussurrò quello che l'aveva catturato: “E ora se la vedrà con il re Ferrandino.”

“I miei soldati...” fece Virginio, prima che un pugno gli arrivasse nello stomaco, piegandolo in due.

“A loro ci penseranno i contadini.” rise un altro, sbucato da dietro i cespugli: “Avete mangiato alle loro spalle per settimane. Vedrai che questi villici sapranno rifarsi come si deve sulla tua plebaglia...”

L'Orsini avrebbe voluto fare un'ultima disperata azione, andarsene combattendo, che per un uomo d'armi era l'unica morte accettabile, ma quando sentì gli zoccoli di un cavallo battere in terra, venne distratto e voltò il viso per vedere chi fosse arrivato.

Francesco Gonzaga, la spada in pugno, la celata sollevata e gli occhi scuri, lo fissò e poi ordinò ai suoi: “Portatelo al campo. Lo trasferiremo ad Acerra.” poi, con un ghigno storto, si rivolse direttamente all'Orsini: “Almeno là starete insieme a vostro figlio Gian Giordano e al vostro parente Paolo.”

Virginio, che respirava ancora male per il pugno nella pancia, chiese: “Quando li avete imprigionati?”

“Lo chiederete a loro.” rispose Gonzaga.

“Credevo che avessimo un patto!” sbraitò Virginio, sperando che le sue urla venissero avvertite da qualche soldato e inducessero la truppa alla fuga rapida, in modo da salvarsi da quella bieca imboscata: “Gilberto è il marito di vostra sorella! Non siete un uomo d'onore!”

Francesco digrignò i denti e, mentre guardava il vecchio paladino degli Orsini strascinato a viva forza da due soldati, si sentì in procinto di dare ragione al suo nemico. Tutto si sentiva, quel giorno, fuorché un uomo d'onore.

Ignorando Virginio, che stava imprecando a voce altissima, il Marchese di Mantova voltò il suo stallone e gridò ai suoi: “Muovetevi! Re Ferrandino vuole il falso Viceré e il papa vuole il suo prigioniero! Non facciamoli più attendere!”

 

A Firenze era arrivata una lettera del papa, chiusa da sigilli pesantissimi e finemente decorati ed era stata consegnata direttamente nelle mani di Girolamo Savonarola.

Il domenicano, spostando a destra e a sinistra il naso adunco come avrebbe fatto una gallina intenta a becchettare nell'aia, passò in rassegna le pompose parole di Sua Santità e prese nota mentale del fatto che Rodrigo Borja gli stava offrendo su un piatto d'argento una grande occasione.

Se avesse ritirato le sue precedenti asprissime critiche a Santa Madre Chiesa, infatti, astenendosene pure in futuro, Savonarola avrebbe ottenuto il cardinalato.

“Risponderò domani.” rese notò il domenicano alla staffetta a cui il papa aveva ordinato di attendere una risposta in modo da poterla portare a Roma il prima possibile.

Quella notte il frate non riuscì a dormire. C'era qualcosa, nella proposta del Santo Padre, che puzzava di simonia, di corruzione, di truffa. Il cappello cardinalizio lo attirava, come la mela aveva attirato Adamo ed Eva. Con un titolo così importante, la voce di Savonarola sarebbe stata più ascoltata, non più solo a Firenze, ma in tutto il mondo. E allora perché quella porpora gli ricordava solo il giogo che si mette al collo dei buoi?

Il giorno seguente, malgrado le ore di tribolazione notturna, nel cuore di una Firenze infiammata dall'estate, il domenicano salì sul pulpito e guardò i fedeli con occhi da corvo e poi cominciò una dissertazione molto più pacata del suo solito. Così pacata da lasciare di stucco i flagellanti e i Piagnoni che si erano accalcati sotto al trespolo del predicatore.

Appoggiandosi, come se fosse stato stanco di vivere, al bordo del pulpito, il frate concluse in fretta il suo discorso e lasciò i suoi ferventi sostenitori pressoché a bocca asciutta.

Tuttavia, dopo aver attraversato a passo di marcia, scalciando il vestone nero, la polverosa piazza che portava al palazzo della Signoria, Savonarola apparve di tutt'altro cipiglio.

Una volta nella sala del Consiglio, beandosi della presenza dei notabili di Firenze, compreso Lorenzo Medici, detto il Popolano, il domenicano cominciò ad agitare le braccia drappeggiate dalla stoffa grezza e scura del suo saio e ricordò gli anni trascorsi alla 'guida dei fedeli fiorentini'.

Il Gonfaloniere lo guardava perplesso, chiedendosi dove fosse finita tutta la sua proverbiale grinta.

Girolamo incrociò lo sguardo di quel vecchio buono a nulla e qualcosa riprese vigore in lui. Di colpo si accorse di essersi lasciato blandire troppo facilmente e da una promessa che probabilmente sarebbe stata disattesa alla prima occasione.

Le sue parole si fecero sempre più calde, facendosi via via incandescenti, come l'aria ferma che impantanava Firenze in quella torrida estate, mettendo a nudo la proposta indegna e scorretta fatta dal papa per metterlo a tacere, e infine, quando cominciò a rivolgersi direttamente a Dio, la sua voce si fece così forte e tonante da far quasi tremare i vetri delle finestre: “Non voglio cappelli! Non voglio mitrie grandi o piccole! Voglio quello che hai dato ai tuoi santi: la morte! Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!”

L'ultima frase venne accolta da un boato della sala del Consiglio e la confusione che ne seguì fu sufficiente a convincere molti membri della Signoria – in particolar modo tra la schiera dei suoi oppositori – a togliersi di mezzo prima che scoppiasse qualche serio tumulto.

Lorenzo riuscì a lasciare il palazzo tra i primi e corse a casa. Appena varcò la soglia del palazz dei Medici, andò a cercare Semiramide. Dopo aver chiesto a due servi, la trovò nella sala in cui tenevano nascosti gran parte dei tesori di famiglia, tra cui le tele di Botticelli.

Oltre a quelle opere, c'era anche la nuova prodezza di Filippo Lippi, l'Adorazione dei Magi. A Semiramide piaceva soprattutto perché il pittore vi aveva ritratto anche il suo Lorenzo, e pure suo cognato Giovanni. Poterlo rivedere in ritratto, ora che era lontano, la confortava parecchio.

“Cosa c'è?” chiese la donna, vedendo il marito sconvolto.

“Noi si deve andar via. Star via per un po'. Qui si rischia la pelle.” fece il Popolano, quasi senza fiato: “Quel pazzo di Savonarola sta per fare un colpo di Stato! Lasciamo tutto in mano ai nostri amministratori e mettiamo più terra possibile tra noi e quel frate.”

Semiramide ebbe un istante di smarrimento, ma subito si riprese e annuì: “Partiamo subito. Facciamo partire subito Simone, abbiamo aspettato anche troppo. Deve spiegare a tuo fratello cosa sta capitando a Firenze. Ma prima, tu vai a parlare con gli amministratori della banca, io mi occupo di quelli dei campi. Andiamocene alla villa del Trebbio. Da lì partiamo per le Fiandre.”

Lorenzo emise un lento sospiro, rincuorato come sempre nel trovare nella moglie qualcuno su cui contare, e poi le scoccò un bacio sulle labbra: “Ce la caveremo anche questa volta.” promise.

 

Michelangelo stava passando in rassegna per l'ennesima volta le statue della collezione privata del Cardinale Sansoni Riario.

Il suo mecenate lo seguiva a breve distanza, assorto nella contemplazione di quelle opere che ormai conosceva a memoria e l'artista lo sentiva come una presenza ingombrante e fastidiosa.

Se taceva, il porporato faceva troppo rumore con i tacchi, e, se parlava, cianciava di cose inutili e che a Michelangelo non interessavano.

Inoltre, più il Cardinale cercava di fare sfoggio della sua cultura, più rendeva palese la sua sconfinata ignoranza.

Un paggio arrivò di corsa nella galleria e cominciò a parlare a bassa voce con Raffaele e finalmente l'artista si sentì libero di osservare davvero quel prezioso insieme di marmi e pietre.

Potendo una volta tanto sfuggire allo sguardo attento e ansioso del Cardinale, l'artista passò con lentezza una mano su una coscia scolpita nel marmo, poi su una chioma incisa nel gesso e così via, acquisendo quella conoscenza tattile che trovava indispensabile per uno scultore.

Sentì a un certo punto il porporato esclamare: “Dio sia lodato! Lo sapevo che alla fine l'avrebbe liberato!”, ma, non provando il minimo interesse per quello che riguardava la vita del suo mecenate, continuò la sua ispezione.

'Ma che hanno più del mio Bacco?' si chiese, controllando con la punta dell'indice la profondità di un solco tra le scapole di un atleta immortalato nella pietra.

Ancora non aveva digerito il fatto che il progetto per la sua statua di Bacco, iniziata a meno di due settimane dal suo arrivo a Roma, non fosse piaciuto al Cardinale. O almeno, Raffaele Sansoni Riario, da bravo caprone, non aveva colto il valore dell'innovazione messa in opera da Michelangelo.

Le fattezze morbide del Bacco, il bambino che ruba l'uva... Tutte quelle cose erano ancora in forma embrionale, eppure il porporato pareva già averle bocciate in toto.

Al giovane artista era parsa una mancanza di fiducia e rispetto oltraggiosa. Era andato via da Firenze per sfuggire a quelle volpi assetate di denaro che erano i Medici e si era trovato tra le grinfie di un uomo buono solo a spender soldi.

Avrebbe continuato ugualmente a scolpire il suo Bacco, senza lavorare ad altro, come invece il Cardinale avrebbe voluto.

Nel caso in cui Raffaele Sansoni Riario non avesse voluto nemmeno l'opera finita, Michelangelo aveva già deciso di lasciarla in casa di Jacopo Galli, per sdebitarsi della sua ospitalità, dato che, dopo tante promesse e parole, il Cardinale ancora non gli aveva trovato un alloggio personale e il povero intermediario aveva dovuto volente o nolente tenersi in casa l'ospite.

Quando il religioso ebbe congedato il paggio, Michelangelo ritrasse all'istante la mano dalla statua che stava studiando e lo guardò con un sorriso un po' ipocrita sulle labbra: “Avete ricevuto buone notizie?” chiese.

“Ottime!” esclamò l'altro, così raggiante da avere perfino la punta del lungo naso rossa come il fuoco: “Mio cugino Ottaviano, il padrone di questo palazzo, è vivo e vegeto! È stato liberato ed è di nuovo a capo del suo Stato!”

L'artista, che non sapeva nemmeno di chi stesse parlando il religioso, si sforzò di protrarre il sorriso quel tanto che bastava per non sembrare scortese e poi ritornò a osservare le opere dei maestri dell'antichità, trovandole molto più interessanti di un Cardinale allampanato che si stringeva le mani al petto e ridacchiava tra sé come una bambina eccitata.

 

Alessandro VI disgregò con la sola forza della sua grossa mano il guscio della noce che teneva tra le dita: “Dunque è vivo.”

La spia, che il papa aveva deciso di incontrare in uno dei salottini più bui e sconosciuti del Vaticano, annuì, mettendo in mostra la stempiatura che non nascondeva più una grossa cicatrice, forse memoria di una vecchia ferita di guerra o di una rissa da osteria.

Il papa spazzò via i resti della noce e cominciò a picchiettare con le dita sulla scrivania. Aveva sperato con tutto se stesso che il suo figlioccio non arrivasse vivo alla fine dell'epidemia. Aveva anche sperato che quella bestia feroce della madre lo uccidesse per qualche suo motivo. E invece niente, Ottaviano Riario era ancora vivo. E anche pensare di farlo uccidere, con gli occhi della Sforza di certo puntati su di lui come due fari di Alessandria, non era certo un gioco da ragazzi.

“Che altro sappiamo?” chiese il Santo Padre.

La spia si schiarì la voce e disse: “Non sembra che stia riprendendo il ruolo del Conte. Non incontra nessuno, parla molto poco. L'ambasciatore di Milano ha provato ad avvicinarlo, ma pare che il ragazzo sia scappato non appena ha sentito chi lo mandava. Lo hanno visto solo alla rocca e appena fuori da Ravaldino, mai più in là, e lo descrivono tutti come un gatto spaventato.”

Rodrigo fece uno sbuffo divertito: “Figlio di una Leonessa, ma lo chiamano gatto.”

“Avete altri ordini?” chiese il delatore, dopo un momento di silenzio.

Il papa scosse il capo e gli fece segno di andarsene con un gesto infastidito della mano. Doveva aspettare che arrivasse suo figlio Juan. Ormai mancava poco. Gli aveva scritto per dirgli che sarebbe partito a fine mese. In un paio di settimane e sarebbe stato lì.

Giovanni Sforza continuava a prenderlo in giro con risposte vaghe e finti fraintendimenti. Quello squilibrato di Savonarola aveva aizzato la folla scatenando il pandemonio a Firenze. La sua Vannozza non voleva più vederlo da quando aveva saputo dei suoi muti litigi con Cesare. Ci mancava solo la salute ferrea del Conte di Forlì!

Alessandro VI si sentiva circondato dalle catastrofi. Se Dio si accaniva a quel modo su un papa, che cosa faceva coi poveri plebei?

Se non altro, ragionò tra sé il pontefice camminando sopra i pezzi di mallo e gheriglio di noce che aveva sparso per terra, Virginio, Paolo e Gian Giordano Orsini erano finalmente in mano sua.

Una pedina alla volta, avrebbe sterminato e distrutto quei dannati traditori, partendo dai più indifesi fino a mettere in ginocchio quella strega malefica di Bartolomea Orsini e il suo orrendo marito.

 

Gli ultimi giorni di luglio erano infuocati, a Forlì. Caterina era appoggiata alle merlature della rocca e riusciva a sopportare il contatto con la pietra scaldata dal sole solo perché ormai stava scendendo la sera.

Aveva scelto quella posizione privilegiata per osservare Ottaviano, che, da almeno un'ora, era in piedi davanti alla statua di Giacomo Feo che era stata eretta davanti a Ravaldino.

Il ragazzo era immobile, le braccia inermi lungo i fianchi e lo sguardo rivolto a quello di bronzo dell'uomo che aveva voluto morto.

Da quando era stato liberato, il figlio della Contessa si comportava in modo abbastanza apatico e stava facendo un po' fatica a riabituarsi a stare con gli altri. Non parlava praticamente mai e sembrava molto sorpreso, quando qualcuno gli si rivolgeva.

Tutti gli abiti che aveva gli erano ormai passati di taglia e così, fin dalla sua prima apparizione pubblica, aveva dovuto usare quelli del castellano e poi quelli prestatigli da alcuni nobili della città.

La madre aveva deciso di permettergli di farne confezionare un paio, ma Ottaviano non aveva ancora preso contatti con il sarto di corte.

“Mia signora...” fece Luffo Numai, arrivando alle spalle della Tigre.

Caterina sospirò, ricordandosi come fosse stata lei stessa a pregare il Consigliere di raggiungerla lì non appena avesse ritrovato nelle vecchie carte quello che le interessava.

“Avevate ragione.” fece l'uomo, porgendole un vecchio pezzo di pergamena: “Quando Giovanni Bentivoglio è corso qui assieme agli uomini di vostro zio per aiutarvi contro gli Orsi, effettivamente gli Orcioli e i Marcobelli avevano stretto dei patti preliminari con lui, con l'accordo di proporveli e discuterne in un secondo momento.”

La Tigre guardò la firma in calce dei due capifamiglia che sette anni dopo aveva fatto giustiziare e per un fugace istante sentì lo stomaco andare sottosopra.

“E come mai i Bentivoglio non hanno più avanzato pretese?” chiese la donna, rendendo il foglio al Consigliere.

Le pareva quanto meno ridicolo, se pensava alle pressioni che Giovanni Bentivoglio aveva provato a farle per indurla a fare un compromesso tra Bianca e Astorre. Forse che il signore di Bologna era più incline a concedere in matrimonio un nipote, piuttosto che una delle proprie figlie?

Luffo si grattò la tempia, mentre i suoi occhi attempati correvano verso la statua del Barone Feo e si fissavano su Ottaviano, ancora immobile a rimirare il bronzeo profilo della sua vittima: “Be', se ricordate, subito dopo è successa quella brutta storia... Francesca Bentivoglio che ha ucciso il padre di Astorre Manfredi...”

Caterina sbuffò: “Avete ragione.” poi diede un'ultima occhiata a Ottaviano e decise: “Contattate Giovanni Bentivoglio. Sua figlia Isotta è ancora nubile e possiamo far pesare questo accordo preliminare per forzare un matrimonio.”

“Siete sicura che sia la strada giusta?” si permise di chiedere Numai.

Caterina si morse il labbro e poi alzò le spalle: “A questo punto, o lo faccio sposare, mandandolo via da qui, o lo faccio entrare in monastero. Quale scelta credete andrebbe a rendere più forte la mia famiglia?”

Luffo dovette dar ragione alla donna e si congedò con un mezzo inchino: “Riferirò al vostro cancelliere la vostra decisione.”

“Quando l'avrete fatto – concesse Caterina – potete anche tornare a casa. Per oggi non avrò più bisogno di voi.”

Dopo aver salutato Numai, la Tigre andò nello studiolo del castellano, per sentire se ci fossero novità di cui dovesse essere informata.

Cesare Feo non aveva nulla da riferirle, ma in breve arrivò l'Oliva per dirle: “Abbiamo scoperto dove vive vostra madre, Bona di Savoia.”

“Dov'è?” chiese la Contessa, lasciando la poltrona che era stata di Giacomo e facendo cenno al capo delle sue spie di andare nel corridoio.

Per quanto si fidasse pienamente del suo castellano, quel genere di discorsi era bene che avessero il minor numero di testimoni possibile.

“A quanto pare si trova a Fossano. Suo nipote Filiberto le ha concesso un piccolo feudo.” spiegò l'Oliva, a voce bassa.

La donna non se n'era avveduta, infatti, ma dalle scale stava arrivando l'ambasciatore di Firenze e forse sarebbe stato bene non lasciar sentire nemmeno lui.

“Va bene.” soppesò Caterina, pensando che a Bona era andata molto meglio che alla povera Isabella d'Aragona, che, per quel che ne sapeva, stava ancora tra quattro mura a Pavia: “Mandatele la lettere che vi dicevo.”

“Con solo quel messaggio?” chiese l'altro, occhieggiando verso il fiorentino, che si stava facendo sempre più vicino.

“Sì. Anzi – fece la Tigre, accigliandosi – ditele anche che mio figlio è morto nell'epidemia come mia mia madre Lucrezia. E auguratele di restare in buona salute il più a lungo possibile.”

L'Oliva annuì e poi, a beneficio della sua signora che, trovandoselo alle spalle, non poteva accorgersi dell'incombere di Giovanni Medici, esclamò: “Ambasciatore, buona sera!”

Caterina ringraziò l'Oliva e poi si voltò verso il toscano: “Cercavate me?”

Giovanni salutò il milanese che ripartì all'istante per adempire ai suoi compiti e poi si concentrò sulla Contessa: “Simone Ridolfi arriverà domani.”

La donna, che aveva chiesto di essere informata per tempo, inclinò il capo di lato: “Avete già trovato per lui una sistemazione?”

“Certo, sia per lui che per il suo seguito.” confermò il fiorentino.

“Quanti sono?” si informò Caterina, notando una vaga insofferenza nello sguardo limpido dell'ambasciatore.

“Una quindicina.” rispose Giovanni con un sospiro: “Ma vi assicuro che non vi daranno noia.”

La Tigre fece un breve sorriso e lo rassicurò: “Se lo dovessero fare, non temiate, so come scrollarmi di dosso gli ospiti indesiderati.”

E con quella sentenza, la Contessa passò accanto al Popolano, dedicandogli un leggero tocco sulla spalla, a mo' di incoraggiamento.

Il fiorentino restò qualche momento fermo al suo posto e poi, quando vide il castellano mettere la testa fuori dallo studiolo, forse in cerca della Tigre, ne approfittò per sbrigare quella formalità anche con lui: “Messer Feo, ho da annunciarvi l'arrivo di una piccola delegazione da Firenze...”

 

Beatrice si faceva aria con uno dei suoi grandi ventagli e guardava dalla finestra, come a convincere il sole a tramontare più in fretta per lasciare il posto al ristoro di una sera più fresca.

L'inizio di agosto era una tragedia, tanto a Vigevano quanto a Milano, e la Duchessa non riusciva a decidere quale delle due dimore fosse meno opprimente in quelle lunghe giornate di afa e interminabili nottate di zanzare.

Le sue dame di compagnia stavano facendo del loro meglio per adempire alle sue richieste, ma anche loro erano visibilmente stremate dal caldo e molte avevano mollato gli ormeggi.

Appoggiando le gambotte sul bordo del divano che stava davanti alla sua poltrona, Beatrice ordinò alle due che stavano cantando di smetterla e di mettersi dove volevano, al fine di trovare un po' di ristoro in qualche filo d'aria.

Anche creare un minimo di corrente con più finestre spalancate era un'utopia quel giorno.

Aveva avuto un bel coraggio, Ludovico, a uscire per controllare i suoi gelsi. Beatrice l'avrebbe anche seguito, ma il medico l'aveva pregata di stare attenta. Quella gravidanza era preziosa e con i mesi torridi non c'era da scherzare.

Anche Bianca Giovanna, nella sua ultima lettera spedita da Bobbio, oltre alle sue precise e puntuali annotazioni sulle stranezze dei due fratelli Dal Verme, aveva raccomandato all'amica carissima di riguardarsi: 'Poiché in pancia portate di certo un altro erede al Ducato di mio padre'.

“Lucrezia...” fece la Duchessa, puntando col tozzo indice la Crivelli, che stava leggiucchiando seduta nella nicchia della finestra, stravolta dal caldo almeno quanto lei: “Venite a farmi aria con il ventaglio. Ho il braccio stanco.”

La dama di compagnia lasciò il suo posto, chiudendo il libro e appoggiandolo al tavolino. Era sudata e aveva pesanti occhiaie. Beatrice notò quei dettagli, ma non le passò per la mente nemmeno per un istante l'idea che quella donna fosse troppo affaticata per servirla. Se aveva abbastanza energie per incontrarsi con Ludovico, ne aveva di certo abbastanza anche per agitare una ventarola a bandiera di pizzo.

Lucrezia prese il ventaglio della Duchessa e, standole accanto in piedi, cominciò a sventolarla.

Dopo qualche minuto Beatrice socchiuse gli occhi, rabbonita dall'aria che le sfiorava la faccia e fu quasi sul punto di assopirsi.

Scossa dall'inizio di un brutto sogno, però, sollevò le palpebre quel tanto che bastava per mettere a fuoco ciò che le stava davanti.

Fu un guizzo improvviso e imprevisto. Vide la Crivelli mettersi con delicatezza una mano a conca sul ventre e fare un'espressione un po' sofferente.

Aprendo di più gli occhi, anche se la dama di compagnia aveva già allontanato la mano dalla propria pancia, Beatrice scrutò ciò che l'abito troppo stretto non riusciva a nascondere a uno sguardo attento e indagatore come il suo. Era una cosa quasi impercettibile, ma la moglie del Moro sapeva di non sbagliarsi.

Saltando in piedi come una furia, la Duchessa abbaiò a tutte le altre di andarsene e intimò alla Crivelli di restare.

Una volta sola con la più vecchia delle sue dame di compagnia, Beatrice le strappò di mano il ventaglio, spezzandolo in due: “È suo?”

“Non capisco...” si schermì la donna, facendo un passo indietro.

Non aveva mai visto la sua signora così furente e temeva che potesse fare qualche gesto inconsulto.

“Hai capito benissimo.” l'attaccò Beatrice, sibilando: “È suo?”

Lucrezia si portò protettiva entrambe le mani al grembo e, gli occhi che si riempivano di lacrime silenziose, rispose: “Sì.”

La Duchessa si pietrificò. Anche se lo sentiva, aveva sperato che non fosse così.

“Aldamàr! At arbalt indré copa!” ululò, dando uno spintone alla Crivelli e correndo alla porta, lasciando che la sua anima ferrarese si riaffacciasse per la prima volta, forse, da che si trovava nel Ducato del marito.

“Fògat!” concluse, voltandosi per un'ultima volta verso la dama di compagnia che, terrorizzata da quello che sarebbe accaduto, la fissava con occhi sgranati.

Senza dire più una parola, Beatrice batté il piccolo piede in terra e i pugni sui fianchi e lasciò la stanza quasi di corsa, andando a cercare il nipote di suo marito, Ermes.

Quando lo trovò gli ordinò: “Andate nel campi dei gelsi e portate mio marito qui. Subito!”

 
   
 
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